Cinquemila abitanti e il loro sindaco combattono trivelle e inquinamento a Martis, nel sassarese, impiegando un’arma non convenzionale: il cinema. “Life after oil”, sezione a tema ambiente del Sardinia Film Festival, è la creatura di un giovane regista di origine salentina, Massimiliano Mazzotta, che qualche anno fa con due film documentari – “Oil,” e “Oil, secondo tempo” – mise a nudo la realtà della Saras, una delle più imponenti raffinerie del Mediterraneo, di proprietà della famiglia Moratti. Un racconto, quello di Massimiliano Mazzotta, di profitti e di morte, disperazione e ingordigia in nome dell’oro nero.
Siamo nella Sardegna del sud, a Sarroch:
venti chilometri da Cagliari e pochi di più dagli incantevoli paradisi
naturali della costa meridionale. Anche Sarroch, come Martis, conta
cinquemila abitanti. E moltissimi morti. E’ a ridosso di un vero e
proprio distretto “nero”: meno di ottocento ettari, espropriati ai
contadini della zona, dove c’è la Saras, la Sarlux (società controllata
della Saras), centrale elettrica che sfrutta gli scarti tossici della
lavorazione del petrolio, e la Versalis (ex Polimeri Europa), gruppo ENI
fino alla fine del 2014 e ora acquisita quasi interamente dai Moratti.
Sembra
quasi una città lunare, la Saras, nelle riprese di “Oil” (2009): a
costeggiarla in auto, di notte, con le sue luci al neon disseminate in
ogni punto della raffineria, si ha la sensazione di una base spaziale.
Ma non suggerisce fascino, né meraviglia: solo inquietudine. Il funerale
di un ragazzo di trent’anni, raccontato da un coetaneo in un piccolo
bar, fa da contraltare alle parole pronunciate da Gianmarco Moratti in
apertura di un convegno e del film. Tra “spigole diesel”, polipi neri e
interiora di agnello allo zolfo, “sa (la) raffineria” diventa “sa
rovineria” nella testimonianza vocale di un’altra sarrochese e il Golfo
degli Angeli (coi suoi fondali adatti ad ospitare le petroliere) di
angelico finisce per non avere più nulla. Molte generazioni di contadini
sono stati costretti a barattare tutta la loro vita con quella
tranquillità da fine mese che la Sardegna, terra economicamente
depressa, non ha mai offerto. E così, funerale dopo funerale, Sarroch si
spegne, mentre le luci della raffineria brillano ogni notte dal 1966.
Così, a seguito di un numero sempre più
impressionante di decessi, si moltiplicano gli studi scientifici e tutti
raggiungono gli stessi risultati: dal 2007 al 2013 si certifica a
Sarroch l’elevata incidenza di malattie respiratorie e neoplasie di
polmoni e pleura, tra Pula, Sarroch e Assemini (Cagliari ovest) si
registra un alto rischio di leucemie nella popolazione maschile. Ma
gelano il sangue i dati pubblicati nel febbraio 2013 da un’importante
rivista internazionale di epidemiologia, Mutagenesis (Oxford University): a
fronte di più alte concentrazioni di benzene, metalli pesanti e
idrocarburi policiclici aromatici nell’ambiente, corrispondono
alterazioni del Dna nei bambini sarrochesi.
E le istituzioni? Sono due gli “Atti di
Sindacato Ispettivo” sull’argomento depositati in Senato dal M5S, uno
nel 2013, l’altro l’estate scorsa, mentre la Procura di Cagliari ha
avviato un’indagine per verificare l’eventuale correlazione tra
emissioni della raffineria e patologie tumorali. A proposito, ancora
oggi manca un registro dei tumori che metta in luce quali siano le zone
dell’isola in cui esplode il rischio di contrarre malattie. Il dottor
Vincenzo Migaleddu dell’Isde (Medici per l’Ambiente), in un’intervista a
Sardinia Post, parla di “atteggiamento timoroso, se non
omertoso, quando si parla di Saras: sudditanza psicologica nei confronti
dei potenti che vengono da fuori (e che portano lavoro)”? O altro?
Secondo i legali della Saras, la
raffineria “non inquina”. La famiglia Romanino è costretta a chiudere la
propria azienda agricola di Sarroch e, nel 2013, fa causa ai Moratti
per due milioni e mezzo di euro: le analisi sui pomodori rivelano la
presenza di metalli pesanti in elevatissima concentrazione, al punto da
doverle ripetere tre volte per essere certi che valori così
vertiginosamente alti siano la realtà. La Saras “contesta con decisione
l’attribuibilità di qualsiasi inquinamento ambientale all’attività
produttiva del suo impianto di produzione”. Ritiene sia colpa del clima
salmastro e della scarsa manutenzione delle serre dei Romanino, se le
canalette di raccolta delle acque piovane sono corrose. Si risente anche
delle riprese di Massimiliano Mazzotta e lo cita in giudizio per danno
d’immagine. La vicenda legale intorno ad “Oil” darà poi ragione al
regista, perché il garante della Privacy definisce “d’interesse pubblico
nazionale” il suo lavoro.
Massimiliano, dopo un anno in India, a
Goa, torna con grandi idee e con una visione della militanza da
sublimare nell’arte. A Martis, non distante dal petrolchimico di Porto
Torres e dove incombe la minaccia delle trivelle della Geoenergy, il
giovane regista salentino ha organizzato alla fine dello scorso anno un
laboratorio completamente gratuito di fotografia e cinema d’inchiesta,
mettendo a disposizione dei partecipanti la propria esperienza e la
propria attrezzatura: non tutti, infatti, possono permettersi una
costosa videocamera. Ogni corsista ha perciò riciclato ciò che aveva in
casa e ha avuto la possibilità di imparare un nuovo modo di intendere la
lotta per l’ambiente. La mostra e il documentario che ne sono il
diretto risultato saranno mostrati a quello che è il fiore all’occhiello
della virtuosa militanza di Massimiliano: “Life after oil”,
International Film festival, che nella sua seconda edizione si terrà a
Martis dal 7 al 9 agosto prossimi. L’associazione culturale a cui fa
capo e da cui prende il nome, vanta come presidente onorario Giuseppe
Ferrara, regista di “Cento giorni a Palermo” e “Il caso Moro”.
L’obiettivo principale della rassegna – si legge sul sito internet in
italiano, inglese e sardo – è denunciare la devastazione ambientale
provocata dalla ricerca e dall’impiego dei combustibili fossili, ma
soprattutto, di ricercare sistemi di vita alternativi a quelli imposti
dalla società del petrolio.
La Sardegna del resto è la regione dove
si registra l’area inquinata più vasta d’Italia, triste primato
condiviso con la Campania: oltre 445mila ettari nei quali si calcola che
un sardo su tre viva in un territorio contaminato, a fronte di una
media nazionale di 1 su 6. Ridotta ad altoforno, con discariche che si
ingrandiscono esponenzialmente, possibile sito di stoccaggio per le
scorie nucleari dell’intera nazione, l’isola non ne può più. E nemmeno i
suoi abitanti, i quali si oppongono strenuamente allo svilimento della
loro terra organizzandosi in numerosi comitati cittadini.
Mentre a Martis il sindaco Lasia difende
il suo piccolo comune dagli attacchi dei giganti della trivellazione
anche con operazioni culturali di grande respiro come una rassegna
cinematografica, “sa raffineria”, a Sarroch, punta sul “Progetto Scuola
Saras”: visite guidate negli stabilimenti e un fumetto in cui Gaby, un
gabbiano, spiega ai bambini che la raffineria non è pericolosa. Queste
iniziative che mirano a “educare” gli adulti del futuro, non sono
isolate: a Marsico Nuovo, nella bersagliatissima Basilicata, l’Eni vara
il progetto Eni Scuola lo scorso 25 marzo. “Al termine della
presentazione – si legge sul sito del cane a sei zampe – alunni e
famiglie hanno assistito allo spettacolo teatrale “Le insostenibili leggerezze di Ciccio”.
Un’esperienza formativa e divertente per spiegare ai ragazzi la
strettissima relazione che c’è tra i prodotti che quotidianamente
consumiamo e l’energia che serve a produrli“ .
Sardegna, Campania, Basilicata: mille
terre dei fuochi bruciano nel silenzio spesso connivente della politica,
mentre i colossi dell’energia puntano ad assicurarsi cifre da
capogiro. La soluzione, come ha saggiamente compreso Massimiliano
Mazzotta, risiede nella controinformazione e nella cultura ambientalista
che ognuno di noi deve contribuire ad alimentare secondo le proprie
inclinazioni e possibilità. Un regista contribuisce con le immagini; un
film o una fotografia hanno un grandissimo valore non solo dal punto di
vista documentale: presuppongono, in chi gira o in chi scatta, la
tensione alla verità oggettiva e hanno il potere di suscitare
consapevolezza in chi guarda.
„Se comprendere è impossibile, conoscere è
necessario“, diceva Primo Levi, ma sapere e rimanere seduti non ha
senso. Amare la propria terra significa difenderla, dobbiamo venire a
patti con il nostro coraggio e la nostra pigrizia. Dobbiamo agire. Ma
soprattutto, dobbiamo comprendere che quando si parla di terra non c’è
geopolitica che tenga: ce lo dimostra un regista salentino di adozione
milanese prestato alle lotte ambientali sarde. L’Appennino è poi così
diverso dal Gennargentu? E‘ forse la Val d‘Agri così distante da Porto
Torres? Ha importanza la provenienza geografica dei bimbi morti a causa
dell‘inquinamento?
La terra è sempre la stessa ovunque la si
calpesti e la devastazione ambientale ha le stesse caratteristiche in
qualunque angolo del pianeta. Esiste un solo mondo da tenere in vita ed
esiste una sola razza a condannarlo e a difenderlo: la razza umana,
tutti noi.
fonte: http://www.decrescita.com