La metà degli imballaggi plastici immessi al consumo non può essere
riutilizzato e difficilmente riciclato a seguito delle intrinseche
caratteristiche progettuali
La raccolta differenziata è solamente lo strumento che permette ai
materiali che sono stati impiegati per produrre imballaggi di avere non
soltanto una seconda vita (da bottiglia in PET a coperta in pile, ad
esempio) ma più vite (da bottiglia in PET ad altre bottiglie). Se però,
come accade per gli imballaggi in plastica, i Comuni devono, con
dispendio di risorse proprie (rispetto ai contributi ricevuti dal Conai
per conto degli utilizzatori di imballaggi), raccogliere il packaging in
plastica per poi alimentare gli inceneritori, altro che Comuni
Circolari.
Un modello economico circolare presuppone il coinvolgimento di un
ecosistema disegnato in modo che tutti i materiali immessi al commercio
producano, a fine vita, valore per tutta la filiera del consumo invece
di esternalizzare tali costi su ambiente e comunità, come avviene
attualmente nel nostro sistema economico lineare.
La scomoda verità che l’industria della plastica ha preferito
ignorare per decenni è che la gestione tipicamente lineare delle materie
plastiche, basata su produzione-consumo-smaltimento, si è rivelata un
totale fallimento ambientale ed economico.
Ogni anno l’economia del packaging di plastica perde, dopo un singolo
utilizzo, dagli 80 ai 120 miliardi di dollari in valore del materiale,
mentre solamente il 14% degli imballaggi in plastica viene raccolto per
essere riciclato a livello globale. Questi e altri numeri sono stati già
resi noti nel precedente rapporto – anch’esso firmato dalla Ellen MacArthur Foundation –
The new plastics economy – rethinking the future of plastics
, il più corposo mai prodotto sull’economia delle materie plastiche,
frutto di un lavoro collaborativo di tutti i soggetti che formano la
catena del valore del comparto (produttori e trasformatori di materie
plastiche e imballaggi, operatori della raccolta e riciclo, autorità e
organizzazioni non governative, ecc).
Dal rapporto è nato un progetto omonimo della durata di tre anni al
quale hanno aderito oltre 40 soggetti, per lo più industriali, che ha
prodotto a sua volta un piano di intervento
The NPE catalyzing action
. Il piano di azione identifica tre strategie di intervento tra loro
complementari ma anche sovrapponibili nelle soluzioni, basate su:
riprogettazione, riuso e riciclo, ciascuna mirata ad uno specifico
segmento del mercato del packaging.
L’ambizioso obiettivo dei promotori del piano è quello di arrivare
così a riusare o riciclare il 70% degli imballaggi in plastica e di
trovare – attraverso una riprogettazione radicale del packaging –
soluzioni più sostenibili per il restante 30% che non può essere
riciclato.
Dalla riprogettazione del packaging e/o dei modelli distributivi (delivery models)
si possono infatti ottenere più soluzioni applicabili ad una stessa
tipologia di imballaggio. Ad esempio un imballaggio originariamente non
riciclabile può essere dematerializzato (es: detergenti contenuti in
cartucce che si dissolvono in acqua, vendita alla spina, ecc), essere
sostituito da una versione riutilizzabile, oppure da una riciclabile.
Riprogettazione per il 30% del packaging
La prima strategia consiste nella riprogettazione di un segmento che, seppur costituendo la metà dell'immesso al consumo (come unità) e il 30% in peso,
non può essere riutilizzato o difficilmente riciclato a seguito delle
sue caratteristiche progettuali. Si tratta di imballaggi di più
tipologie che includono: i piccoli formati in genere (involucri, pellicole per snack e merendine, tear-off, tappi, flaconcini); imballaggi in poliaccoppiato (composti cioè da una sovrapposizione di materiali eterogenei); imballaggi contaminati da residui di cibo, come ad esempio i contenitori per fast-food; imballaggi in PVC, polistirene (PS) e polistirene espanso (EPS), alcune delle plastiche poco utilizzate presenti nel mercato degli imballaggi e dal basso valore post-consumo.
Il packaging di dimensioni inferiori ai 400-700 millimetri prima elencato,
tra cui rientrano anche i popolari flaconcini di probiotici o
integratori alimentari “contro” il colesterolo, finisce nel sottovaglio
degli impianti di selezione e viene generalmente termovalorizzato come
scarto.
Nello studio si stima che dimezzando le perdite di packaging in questa tipologia (circa il 10% in peso del packaging in plastica immesso al consumo), si potrebbe recuperare un valore economico di 50-70 dollari per ogni tonnellata gestita. Gli imballaggi in plastiche poco usate per il packaging rappresentano un altro 10% in peso dell'immesso al consumo di cui l'85% è costituito dalle plastiche prima citate: PVC, PS e EPS .
Anche se tecnicamente queste plastiche potrebbero essere riciclate,
non sussistendo le quantità necessarie per permettere economie di scala,
un loro avvio a riciclo non risulta economicamente sostenibile.
Gli imballaggi in poliaccoppiato rappresentano un mercato in ascesa un po’ in tutto il mondo nei vari formati di buste “stand up poach”
che come monouso usate soprattutto nei mercati emergenti per
commercializzare piccole porzioni di creme e detergenti per la casa e la
cura della persona. Anche questi imballaggi, che sono difficilmente
riciclabili poiché composti in genere da materiali eterogenei vanno
ripensati a tutto tondo intervenendo con una riprogettazione che
consideri tutte le opzioni, inclusa una loro eliminazione. Anche se sono
note alcune opzioni tecniche che permetterebbero un recupero del
materiale per nuovi cicli produttivi come il riciclo chimico o la
pirolisi va considerato che – come si legge nello studio – queste
tecnologie al momento sono altamente energivore, non possono raggiungere
le performance di mantenimento del valore dei materiali proprie del
riuso o del riciclo meccanico, ed esistono ancora alcuni punti
interrogativi circa una loro complessiva efficacia sul piano tecnico.
Gli sviluppi tecnologici correnti si stanno invece per lo più
limitando ad esplorare l’opzione del recupero del materiale come
combustibile (non rinnovabile). Un’opzione che, secondo lo studio, si
traduce in una perdita definitiva del materiale e nel perpetuarsi del
modello lineare di estrazione-produzione-smaltimento. L'aspetto
innovativo di questo dettagliato piano di intervento, che lo rende unico
rispetto a quanto prodotto in passato, è l'aver portato all'attenzione
dell'industria la necessità di un intervento sistemico basato sulla
soluzione di problemi “a monte” nella fase di progettazione. Persino il
mondo aziendale più impegnato a livello di sostenibilità ha difatti focalizzato il proprio impegno principalmente sul riciclo,
saltando le opzioni prioritarie della gerarchia europea di gestione dei
rifiuti – prevenzione e riuso – che sono invece le più efficaci e
determinanti ai fini di un disaccoppiamento tra crescita economica e
consumo di risorse naturali e di una mitigazione del riscaldamento
climatico.
fonte: http://www.lastampa.it/