Al di là della vuota retorica delle
promesse e dei viaggi di formazione nella Silicon Valley, a un certo
punto arrivano i numeri, che possono essere spietati. E i numeri,
pubblicati a inizio settimana nel Rapporto Attività 2016 del Gestore dei Servizi Energetici, descrivono la realtà di un Paese che nel campo delle rinnovabili è fermo ormai da tre anni.
Certo, i numeri si possono leggere in maniera diversa. Ed è per questo che in molti hanno esultato quando la scorsa settimana Eurostat ha pubblicato i dati di produzione di energia da fonti rinnovabili nei 28 Paesi membri dell’Unione europea.
Perché da quei dati emergeva come l’Italia avesse raggiunto i propri
obiettivi con cinque anni d’anticipo rispetto alla scadenza del 2020
(definita dalla Direttiva 28 del 2009). Ma questa semplicemente non era
una notizia, perché questo obiettivo era stato raggiunto già nel 2014.
Oggi, avendo a disposizione i dati
(provvisori) anche per il 2016, possiamo aggiornare il quadro. La
produzione di elettricità da rinnovabili è passata da 112 TWh nel 2013 a
106 TWh nel 2016. Al netto della variazione stagionale nella produzione
da centrali idroelettriche (che aumenta o diminuisce sensibilmente in
base alla piovosità), se consideriamo che -sempre secondo il GSE- tra il
2013 e il 2015 si sono installati solo 1,5 GW di rinnovabili e che nei
cinque anni precedenti la media era di 10 GW addizionali ogni anno,
allora si capisce meglio come il settore sia bloccato. Ma questo blocco
si estende all’intero comparto energetico che comprende oltre al sistema
elettrico gli usi termici (per riscaldamento e processi industriali) e i
trasporti. Complessivamente si è infatti passati da 20,7 MTep del 2013 a
21,1 MTep nel 2016.
Una nuova stagione
La stagione degli incentivi per i nuovi impianti rinnovabili è ormai definitivamente alle spalle e nessuno pensa di riproporli, se non per specifiche tecnologie. Del resto gli incentivi servono nella fase di introduzione di una tecnologia per farla arrivare a maturità e generare economie di scala. Il nostro Paese, insieme a Germania, Spagna e in parte al Giappone, è stato infatti protagonista della rivoluzione del fotovoltaico portando questa tecnologia a ridurre i propri costi dell’80% in pochi anni. Abbiamo creato le condizioni per cui si potesse realizzare la rivoluzione energetica a cui stiamo assistendo.
La stagione degli incentivi per i nuovi impianti rinnovabili è ormai definitivamente alle spalle e nessuno pensa di riproporli, se non per specifiche tecnologie. Del resto gli incentivi servono nella fase di introduzione di una tecnologia per farla arrivare a maturità e generare economie di scala. Il nostro Paese, insieme a Germania, Spagna e in parte al Giappone, è stato infatti protagonista della rivoluzione del fotovoltaico portando questa tecnologia a ridurre i propri costi dell’80% in pochi anni. Abbiamo creato le condizioni per cui si potesse realizzare la rivoluzione energetica a cui stiamo assistendo.
Ci è costato caro, certo. Nel 2016 abbiamo pagato più di 14 miliardi di incentivi, ma già nel 2017 questo onere inizierà a calare.
Ciononostante le nostre bollette negli ultimi anni non sono
sostanzialmente aumentate perché se da una parte crescevano gli oneri di
sistema (che tra le altre cose ripagano le rinnovabili) dall’altra
calava il prezzo dell’energia, proprio grazie al boom delle rinnovabili. Il prezzo del chilowattora nel 2008 era pari a 17,5 centesimi, nel 2016 a 18,5 centesimi.
Oggi, però, mentre il resto mondo sta
approfittando del crollo dei prezzi del fotovoltaico, noi,
paradossalmente, ci siamo fermati. Quello che
servirebbe al nostro Paese non sono incentivi, ma un progressivo
abbattimento delle barriere che impediscono di sfruttare il potenziale
esistente. Nonostante la Direttiva 72 del 2009 sul mercato interno dell’elettricità
dica che gli Stati membri devono “agevolare l’accesso alla rete di
nuove capacità di generazione, in particolare eliminando gli ostacoli
che potrebbero impedire l’accesso di nuovi operatori del mercato e
dell’energia elettrica da fonti di energia rinnovabili”, negli ultimi
anni non solo non sono stati eliminati gli ostacoli ma sono stati
invece moltiplicati. Basti pensare al regolamento delle garanzie recentemente rinnovato da Terna
(e approvato dall’Autorità). Oppure al divieto alla costituzione di
reti di distribuzione, che ad esempio impedisce ai condomìni di
realizzare impianti collettivi che possano produrre elettricità da
utilizzare nei singoli appartamenti (in questi giorni è stata lanciata una petizione in materia da Fabio Roggiolani).
Una strategia condivisa che non c’è
Oltre a rimuovere gli ostacoli, una classe dirigente
lungimirante dovrebbe anche provare a delineare una strategia
condivisa. Se infatti vogliamo arrivare a metà secolo a produrre la
grande maggioranza di tutta l’energia da fonti rinnovabili (uno scenario
a portata di mano, come abbiamo provato a spiegare nel libro Civiltà solare)
non basta operare solo sulla generazione e non ci si può affidare a una
sola tecnologia. Serve operare una drastica riduzione dei consumi
energetici totali, rivoluzionare il settore dei trasporti, abbandonando
progressivamente le tecnologie basate sui motori a combustione interna, e
infine sviluppare il settore degli accumuli, di qualsiasi natura.
In nessuno di questi campi siamo stati
finora in grado di definire una strategia a medio-lungo termine. Persino
le detrazioni fiscali per gli interventi di riqualificazione energetica
sono rinnovate anno per anno, anziché essere definite per un orizzonte
temporale più lungo, riducendo così la possibilità di programmare
interventi più onerosi e complicati che necessitano di tempo.
Oggi una società di consulenza, scelta dal ministero dello Sviluppo economico in base a criteri ignoti, sta predisponendo la nuova Strategia Energetica Nazionale, che secondo il ministro Calenda dovrà essere messa in discussione ad aprile e approvata entro maggio.
Com’è possibile che da un processo di
questo tipo si possa generare un progetto veramente condiviso (che
sarebbe l’auspicio di Carlo Calenda)? Come pensiamo di tenere insieme le
esigenze delle aziende, degli operatori di mercato, dei consumatori nel
quadro degli obiettivi europei e dell’accordo di Parigi sul clima? Come
intendiamo valorizzare i successi degli istituti di ricerca e delle
Università e massimizzarne le ricadute occupazionali ed economiche?
Domande che rimangono aperte mentre il
tempo passa e la rivoluzione delle rinnovabili avanza in tutto il mondo.
Ma non in Italia.
fonte: www.altraeconomia.it