Meno spreco di risorse vuol dire più occupazione.
Ma non solo: uno sviluppo basato sul riuso, il riciclo, la riduzione
del consumo di materie prime e della produzione di rifiuti potrebbe
intaccare anche quello che è considerato il tasso di disoccupazione
fisiologico di un'economia perché, oltre a creare lavoro, riduce il
disallineamento tra domanda e offerta. È quanto emerge da un nuovo
report che parla della realtà del Regno Unito ma che arriva a
conclusioni che sono interessanti anche per altre situazioni, quella
italiana in primis.
Lo studio indaga sui possibili effetti sul mercato del lavoro britannico dell'economia circolare.
Stiamo parlando di tutte quelle attività che migliorano l'efficienza
nell'uso delle risorse: dal riuso, al riciclo, al ricondizionamento dei
prodotti, fino alla fornitura di servizi che consentono ai consumatori
di godere dei beni senza la necessità di possederli, come il noleggio o
il car-sharing.
La ricerca – condotta da Green Alliance assieme al think-thank “circolarista” Wrap – ipotizza tre scenari per il 2030,
uno molto conservativo, che assume che non ci siano nuove iniziative
per promuovere l'economia circolare, uno “mezzano” che prevede che la
crescita di queste attività continui con i trend attuali e uno
“trasformativo” nel quale si spinge veramente l'acceleratore
sull'efficienza nell'uso delle risorse. Negli ultimi due scenari si
potrebbero creare tra i 200mila e il mezzo milione di nuovi posto di lavoro (valore lordo, senza tenere conto delle possibili perdite in altri settori) e ridurre la disoccupazione di 54-102mila unità.
Ma
più che i risultati quantitativi - di studi che raccontano quanto
questo o quel settore aumenterebbe l'occupazione ormai abbiamo fatto
indigestione – la conclusione interessante del report è che l'economia
circolare potrebbe migliorare l'efficienza anche del mercato del lavoro.
Le attività in questione infatti ridurrebbero il mismatch (lo scostamento) geografico e di competenze tra domanda e offerta.
Un problema che è molto sentito nel Regno Unito dove la disoccupazione è
(come in Italia) molto più grave in alcune aree e più alta per i lavori
meno qualificati: il mismatch lì pesa per 3 punti percentuali di
occupazione. In questo modo, sostengono gli autori, si potrebbe
addirittura abbassare quello che gli economisti neoclassici pensano sia
il tasso di disoccupazione minimo fisiologico di un'economia, il NAIRU (non-accelerating inflation rate of unemployment), per il Regno Unito stimato al 5%.
Senza
nemmeno considerare i logici benefici ambientali e l'aspetto
occupazionale, d'altra parte, spremere al massimo il valore delle
risorse, mantenendo le materie prime in circolo il più a lungo possibile
potrebbe diventare un'ottima strategia per la competitività di economie e aziende.
Per ricordarlo citiamo uno studio
commissionato a McKinsey nel 2012 sui vantaggi economici che si
avrebbero includendo il concetto di rigenerazione e di ripristino delle
risorse fin dalla progettazione di prodotti, processi produttivi e
modelli di business. I costi di produzione di un telefono cellulare – si spiegava - potrebbero essere ridotti del 50%
se solo le aziende nella progettazione pensassero a rendere più facile
disassemblare l'apparecchio a fine vita e offrissero incentivi per la
riconsegna. Se ad esempio, le lavatrici fossero date in leasing
anziché acquistate, i consumatori potrebbero risparmiare circa un terzo
per ogni ciclo di lavaggio e i produttori-gestori guadagnerebbero circa
un terzo in più: questo modello di business disincentiverebbe infatti
l'obsolescenza programmata e l'utente, anziché cambiare in 20 anni 5
lavatrici dalla vita utile di 2000 lavaggi, ne prenderebbe a leasing una
sola che ne dura per 10mila, facendo risparmiare 180 kg di acciaio e
oltre 2,5 tonnellate di CO2.
Andando
in questa direzione - stimava lo studio McKinsey - l'industria europea
nel suo complesso in uno scenario “di transizione” potrebbe risparmiare dai 340 ai 380 miliardi l'anno che, con questo modello economico, a regime potrebbero arrivare a 520-630 mld di $: circa il 23% di quello che le aziende spendono in materie prime e circa il 3-3,9% del Pil europeo (del 2010).
Da dove iniziare per intraprendere questa strada? Un'idea per la politica potrebbe essere di partire dalla fiscalità, tassando di più il consumo di risorse e meno il lavoro. A partire dalla carbon-tax sui combustibili fossili che mai come in questo periodo
di petrolio a prezzi stracciati sarebbe facile introdurre. Peraltro in
Italia carbon-tax e tassazione ambientale sono già previste dalla legge,
anche se per ora restano sulla carta.
Con l'articolo 15 della legge di delega fiscale (l.11 marzo 2014, n. 23), infatti il Governo è delegato a “introdurre
nuove forme di fiscalità finalizzate a orientare il mercato verso modi
di consumo e produzione sostenibili, e a rivedere la disciplina delle
accise sui prodotti energetici e sull'energia elettrica, anche in
funzione del contenuto di carbonio e delle emissioni di ossido di azoto e
di zolfo”. Il gettito, secondo la delega, dovrà essere destinato “prioritariamente
alla riduzione della tassazione sui redditi, in particolare sul lavoro
generato dalla green economy, alla diffusione e innovazione delle
tecnologie e dei prodotti a basso contenuto di carbonio e al
finanziamento di modelli di produzione e consumo sostenibili, nonché
alla revisione del finanziamento dei sussidi alla produzione di energia
da fonti rinnovabili”.
fonte: http://www.qualenergia.it/