Uno degli argomenti più utilizzati dai fautori delle trivellazioni riguarda gli impatti occupazionali
che deriverebbero dalla vittoria dei SI al referendum. In effetti, le
ricadute ci sarebbero ma, contrariamente alle preoccupazioni amplificate
dalle industrie del comparto, in senso decisamente positivo.
La
sospensione delle estrazioni al termine delle concessioni riguarderebbe
infatti il ricollocamento, dopo le operazioni di messa in sicurezza dei
pozzi, di un numero limitato di persone nell’arco di
una decina di anni. La chiusura delle attività di estrazione entro le 12
miglia vedrebbe, d’altra parte, un progressivo aumento di occupati sul
versante della pesca e del turismo.
In
realtà, la partita che si gioca il 17 aprile è destinata ad avere una
valenza ben più elevata, anche dal punto di vista dei posti di lavoro
che si potranno creare. Come già successo nel caso del referendum sul
nucleare, l’intera strategia energetica del paese verrebbe rimessa in discussione.
Allora
si impedì una scelta che avrebbe fatto gettare al vento miliardi euro
in investimenti inutili (si stanno chiudendo 23 centrali, figuriamoci se
si fossero completate quelle nucleari) e avrebbe portato l’Enel
sull’orlo del fallimento proprio mentre gli scenari energetici
mondiali andavano in un’altra direzione.
Anche
oggi, si tratta di cogliere l’accelerazione in atto dopo la COP21 che
si sta manifestando in scelte coraggiose che vanno dalla Cina all’India,
dagli Usa alla Germania. L’Italia, invece, è tra i pochi paesi
assolutamente impermeabili al forte messaggio di trasformazione partito
da Parigi.
Ed esattamente una
settimana dopo il referendum, il 22 aprile Giornata mondiale della
Terra, Renzi volerà a New York per partecipare alle Nazioni Unite alla raccolta delle adesioni formali all’Accordo sul Clima.
Ma ci andrà a mani vuote, a meno che gli annunci come quello del
premier Renzi di volere raggiungere in tempi brevi la quota del 50% di
produzione elettrica da rinnovabili (un primo risultato del referendum)
si traducano rapidamente in strumenti concreti.
L’Italia
finora ha potuto esibire risultati interessanti sulle rinnovabili e
sulla riduzione delle emissioni. È come se il governo dicesse: abbiamo
già dato. Ma si tratta di un grave errore politico e di prospettiva, che si riflette anche nella posizione assunta sul referendum.
Non
è che le politiche di Obama, Merkel, Xi Jinping siano esenti da
contraddizioni: pensiamo alle problematiche ambientali statunitensi del
fracking, all’uso della lignite tedesca, all’inquinamento delle città
cinesi. Ma sono leaders che danno l’impressione di avere una visione che
li ha portati ad avviare una profonda trasformazione dei sistemi
energetici.
Quello che manca a noi è proprio questo. Non abbiamo uno straccio di scenario di decarbonizzazione al 2050
che ci dica se certi investimenti siamo sensati o meno. Manca un
percorso che indichi come arrivare agli obiettivi al 2030. E rispetto
alla richiesta di Germania, Francia, UK e Parlamento europeo di alzare
gli obiettivi 2030, noi stiamo con la Polonia che non vuole toccare i
modesti obiettivi su efficienza e rinnovabili, malgrado i risultati di
Parigi (sotto 2 °C, possibilmente verso 1,5 °C) impongano un salto di
qualità.
Le ricadute di un cambio di marcia coerente con gli impegni di Parigi potrebbero in effetti essere straordinarie.
Gli ultimi quattro anni hanno infatti visto prevalere un atteggiamento punitivo nei confronti delle rinnovabili e dell’efficienza energetica
e una scarsa attenzione sui nuovi fronti che si stanno aprendo a
livello internazionale, come quelli della riqualificazione spinta degli
edifici o della mobilità elettrica.
Nei prossimi mesi l’Italia saprà, nell’ambito della Effort Sharing Decision, quale sarà la sua quota di riduzione del 30% delle emissioni non ETS al 2030 rispetto
al 2005. Questo obiettivo imporrà un deciso salto di qualità,
considerando che, a livello europeo, si stima che con le attuali
politiche le riduzioni arriveranno solo al 20%. E per di più, dopo i
risultati della Conferenza di Parigi, è probabile che gli obiettivi
europei al 2030 verranno innalzati.
Ricapitolando, l’impatto occupazionale della progressiva chiusura dei pozzi sarà trascurabile. Al contrario, i risultati del referendum lancerebbero un messaggio forte al governo,
come già successo in passato con il referendum sul nucleare, per
l’avvio di una nuova strategia energetica, una svolta che potrebbe
garantire un forte numero di nuovi occupati.
La nostra valutazione è che si potrebbero attivare almeno 100.000 posti di lavoro
grazie ad una svolta su diversi fronti: dalla riqualificazione spinta
dell’edilizia, passando al retrofit di interi edifici e quartieri a
fianco agli interventi su singoli appartamenti, alle biomasse termiche
accompagnate da politiche sulla gestione sostenibile del patrimonio
forestale; dallo sviluppo del biometano con un potenziale quadruplo
rispetto alla produzione di gas nazionale estratto entro le 12 miglia,
al revamping dell’eolico accompagnato da realizzazioni di nuovi parchi,
inclusi quelli off-shore; dal fotovoltaico in abbinamento con sistemi di
accumulo, allo sviluppo della mobilità elettrica.
In questi e altri comparti ci sono tutte le possibilità per garantire un ruolo incisivo dell’Italia,
con soluzioni innovative in grado di valorizzare il know how delle
nostre imprese anche a livello internazionale dove si sta giocando una
partita tutta spostata verso le tecnologie della decarbonizzazione.
Ricordiamo che gli investimenti mondiali sulle rinnovabili nel 2015 sono
stati del 60% più elevati della somma di quelli delle nuove centrali
elettriche a carbone, a gas e nucleari.
Un altro elemento su cui fare chiarezza riguarda le grandezze in gioco.
La
domanda di metano è in drastico calo, con un taglio del 27% tra il 2005
e il 2014. Stesso trend per la domanda petrolifera. Tra il 2000 e il
2014 la riduzione è stata del 39%.
Se si sfruttassero tutte le riserve certe e anche quelle probabili (50% di possibilità di produzione) si garantirebbero due anni di consumi di gas e tre anni di petrolio (i valori relativi ai giacimenti entro le 12 miglia sarebbero decisamente più bassi, in particolare per il petrolio).
Le
48 piattaforme di produzioni attive nella produzione di metano più 5 di
supporto (5 estraggono anche petrolio, una di queste solo petrolio)
presenti entro le 12 miglia hanno contribuito nel 2015 per il 27% alla
produzione nazionale di metano, cioè al 2,7% della domanda nazionale (10
giorni di consumi di metano), mentre la produzione di petrolio è stata
pari all’1% dei consumi di greggio (4 giorni di consumi di petrolio),
pari a tre petroliere in un anno.
Nel merito del quesito referendario bisogna segnalare come esso riguardi l’automatico allungamento delle concessioni a scadenza che, se passasse, comporterebbe due gravi conseguenze:
la possibilità di sfruttare tali giacimenti sempre nei limiti della
franchigia, eludendo il dovuto versamento delle royalties, e l’elusione
dell’obbligo di smantellamento delle piattaforme che, in assenza di
termine resterebbero sine die.
Va poi sottolineato un fatto su cui si fa spesso confusione. Il gas e il petrolio estratti sono di proprietà delle società, italiane e straniere, che li estraggono
e li vendono poi all’Italia, o ad altri paesi, a prezzi di mercato. Il
nostro paese dunque deve mettere su un piatto della bilancia le tasse e
le royalties (molto basse rispetto ad altri paesi e che, grazie alle
franchigie concesse, vengono pagate solo da un quarto delle piattaforme
operanti entro le 12 miglia) a fronte dei danni alla pesca, al turismo e
a quelli ambientali.
Su questi occorre avere un quadro chiaro, visto che emergono in continuazione elementi preoccupanti. Per ultimo il caso, legato all’impatto sulla subsidenza,
che ha portato il consiglio comunale di Ravenna, città da sempre
schierata a favore delle trivellazioni, a chiedere la chiusura della
piattaforma Angela Angelina.
In conclusione crediamo che sia opportuno lanciare un segnale forte al governo,
che ha gestito male la vicenda delle trivellazioni mettendosi contro
importanti Regioni e che sta perseguendo una politica energetico
ambientale di retroguardia, affinché ci sia un drastico ripensamento
allineato con l’evoluzione in atto a livello internazionale.
Cambiare
approccio non solo favorirebbe l’indipendenza energetica e la riduzione
delle emissioni climalteranti, ma sarebbe decisivo per dare fiato
all’economia e rilanciare l’occupazione.
fonte: http://www.qualenergia.it