L’aspetto più preoccupante della vittoria di Trump è la conferma di una tendenza che già si è manifestata con la Brexit. In America come nel Regno Unito, il voto delle città è andato prevalentemente alle proposte sconfitte, l’hinterland ha registrato il trend opposto. È questo il messaggio più importante da registrare.
Negli
Stati Uniti le motivazioni individuali del voto a Trump sono infatti
molteplici. Il consenso di una parte consistente della popolazione
maschile bianca non sarebbe bastato senza il voto delle donne, che è
risultato più ampio delle previsioni, e di una parte piccola, ma non
trascurabile, delle minoranze. Secondo le analisi del voto, queste
eccezioni ai modelli astrattamente costruiti da molti opinion maker si sono manifestate prevalentemente al di fuori dei grandi centri urbani.
Poiché
un fenomeno analogo si è verificato nel Regno Unito, il fattore
unificante le diverse motivazioni individuali sembra dunque essere l’identità territoriale. Per usare una metafora cara al presidente Mao, la campagna che assedia la città.
Non è infatti casuale che abbiano avuto la meglio visioni del futuro dominate dal ritorno al passato. L’America first di Trump e il Believe in Britain dell’UKIP (il partito anti-europeo di Farage) hanno in comune la chiusura entro i confini nazionali come risposta alle difficoltà – reali – provocate dalla globalizzazione:
posizioni isolazioniste che si nutrono di protezionismo economico, di
ostilità nei confronti delle immigrazioni e delle minoranze, non solo
etniche, ed erigono muri, non solo metaforici.
Sottovalutati
dai decisori politici, ma anche da quelli economici e finanziari e da
troppi opinionisti, gli effetti negativi indotti da una globalizzazione
non governata hanno messo in moto un’onda lunga, che si estende anche
all’Europa continentale. La spinta che viene dalla Gran Bretagna e
dall’altra sponda dell’Atlantico ha indubbiamente aumentato le
probabilità di successo della Le Pen nelle elezioni del prossimo anno,
che non saranno rose e fiori nemmeno per la cancelliera Merkel.
Seppure non rozzamente negazionisti come Trump, nella migliore delle ipotesi i leader di questi movimenti sono molto tiepidi nei confronti di temi come il cambiamento climatico
e le misure richieste per contrastarlo. Anche la parte degli elettori
che li vota è tendenzialmente poco sensibile ad argomenti che, per loro
natura, non sono circoscrivibili nella dimensione nazionale.
Se
non si porrà con urgenza il problema di una risposta adeguata, anche la
comunità che lavora per un futuro ambientalmente sostenibile sarà
identificata come parte dell’establishment; con le inevitabili
conseguenze. Un articolo apparso sul New York Times dello scorso 13
novembre osservava che è stata l’industria americani high tech, quasi
tutta contraria a Trump, a introdurre nuovi prodotti a larga diffusione,
i quali hanno però contribuito ai mutamenti economico-sociali
all’origine della vittoria dello stesso Trump. Considerazioni analoghe
valgono anche nel nostro caso.
Lo sviluppo della generazione distribuita e dei prosumer riduce non solo il peso delle grandi centrali, ma anche la relativa occupazione diretta e indotta. L’economia circolare
diminuisce drasticamente la domanda di materie prime, di semilavorati e
di manufatti, con effetti occupazionali più rilevanti. Gran parte del
futuro efficientamento energetico del settore
produttivo verrà dalla sua trasformazione in Industria 4.0, la cui
digitalizzazione e robotizzazione spinta hanno impatti occupazionali negativi.
La mobilità sostenibile comporta la crescita del trasporto pubblico, del car sharing e del car pooling (il solo car sharing ridurrà
di quattro milioni le auto vendute in Europa nel 2020), e in
prospettiva porterà all’adozione generalizzata del trasporto elettrico.
Non solo si produrrà un numero inferiore di auto, ma saranno a batteria,
con appena un centinaio di componenti, in buona parte assemblabili
mediante semplici saldature, mentre una vettura a combustione interna di
componenti ne ha almeno cinquemila che, oltre alla maggiore occupazione
diretta, generano un indotto di grandi proporzioni.
Anche se il processo di conversione green
riuscisse a creare nuove opportunità di lavoro in grado di compensare
quelle distrutte, il transitorio si presenterebbe comunque traumatico.
Già ora la rivolta contro le élite, o ritenute tali, tende a rigettare a priori tutte le proposte che non riguardano la soluzione, qui ed ora, delle ferite provocate da un processo di globalizzazione non inclusivo; quindi anche le nostre, di proposte.
Se oltre tutto, queste non saranno accompagnate dall’indicazione di misure che propongano soluzioni credibili ai problemi del tipo qui esemplificato, gli interessi lesi dallo sviluppo della green economy
avranno buon gioco nell’ergersi a difensori dello status quo o,
addirittura di un retromarcia, cioè a replicare quanto è già riuscito al
miliardario Trump.
Quel che ci viene
richiesto è dunque l’equivalente di un doppio salto mortale carpiato:
non promuovere rinnovabili ed efficienza energetica come obiettivi a sé
stanti, collocandoli nel quadro dello sviluppo complessivo della green economy; non disgiungere la green economy dalla green society.
fonte: http://www.qualenergia.it