Mancano gli impianti sul territorio, e si preferisce l’illegalità per tagliare i costi
Gli “speciali pericolosi” sono quei rifiuti generati da attività produttive o di servizio che contengono un’elevata dose di inquinanti
(ma sono “pericolosi” anche alcuni rifiuti urbani comunemente presenti
nelle nostre case, come pile esauste o medicinali scaduti), e che per
questo necessitano di un’ancor più attenta gestione.
L’ultimo rapporto pubblicato dall’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) in materia
si sofferma in particolare sulle politiche in atto nel Vecchio
continente per prevenire la produzione di rifiuti pericolosi,
individuando non poche lacune. Innanzitutto legislative: in tutta Europa
gli unici programmi di prevenzione che contengano precisi target
quantitativi in merito sono stati elaborati da Bulgaria, Lettonia,
Svezia e Italia. Un primato che, purtroppo, non ci inserisce
automaticamente tra i Paesi virtuosi: il Programma nazionale di
prevenzione dei rifiuti, adottato in Italia nel 2013,
prevede tra gli altri obiettivi una riduzione del 10% (al 2020,
rispetto al 2010) della produzione di rifiuti speciali pericolosi per
unità di Pil, ma ad oggi non è dato sapere quali politiche industriali
siano in atto per raggiungere questo obiettivo. «Nessuno di questi
programmi – precisa d’altronde l’Eea – ha un sistema di controllo
specifico per la prevenzione dei rifiuti pericolosi».
Nel frattempo, l’Ispra documenta
come dal 2013 al 2014 (ultima annualità disponibile) la produzione di
rifiuti speciali pericolosi sia aumentata in Italia dello 0,3%,
arrivando a 8,8 milioni di tonnellate/anno.
Rifiuti che, è bene ricordare, non siamo ancora in grado di gestire
in toto all’interno dei nostri confini. Nel 2014 – evidenzia ancora una
volta l’Ispra – 919mila tonnellate di rifiuti speciali pericolosi
italiani sono stati esportati. La grande maggioranza viene spedita
(678mila tonnellate, pagate profumatamente) in Germania, dove questi
rifiuti pericolosi – ormai celebre il caso dell’amianto – prodotti su
suolo italiano vengono poi gestiti.
Il richiamo alla produzione non è solo lessicale: i rifiuti
pericolosi sono una traccia potente della struttura economica di un
Paese. Degli stati europei, non a caso sono la Bulgaria e l’Estonia a
generare la più alta quantità di rifiuti pericolosi: la prima a causa
delle sue numerose miniere, la seconda per la produzione di shale oil.
Più in generale, un’elevata presenza di rifiuti pericolosi è legata ad
un’estesa attività manifatturiera, anche green: «Nella Ue-28 i
più grandi volumi di rifiuti pericolosi – sottolinea l’Eea – sono
generati dal settore dei rifiuti, che ne comprende la raccolta, la
gestione e lo smaltimento». Anche la gestione dei rifiuti, il riciclo,
l’economia circolare producono a loro volta rifiuti che è necessario sì
tentare di ridurre al minimo, ma che rimane impossibile continuare nel
mentre a ignorare. Senza dimenticare gli stessi nuclei familiari, che a
loro volta sono una fonte «minore, ma importante» nella produzione di
rifiuti pericolosi.
Eppure il dato drammaticamente più urgente contenuto nel rapporto Eea
– più della produzione ancora in crescita di rifiuti pericolosi (circa
100 milioni di tonnellate, in «leggero incremento» dal 2008 nonostante
la crisi), più della bassa qualità degli stessi dati raccolti, che minano «l’accuratezza e la comparabilità»
delle varie performance nazionali – sta nella manifesta volontà di
continuare a dirottare altrove il problema degli scarti prodotti dalle
nostre società.
Quando va bene i rifiuti vengono messi su camion, navi o vagoni
ferroviari per essere spediti lontano dai luoghi di produzione, con
aggravi di costi sia ambientali sia economici, ma pur sempre nell’alveo
della legalità. Quando va male, questi stessi rifiuti trovano come via
di fuga quella – più economica? – dei traffici illegali. Traffici che
hanno subito negli ultimi anni una nuova impennata: «Nonostante gli
sforzi della Commissione europea, degli Stati membri dell’Ue, delle
organizzazioni internazionali […] le spedizioni illegali di rifiuti
sembrano in aumento, con 2.500 casi riportati nel 2013 a fronte di 400
nel 2009». Un aumento in parte forse riconducibile a controlli più
efficaci, motivazione che da sola potrebbe però difficilmente spiegare
un incremento del 625% in soli 4 anni – peraltro di acuta crisi
economica.
Da una parte «le esportazioni di rifiuti pericolosi sono rimaste
prevalentemente all’interno dell’Ue, spinte dalla mancanza di capacità
nazionale per gestire i flussi di rifiuti, e dai differenti costi di
recupero o smaltimento in luoghi diversi». Gli impianti non ci sono, in
altre parole, dunque i rifiuti si spediscono fuori confine. D’altra
parte, poiché anche «il trattamento dei rifiuti pericolosi all’interno
dell’Ue appare spesso molto caro, ci sono incentivi economici per
spedirli illegalmente in luoghi senza o con minori standard ambientali».
Tale azione, evidenzia in modo lapalissiano l’Agenzia europea
dell’ambiente, ha «spesso gravi conseguenze per l’ambiente e/o la salute
umana». Una postilla che raramente sembra turbare le nostre coscienze:
lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
fonte: www.greenreport.it