Investendo 10 miliardi di euro se ne attiverebbero 20, 5 tornerebbero
sotto forma di entrate fiscali. Insieme a 200mila posti di lavoro in più
Era il 1998 quando in Italia il ministero dell’Ambiente caratterizzò i
primi 15 Sin (Siti d’interesse nazionale), identificandoli come aree
fortemente contaminate e bisognose di bonifiche per essere pienamente
restituite alla comunità. Negli anni queste aree sono cresciute fino ad
accomunare 180mila ettari, poi divenuti circa 100mila quando (nel 2013) i
Sin da 57 sono passati a 39: il resto è andato in carico alla Regioni
per tentare, in genere con scarso successo, di concretizzare e sveltire
le operazioni di bonifica. Oggi a che punto siamo? A scattare una
fotografia aggiornata c’ha pensato Confindustria con il nuovo rapporto Dalla bonifica alla reindustrializzazione.
L’analisi parte da un assunto semplice: una “bonifica sostenibile”,
ovvero «il processo di gestione e bonifica di un sito contaminato,
finalizzato ad identificare la migliore soluzione, che massimizzi i
benefici della sua esecuzione dal punto di vista ambientale, economico e
sociale, tramite un processo decisionale condiviso con i portatori di
interesse», è uno straordinario volano di crescita economica oltre che
di risanamento ambientale. Peccato che solo in una stretta minoranza dei
casi sia divenuto realtà.
In Italia i Sin attualmente sono 39 (un 40esimo è in fase di
perimetrazione in Valle del Sacco), comprendenti aree per 110mila ettari
a terra, di cui circa 31mila private e le rimanenti pubbliche.
Focalizzando l’analisi su un campione di riferimento che esclude il Sin
di Casale Monferrato – scelta operata dai confindustriali per le
peculiari caratteristiche dell’area, vasta e fortemente contaminata da
amianto – lo stato di avanzamento delle bonifiche lascia non poco amaro
in bocca: sia per i terreni sia per le acque di falda le bonifiche
concluse «si avvicinano a una media di circa il 20% (19,94% per i
terreni e 18,01% falda), mentre per il 60% «è stato attuato il piano di
caratterizzazione (60,25% per i terreni e 61,59% falda)».
In meno di un quinto dei Sin italiani le bonifiche sono dunque un
capitolo chiuso. Con quali modalità? L’analisi di Confindustria
individua «un uso prevalente degli interventi di bonifica mediante scavo
e smaltimento in discarica», che riguarda «circa il 40% degli
interventi effettuati nei Sin». Più del 50% è inoltre «ubicato ex-situ,
con i relativi conseguenti impatti legati alla movimentazione e al
trasporto del materiale; impatti sia per l’ambiente che per gli
operatori addetti agli interventi e per la popolazione circostante,
nonché alla creazione di nuovi luoghi di deposito rifiuti con
conseguente consumo di territorio». Così anche dove le bonifiche ci
sono, non sempre rispettivi territori possono (o gradiscono) farsi
carico dei lavoro, spedendo altrove gli ingenti materiali rimossi.
Da queste valutazioni emerge quanto il tema delle bonifiche sia
ancora oggi trascurato nel nostro Paese, ma anche quanto potrebbe dare
alla nostra economia oltre che in termini di risanamento ambientale.
Perché allora non vengono concluse? Com’è intuibile, uno «dei principali
parametri che condiziona l’attività di bonifica è l’aspetto economico»,
determinato «sia da fattori tecnologici che dai costi della gestione
dei rifiuti ma anche dai tempi lunghi di approvazione e realizzazione
degli interventi e, in diversi casi, dalla complessa interlocuzione con
gli enti di controllo».
Quanto a costi, per le bonifiche da Confindustria stimano un
fabbisogno pari a circa 10 miliardi di euro: 6,6 per le aree private
(circa 31.000 ha) e 3,1 per quelle pubbliche (circa 15.000 ha escluso
Casale Monferrato con i suoi ben 64.000 ha). Lo Stato in questi anni ha
stanziato un’inezia rispetto al necessario, risorse «nell’ordine di
milioni di euro». Eppure puntare sulle bonifiche sarebbe un investimento
pubblico assai produttivo: stimando in 5 anni i tempi per la
conclusione degli interventi (al netto dunque dei rallentamenti
burocratici), a fronte di 10 miliardi di euro il livello della
produzione aumenta di oltre 20 miliardi, innescando 200.000 posti di
lavoro in più e ripagandosi in gran parte da solo. Gli effetti
finanziari in termini di entrate complessive stimate arrivano a 4,7
miliardi di euro tra imposte dirette, indirette e maggiori contributi
sociali.
Per tradurre il miraggio in realtà, da Confindustria individuano 4
punti chiave: intervenire sull’offerta di risorse finanziarie,
ragionando su meccanismi incentivanti che lo Stato può mettere a
disposizione del privato; intervenire sulla domanda di risorse
finanziarie, formulando proposte volte a favorire il risanamento ai fini
del riuso delle aree; avanzare proposte per un ulteriore snellimento e
razionalizzazione delle procedure; avanzare proposte per favorire
l’utilizzo di tecnologie in situ, tecnologie innovative diverse da scavo
e smaltimento (non ultima il riciclo per quanto possibile dei
materiali). A queste ne aggiungiamo una quinta, individuata a suo tempo già da Legambiente: «Applicare il principio chi inquina paga anche all’interno del mondo industriale».
fonte: http://www.greenreport.it