Incendi e spazzatura, tutta l’Italia è come la Terra dei fuochi

Negli ultimi tre anni si contano 260 incendi in impianti di stoccaggio e recupero dei rifiuti. La maggior parte di origine dolosa. “Il rifiuto meno lo tratti e più guadagni”, si sente in una intercettazione. Le anticipazioni della relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti

















Il 7 gennaio a Cairo Montenotte, Savona, le colline di rifiuti accumulati nel deposito della Fc Riciclaggi sono andati in fiamme, facendo scattare l’allarme diossina. Quattro giorni prima una colonna di fumo nero si era alzata su un capannone a Corteolona, nel pavese, dove erano stoccati plastica e altra spazzatura. Lo stesso film si era visto a settembre, poco lontano da lì, a Mortara, quando un incendio ha distrutto lo stabilimento Eredi Bertè per lo stoccaggio di rifiuti speciali e metalli, costringendo il sindaco a chiudere le scuole e a ordinare ai cittadini di barricarsi in casa. E le fiamme si sono alzate anche a Pomezia, Bruzzano, Cinisello Balsamo, Alcamo, Treviso e così via.
C’è puzza di bruciato dietro l’escalation di incendi sospetti che ormai da anni divampano in centinaia di impianti di gestione dei rifiuti da Nord a Sud. In tre anni se ne contano 260Quasi 90 all’anno, più di uno a settimana, secondo i numeri della relazione presentata il 10 gennaio dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. «Non parliamo di una sommatoria di singoli episodi, ma di un fenomeno di dimensioni preoccupanti», spiega la presidente della Commissione, Chiara Braga, deputata Pd. E nella maggior parte dei casi il fuoco è stato appiccato dalla mano umana.
Difficile ipotizzare una strategia criminale unitaria. La “mano” non è unica. «Tra le motivazioni può esserci la cattiva gestione dei rifiuti negli impianti, ma quello che emerge dalle indagini», spiega Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente, «è che gran parte di questi roghi è di natura dolosa. Il fuoco viene usato per far sparire delle prove, qualcosa che in quegli impianti non si deve far scoprire». Tanto che più di una procura ha aperto fascicoli per incendio doloso e anche la Direzione nazionale antimafia ci ha messo gli occhi sopra. Ma non si tratta in tutti i casi di ecomafie in senso stretto. Come spiega la presidente della Commissione rifiuti, «c’è anche una zona grigia di illeciti e non rispetto delle norme che trova ragione in presenza di un ciclo dei rifiuti che non funziona, che non ha impianti funzionanti sufficienti».
Perché non sono le vecchie discariche che vanno in fiamme. Dei 260 roghi censiti dalla Commissione, che ha incrociato i dati delle Aziende regionali per la protezione ambientale con quelli delle indagini giudiziarie, solo il 10% è avvenuto negli impianti più obsoleti. Il resto degli incendi è divampato in impianti evoluti di stoccaggio, trattamento e selezione dei rifiuti, inseriti nella filiera del recupero dei materiali riciclabili. E quattro roghi su dieci si sono registrati nel Nord Italia, dove è concentrata la maggior parte degli stabilimenti di nuova generazione. Solo in Lombardia nel 2017 si è registrato un incendio al mese.
In alcuni stabilimenti le fiamme sono divampate proprio qualche giorno prima del controllo programmato da parte dell’Arpa
«Il flusso dei rifiuti, rispetto alla nota stagione della “Terra dei fuochi”, si è invertito», spiega Braga. «In mancanza di impianti in alcune parti del Paese, il frutto della raccolta differenziata viaggia soprattutto da Sud a Nord». Cosa che porta molti impianti ad avere un carico eccessivo di rifiuti, ben oltre il limite consentito per un certo deposito.
Non solo. Alcuni stabilimenti potrebbero stoccare anche materiali per i quali non sono autorizzati, come i rifiuti pericolosi. O rifiuti derivanti dal traffico illegale. Chi non ha le carte in regola, insomma, potrebbe essere tentato dal fuoco. «Il rifiuto meno lo tratti e più guadagni», si sente in una intercettazione dell’indagine Rifiuti 2. E le fiamme risolvono tutto. «Gli incendi possono essere mirati quindi a far sparire questi stoccaggi fuori legge», spiega Braga. Non a caso, in alcuni stabilimenti le fiamme sono divampate proprio qualche giorno prima del controllo programmato da parte dell’Arpa. È quello che è accaduto a Mortara. La Eredi Bertè (già andata a fuoco nel 2004 per un incendio doloso) non era mai stata ispezionata dall’Arpa. Il primo controllo sarebbe dovuto avvenire il 7 settembre del 2017, ma gli ispettori si sono trovati davanti una montagna di rifiuti in fiamme. E in qualche deposito non è la prima volta che divampano le fiamme: quello di Cairo Montenotte era già andato in fumo nel 2015, riducendo in cenere interi container di materassi e rifiuti ingombranti.
Tra fine anni Novanta e inizio Duemila, nel Nord Italia il modus operandi era questo: società fantasma affittavano un capannone, fingendo operazioni di recupero rifiuti, lo riempivano di spazzatura e poi sparivano nel nulla. «Oggi c’è un’ulteriore evoluzione di questa modalità: si riempie il capannone di rifiuti e poi gli si dà fuoco», dice Stefano Ciafani.

La Cina da poco ha chiuso le porte all’importazione incontrollata di rifiuti dall’estero, dopo che per vent’anni l’abbiamo ricoperta di plastica e spazzatura di ogni tipo

Ma ad alimentare gli incendi potrebbe essere anche qualcosa che viene da molto lontano: la Cina da poco ha chiuso le porte all’importazione senza limiti dei rifiuti dall’estero, dopo che per vent’anni l’abbiamo ricoperta di plastica e spazzatura di ogni tipo. Legalmente e non. In mancanza di impianti in grado di smaltire i rifiuti o per guadagnarci senza smaltirli realmente, i nostri imprenditori li esportano soprattutto verso le rotte asiatiche. Lo scorso ottobre la Dda di Roma ha ordinato il sequestro di due aziende in provincia di Viterbo che fingevano di bonificare materiale contaminato e invece lo rivendevano in Cina, Corea, Pakistan e Indonesia.
«Dopo esser diventata la pattumiera del mondo», spiega Chiara Braga, «la Cina ha messo fine all’ingresso incontrollato di rifiuti sul proprio territorio». I flussi di materie che prima andavano all’estero ora restano nel nostro Paese. E anche se mancano gli impianti in qualche modo devono essere smaltiti. Anche col fuoco. «Il rifiuto meno lo tratti e più guadagni», dicevamo. Anche perché i controlli da parte delle Arpa, soprattutto nelle regioni del Centro Sud, sono scarsi o quasi assenti. E, come ricorda Ciafani, «non è ancora operativa la legge sulla rete delle agenzie di protezione ambientali. Da un anno e mezzo siamo ancora in attesa dei decreti attuativi».
Intanto i capannoni prendono fuoco da Nord a Sud, lasciando tappeti di cenere e rifiuti non più riciclabili. E inquinano l’atmosfera, ma anche il suolo. «Una cosa di cui si parla poco», dice Ciafani, «è che quando si spengono le fiamme di un impianto di rifiuti, le sostanze inquinanti si trasferiscono nelle falde acquifere». E 90 incendi all’anno non lasciano ben pensare.

fonte: http://www.linkiesta.it