Sono in
aumento in tutta Italia le amministrazioni comunali nelle quali i terreni
edificabili stanno ritornando agricoli. Vi abbiamo già raccontato
l’esperienza di Rivalta di Torino,
dove nel 2013 la Giunta comunale ha censito e chiesto a tutti i proprietari di
aree edificabili di rinunciare ai diritti edificatori già acquisiti e di
ritornare alla destinazione agricola. Questa proposta di revisione del PRGC
(Piano Regolatore Generale Comunale) è stata accolta in modo favorevole dalla
cittadinanza e diversi proprietari hanno scelto di ridestinare i loro terreni
agli usi agricoli. –
Secondo gli
ultimi dati ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca
Ambientale) la superficie di territorio che viene consumato ogni giorno in
Italia non accenna a diminuire, malgrado la necessità di nuove costruzioni non
sia giustificata né dall’attuale congiuntura economica, né dall’andamento
demografico della maggior parte dei Comuni italiani. Tuttavia esistono molte amministrazioni
virtuose che hanno deciso di dire basta al consumo di suolo non solo a
parole, ma anche nei fatti e l’iniziativa sperimentata con successo da Rivalta
è stata replicata anche da capoluoghi importanti come Reggio Emilia e Bologna.
Qualche
settimana fa, l’amministrazione comunale di Reggio Emilia – attraverso una
Delibera di Giunta – ha proposto di
cancellare dal Piano Strutturale Comunale (PSC) vaste aree che erano già state
classificate come edificabili, ma che sono rimaste inutilizzate per anni, e di
riclassificarle ad uso agricolo. L’amministrazione non può in alcun modo
obbligare i titolari di diritti edificatori a rinunciarvi, eppure la risposta
dei cittadini è stata singolare: complice anche la crisi economica e le
crescenti imposte sui beni immobili, molti proprietari hanno espresso la chiara
volontà di rinunciare ai tali diritti, per una superficie totale di circa
320.000 mq (cioè 32 ettari di terreno, di cui circa 20 ad uso residenziale e 12
ad uso industriale).
Pochi anni
fa sarebbe stato impensabile sia immaginare un‘iniziativa pubblica di
questo genere sia la rinuncia da parte dei proprietari a titoli edificatori
acquisiti per riconvertire all’agricoltura aree già destinate all’edilizia e
all’industria. “Le città non crescono più”, ha spiegato alla stampa l’assessore
all’Urbanistica, Alex Pratissoli. “La nostra decisione non fa altro che
assecondare una tendenza del mercato già in atto: la crescita demografica della
città è ferma da anni, l’industrializzazione anche. Oltre a questo, reputiamo
un valore non incoraggiare il consumo del suolo, ma al contrario valorizzare il
patrimonio edilizio già esistente. Il nostro è, prima di tutto, un tentativo di
riconoscere valore al lavoro agricolo – ha dichiarato Pratissoli – perché ci
troviamo al centro di una regione che produce eccellenze in campo alimentare.
Il cambiamento da noi introdotto non vuole rappresentare solo un vincolo di
tutela paesaggistico, ma anche sostenere un mondo per noi di assoluta
importanza”.
Dello stesso
avviso l’amministrazione comunale di Bologna, dove la Giunta ha deciso di bloccare
l’edificabilità e cancellare gli ambiti di sviluppo in 4 vaste aree (Pioppe,
Nuova Corticella, San Vitale, Savena) sule quali erano previsti nuovi
insediamenti per una superficie totale di oltre 2 milioni e mezzo di mq (257
ettari circa) e di favorire, invece, gli interventi di riqualificazione del
patrimonio edilizio già esistente. Il Piano Strutturale Comunale (PSC) di
Bologna – entrato ufficialmente in vigore a settembre 2008 – stabilisce gli
orientamenti generali che guideranno lo sviluppo urbanistico della città nei
prossimi vent’anni, ma come ha dichiarato il Sindaco, Virginio Merola, “lo
scenario è cambiato dal 2008. A Bologna non si costruisce più”.
“Allora sembrava
un successo”, ha spiegato Merola alla stampa, “essere riusciti ad approvare il
PSC in 3 anni. Ma lo scenario, da allora, si è profondamente modificato. C’è
stata la crisi economica, ci sono molti alloggi invenduti in città, ci sono i
comparti del Lazzaretto e del Mercato Ortofrutticolo che devono essere finiti.
E poi c’è stata una riflessione, anche nell’ambito della nuova “città
metropolitana”, sul consumo del suolo. C’è stato un salto nella discussione
urbanistica e, ora, non si parla più di nuovi insediamenti, ma di rigenerazione
dell’esistente. Si può avviare una discussione, nell’ambito della formulazione
del futuro Piano Regolatore Metropolitano (PRM). Però penso che la strada sia
sempre quella di lavorare sulla riqualificazione più che su nuovi insediamenti”.
Gli ultimi
dati Ispra indicano che dal 1956 al 2012 il 7,3% – in media – del
territorio italiano è andato irrimediabilmente perduto: ciò significa che un
eventuale ripristino dello stato ambientale preesistente all’attuale è ormai
impossibile o, in alcuni casi, estremamente lungo e costoso. In Italia,
ammonisce l’ISPRA, il consumo di suolo viaggia al ritmo impressionante di circa
8 mq al secondo anche se la continua realizzazione di unità immobiliari non
appare giustificata né dall’attuale congiuntura economica, né dall’andamento
demografico della stragrande maggioranza dei Comuni italiani.
Tante
amministrazioni locali, a causa del patto di stabilità e dei tagli nel
trasferimento delle risorse dagli enti centrali a quelli periferici, considerano
gli oneri legati alla cementificazione come le uniche entrate certe che
permettono di “risanare” i bilanci comunali” e assicurare il regolare
funzionamento della macchina amministrativa e l’erogazione dei servizi. Ma –
oltre all’inopportunità di costruire nuovi alloggi quando si potrebbero
ristrutturare e riqualificare dal punto di vista energetico quelli esistenti
dando ugualmente lavoro a tante persone – spesso i comuni italiani dimenticano
che ad ogni edificio costruito ex novo su un terreno libero, corrisponde un
aumento dei costi di allestimento e gestione di servizi essenziali come
fognature, strade, illuminazione pubblica, trasporti, ecc. che sono a carico
dell’intera collettività, generando un circolo vizioso dal quale è difficile
uscire.
Molti comuni
e città italiane, invece, stanno cercando di spezzarlo e di andare
controcorrente. In queste amministrazioni virtuose i Piani Regolatori
non vengono “sovradimensionati” allo scopo di iniettare nelle casse comunali la
liquidità proveniente dagli oneri di urbanizzazione, ma vengono fortemente
ridimensionati o bloccati. E, dal momento che la modifica dei Piani Regolatori
è un’operazione molto lunga, alcune città hanno scelto di ridurre i tempi
chiedendo esplicitamente ai proprietari di terreni di valutare la rinuncia ai
diritti edificatori per tornare alla destinazione agricola. Una mossa rischiosa
che, contro ogni previsione, si sta rivelando vincente.
Come ci
ricorda la FAO – che ha proclamato il 2015 “Anno Internazionale dei Suoli” - il suolo
è una delle fonti primarie di cibo e base di partenza della maggior parte delle
filiere alimentari. Un terreno sano e incontaminato non è importante solo per
l’approvvigionamento di cibo, ma è anche un ambiente vitale: è popolato da
miriadi di microorganismi, insetti e animali, ha una capacità naturale di
regolare i flussi d’acqua ed ha un ruolo attivo nel mantenere in equilibrio i
cicli di elementi importanti alla vita, come l’azoto e il carbonio. Non
dobbiamo mai dimenticare, avverte ancora la FAO, che la risorsa-suolo non è
rinnovabile e che, nei casi migliori, i processi rigenerativi sono estremamente
lenti (servono 1000 anni perché si formi 1 solo cm di terreno fertile). Per
questo è fondamentale interrompere i processi poco accorti e lungimiranti di
gestione del territorio a tutti i livelli, tra i quali anche la
cementificazione selvaggia delle superfici.
fonte: http://www.italiachecambia.org