Ma può morire il mare? Sì, e non dovrebbe esser troppo difficile
immaginare a quale specie possano appartenere gli artefici di una simile
dimostrazione di macabra onnipotenza. Le zone “morte” dove
l’inquinamento ha già avuto il sopravvento sulla miriade di organismi
che popolano le acque salate sono centinaia. E c’è chi calcola che, tra
solo otto anni, per ogni tre tonnellate di pesce presenti nel mare ne
avremo una di plastica. Del resto, sono note e documentate da tempo le
immense isole plastificate del Nord del Pacifico così come la presenza
di micromolecole di plastica nell’acqua che beviamo anche qui. Parlarne
potrà pure annoiare qualcuno ma è assai probabile che conosciamo ancora
solo la punta dell’iceberg dell’immane disastro che la sete dei profitti
e il disinteresse generale sono stati capaci di produrre fin qui
Esistono ormai da tempo dei libri e dei film che documentano
l’esistenza delle grandi isole di plastica del Nord del Pacifico, così
come di una notevole quantità di residui di plastica in tutti i mari e
nei laghi. La plastica arriva perfino in fondo alla Fossa delle Marianne
dove, a 10 chilometri dalla superficie, si trovano palline di piccole
dimensioni ma in grande quantità; di
recente è stata denunciata la presenza di micromolecole di plastica
perfino nell’acqua potabile di varie città. Eppure, ancora oggi le
misure adottate riguardano solo le sportine per la spesa, spesso usate
una sola volta e poi buttate, e non certo i tutti i paesi.
Nelle scorse settimane una
serie di foto ha documentato la presenza di masse di oggetti di plastica
galleggianti al largo dell’isola di Roatàn, in Honduras, probabilmente trasportate in mare dai fiumi del vicino Guatemala. L’isola
è sorta su una barriera corallina e quindi è difficile immaginare un
connubio più orripilante di quello tra i contenitori e i sacchetti e i
delicati abitanti del corallo. Il problema maggiore sono
però le 690 specie che vivono nei mari o di cui si nutrono gli uccelli
marini, che vengono attratte dai residui e li scambiano per sostanze
nutritive, e muoiono con lo stomaco appesantito da un prodotto
industriale inerte, il cui tempo di degrado si misura in secoli.
Secondo Ocean Conservancy, tra otto anni avremo nei mari una
tonnellata di plastica ogni tre tonnellate di pesce, con conseguenze che
abbiamo difficoltà a immaginare. E già oggi si calcola che nel solo Mediterraneo nuotano 250 miliardi di frammenti di microplastica.
Un’altra fonte sottolinea che sono già quasi 500 le “zone morte” dei
mari, dove cioè l’inquinamento ha avuto il sopravvento sulla miriade di
organismi che popolano le acque salate. E’ un’area di 245mila chilometri
quadrati, pari all’estensione dell’intera Inghilterra, che aumenta ogni
giorno di più. Vi è poi una questione, apparentemente solo a livello
scientifico, in realtà estremamente grave sul piano concreto.
Tra i metodi usati per valutare la quantità di plastica che finisce
nei mari, c’è quello di calcolare la quantità di plastica prodotta ogni
anno e i residui di produzione che vengono scaricati nei fiumi e
finiscono a mare e resta a galla. Vi
sono forti differenze nei risultati e qualche esperto ritiene che una
forte quantità di plastica scende continuamente al di sotto della
superfice dei mari e sfugge alle valutazioni. Viene
inoltre sottolineato come una parte della plastica finisca in isole e
spiagge remote, tenda cioè a ritornare a terra, mentre una parte (di
dimensioni piccolissime), si depositi nella catena alimentare, ad
esempio nelle cozze e in altri mitili e venga ingerita, ma possa poi
accumularsi all’interno di organismi superiori, come l’uomo. Sembra quindi che il meccanismo complessivo sia di dimensioni immense e sfugga ancora a rilevazioni e denunce precise, mentre ben poco è stato fatto per ridurre la produzione ed eliminare i processi di diffusione nelle acque più pericolosi.
Alberto Castagnola
fonte: comune-info.net