Più ci si addentra nell’esplorazione del
mondo del fotovoltaico italiano, e più si scopre la sensazione che a
politica, burocrazia e organi di regolazione tecnica il solare stia antipatico.
Incuriositi da annunci apparsi su siti tedeschi che descrivevano un tipo di fotovoltaico “plug and play”
che permette di produrre da subito elettricità solare, senza
complicazioni tecniche e burocratiche, semplicemente mettendo dei
pannelli sul balcone e attaccandoli a una presa di casa, abbiamo
indagato sulla loro presenza di prodotti simili in Italia, scoprendo che
alcuni di quelli che avevano tentato di produrli o venderli da noi hanno presto rinunciato a farlo. E chi continua a proporli è piuttosto deluso dai risultati ottenuti.
Ma
come, arriva finalmente il fotovoltaico “fai da te” e gli italiani lo
respingono? Per capire come stia questa storia, abbiamo chiesto lumi
all’ingegner Diego Canestrelli, del "Portale del Sole",
un distributore on line di prodotti per le energie rinnovabili, che
ancora tratta questo tipo di fotovoltaico, vendendo i sistemi plug and
play olandesi Soladin.
«Il
fotovoltaico plug and play è in effetti l’uovo di Colombo della
semplicità», dice Canestrelli. «Consiste in un piccolo impianto di potenza sotto al limite per il quale sono richieste autorizzazioni ai regolatori pubblici: per l’Italia questo limite è di 1 kWp.
Oltre ai pannelli, un kit plug and play comprende un piccolo inverter e
un cavo da attaccare alla presa di casa più vicina: in questo modo la
corrente elettrica solare fluisce direttamente nell’impianto domestico
contribuendo a coprire i consumi. Naturalmente l’inverter è dotato di
sistemi di sicurezza che lo fermano quando manca energia nella rete, per
evitare di fulminare chi ci stia lavorando. In Germania, Olanda e paesi
simili, questi kit solari plug and play si vendono nei supermercati e,
visto che uno li può installare appena arriva a casa come fossero degli
elettrodomestici, stanno incontrando un buon successo».
Ma sono convenienti?
Sì,
costano sui 1.600 euro per 1000 watt, che in Italia, con la detrazione
al 50% sui 10 anni, diventano 800. A secondo della posizione geografica,
dell’esposizione dei pannelli e del profilo giornaliero dei consumi,
fanno risparmiare sui 150-250 euro l’anno: in pochi anni si recupera la
spesa iniziale.
E lo scambio sul posto?
Volendo
si può chiedere, ma così si rinuncia alla procedura semplificata sotto
al kW. Senza scambio sul posto, ovviamente, quello che viene prodotto ma
non usato direttamente viene “regalato” alla rete. Quindi bisogna
dimensionare bene il sistema in modo che non produca più di quello che è
il consumo medio di casa durante le ore diurne, magari aumentandolo e
programmando per quelle ore maggiori consumi come lavatrice o
lavastoviglie.
Benissimo, allora sarà boom di plug and play anche in Italia …
Manco
per niente, l’interesse è tanto, ma ben pochi arrivano poi a comprarlo e
utilizzarlo. La ragione? In Italia bisogna comunque andare dall’Enel,
presentargli il progetto di un elettricista, non gratuito, che mostri
come verrà connesso l’impianto alla rete, e fare poi una domanda perché
il contatore sia abilitato per la bi-direzionalità, senza la quale la
produzione del pannello finirebbe aggiunta a quella dalla rete e pagata
in bolletta. Questa abilitazione te la fanno aspettare settimane e
pagare 240 euro, e il bello è che viene fatta da remoto, pigiando un
bottone in qualche sala di controllo. Con queste premesse è inevitabile
che il plug and play non sia più tale e convenga molto meno, ragione per
cui la maggior parte di chi sarebbe interessato si scoraggia. In
Germania e Olanda i contatori sono già abilitati alla bi-direzionalità, e
non c’è nessuna pratica da seguire né spese da sostenere.
Ma qualcuno l’ha fatto presente all’Enel?
E
come no, ma cascano dalle nuvole: non sanno cosa sia il fotovoltaico
plug and play e per loro non c’è differenza fra sotto o sopra il kW, la
procedura è sempre quella e per l’abilitazione va sempre pagata quella
cifra assurda.
E allora che si fa?
C’è
un sistema radicale per evitare tutto questo: mettere un accumulatore a
batteria fra l’impianto e la rete di casa. Quando la produzione solare
supera i consumi, questa finisce tutta negli accumulatori, che poi
vengono rivuotati quando il sole manca, dopo aver escluso l’impianto di
casa dalla rete. Con una apposita elettronica, certificata per le norme
CEI, il rifornimento domestico avviene quindi sempre o solo dalla rete o
solo dagli accumulatori, non c’è bisogno che il contatore sia
bi-direzionale, perchè non c’è mai immissione in rete da parte
dell’impianto solare. Certo i costi sono molto maggiori e il recupero
delle spese si allontana. Ma almeno non c’è più da fare domanda a
nessuno».
Purtroppo pare che anche questa scappatoia si sia chiusa
«Questa
possibilità di installare sistemi con accumulo senza procedure, purché
non si immetta mai in rete, era possibile fino a poche settimane fa», ci
dice Federico Rossi che lavora per il produttore umbro
di fotovoltaico Sunerg, che vende anche impianti con accumulo. «Ma ora
il GSE ha eliminato la zona grigia nella norma CEI 021, che lasciava
aperta quella strada. L’installazione senza informare nessuno è rimasta
solo per l’off-grid, dove manca del tutto la connessione alla rete. In
tutti gli altri casi o si segue presso GSE ed Enel la procedura
tecnico-burocratica prevista per i sistemi di accumulo oppure quella per
i sistemi di back up, che intervengono a mantenere la fornitura
elettrica in caso di back out».
Rossi è anche abbastanza scettico sulla attuale convenienza di inserire i sistemi di accumulo.
«Ai
prezzi attuali delle batterie l’unico caso in cui siano economicamente
convenienti è quello delle utenze senza connessione di rete. Negli altri
casi, in genere dettati dal desiderio di essere green e dotarsi di
sistemi di domotica avanzati, la convenienza svanisce. Specialmente se
si sceglie il metodo del buffering, cioè di
accumulare tutto quello che si autoproduce con il solare nelle batterie,
per poi svuotarle quando l’autoproduzione manca: per far questo servono
accumulatori molto capaci e molto cari; e comunque non si riuscirà, a
meno di non sovradimensionare l’impianto FV, a riempirli da novembre a
febbraio. Un po’ più conveniente, volendo, il metodo del peak shaving,
in cui l’energia delle batterie mi serve più che altro per tagliare i
picchi di uso dell’elettricità di rete quando questa costa più cara: per
questo basta un ridotto impianto FV e batterie molto più piccole, che
si usano appieno tutto l’anno, e che richiedono una spesa iniziale molto
minore. Il principio base è comunque sempre lo stesso: prima di
procedere all’installazione di sistemi così complessi, consultatevi con
un tecnico capace, che calcoli bene il compromesso giusto fra le vostre
esigenze e i prodotti sul mercato, evitandovi spese inutili e
delusioni».
Resta un dubbio sul plug and play: ma se uno ha già un impianto fotovoltaico incentivato con il Conto Energia, quindi già il contatore bidirezionale, può aggiungere un piccolo sistema FV plug and play, senza dir niente a nessuno?
La risposta è semplice:
il GSE prevede il “potenziamento non incentivato” dei vecchi impianti,
ma solo con aggiunta di nuovi pannelli agli stessi, dietro sua
autorizzazione e distinguendo per via elettronica fra produzione
incentivata della vecchia parte e quella senza incentivi della nuova.
Esclude invece l’aggiunta di nuovi impianti FV allo stesso contatore già
usato dai vecchi: quindi niente plug and play per chi ha già pannelli
sul tetto.
E se a qualcuno venisse
l’idea di provarci comunque, magari per incassare gli incentivi anche
sull’energia data dal nuovo piccolo impianto, sappia che farebbe una
truffa penalmente perseguibile e anche facilmente scopribile, per l’aumento improvviso di produzione.
fonte: http://www.qualenergia.it