L’impatto zero non esiste: gli scarti
dell’economia circolare rappresentano il 27,2% del totale, e il 30,9%
dei rifiuti pericolosi. Occorrono impianti adeguati sul territorio per
gestire questi flussi
Mentre il Pil italiano cresceva nel 2016 del +0,9% i rifiuti speciali prodotti nel Paese – ovvero
l’altra faccia della medaglia delle nostre attività produttive,
commerciali, di servizio, etc – correvano nello stesso periodo più del
doppio: +2%, frutto dell’aumento pari al +1,7% dei rifiuti non
pericolosi e al +5,6% dei pericolosi. A certificarlo è il Rapporto rifiuti speciali – edizione 2018 pubblicato oggi dall’Ispra,
che informa come nel 2016 i rifiuti speciali prodotti complessivamente
dall’Italia si attestino a quasi 135,1 milioni di tonnellate, un
quantitativo oltre quattro volte superiore a quello dei rifiuti urbani
(circa 30 milioni di tonnellate); da notare inoltre che in quelle 135,1
milioni di tonnellate rientrano anche «i quantitativi di rifiuti
speciali provenienti dal trattamento dei rifiuti urbani, pari a quasi
11,2 milioni di tonnellate»
Dati che complessivamente risultano inoltre sottostimati, in quanto – per dirla con l’ex presidente dell’Ispra Bernardo de Bernardinis
– la «certezza dell’informazione nel nostro Paese è un’utopia», a
maggior ragione se si parla di rifiuti speciali. È infatti lo stesso
Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale a ricordare
che la fonte dei dati, ovvero le banche dati Mud, è stata integrata
«con i quantitativi stimati da Ispra mediante l’applicazione di
specifiche metodologie». Non potrebbe essere altrimenti, in quanto da
una parte sono tenuti alla presentazione della dichiarazione Mud solo
enti e imprese produttori di rifiuti con un numero di dipendenti
superiore a 10, e dall’altra esistono «settori interamente esentati
dall’obbligo di dichiarazione». Da qui la necessità di operare stime
consistenti da parte dell’Ispra: su 135,1 milioni di tonnellate
complessive, ad esempio, la quota stimata di rifiuti non pericolosi
prodotti «rappresenta il 46,1% del dato complessivo».
A fronte di questo contesto assai nebuloso, che è indispensabile
ricordare, l’Ispra è comunque in grado di fornire dati fondamentali. Ad
esempio, quelli che spiegano da dove arrivano quelle 135,1 milioni di
tonnellate di rifiuti speciali prodotte in un singolo anno: soprattutto
dal settore costruzioni e demolizioni (40,6%), seguito subito dopo dalle
attività di trattamento dei rifiuti e attività di risanamento (27,2%),
perché anche l’economia circolare naturalmente produce rifiuti) e dalle
attività manifatturiere nel loro complesso (20,7%). Guardando invece ai
soli rifiuti pericolosi, il 38,3% arriva dal manifatturiero, il 30,9%
dalle attività di trattamento rifiuti e di risanamento, il 19,8% dal
settore dei servizi, del commercio e dei trasporti.
Come vengono gestititi tutti questi rifiuti? I dati disponibili
informano che il 65% va a recupero di materia, il 13,3% a “altre
operazioni di smaltimento”, l’1,5% a recupero di energia, lo 0,9% a
incenerimento e l’8,6% in discarica, una forma di smaltimento cresciuta
del 7,9% dal 2015 al 2016.
È inoltre utile dare un’occhiata alla voce export: «La quantità
totale di rifiuti speciali esportata nel 2016 – scrive l’Ispra – è pari a
3,1 milioni di tonnellate, di cui il 67,4% (2,1 milioni di tonnellate) è
costituito da rifiuti non pericolosi ed il restante 32,6% (1 milione di
tonnellate) da rifiuti pericolosi». Da notare che «il 58,9% dei rifiuti
pericolosi esportati, sono “rifiuti prodotti da impianti di trattamento
dei rifiuti” (capitolo 19), 601 mila tonnellate», a dimostrazione di
come ancora oggi purtroppo non riusciamo realmente a chiudere il cerchio
dell’economia circolare nazionale, nonostante il profluvio di rapporti e
conferenze stampa che ne declamano i benefici.
Naturalmente, un altro esempio in materia è fornito dall’amianto.
Messo al bando nel 1992, l’amianto continua ancora ad ammorbare il
Paese: come ricorda l’Ispra è possibile trovarlo ovunque, dato che in
passato era un materiale ampiamente utilizzato per la realizzazione di
frigoriferi e impianti di condizionamento, per la coibentazione di
carrozze ferroviarie, autobus e navi, sui tetti sottoforma di lastre
piane o ondulate, in alcuni elettrodomestici (es. forni, stufe, ferri da
stiro) come anche in tessuti per abbigliamento (es. giacche, pantaloni,
stivali).
Ancora oggi si stima in 32-40 milioni di tonnellate la presenza di
amianto che attende di essere bonificato. Ma per procedere con le
bonifiche è necessario (anche) sapere dove conferire i rifiuti
contenenti amianto, provenienti dalle bonifiche stesse; purtroppo però
sono solo 21, nel 2016, le discariche operative che smaltiscono questi
rifiuti, una lacuna denunciata più volte sia dal ministero dell’Ambiente sia da associazioni come Legambiente.
Ecco dunque che i rifiuti contenenti amianto prodotti in Italia
nell’anno 2016 sono pari a 352 mila tonnellate, in calo del 4,6% – le
bonifiche vanno a rilento? –, e quelli effettivamente gestiti sono
ancora meno (273 mila tonnellate), mentre il quantitativo esportato di
rifiuti contenti amianto ammonta a 125mila tonnellate: «La Germania è
l’unico Paese che, nel 2016, riceve i rifiuti di amianto dall’Italia, ai
fini dello smaltimento», e – paradossalmente – mentre sul territorio
italiano insorgono sempre più spesso comitati “ambientalisti” se non gli
stessi amministratori locali per impedire la realizzazione delle
discariche necessarie a ospitare i rifiuti provenienti dalle bonifiche,
paghiamo profumatamente la Germania per destinare il nostro amianto
«alle miniere di sale del Paese; la miniera salina di Stetten, una delle
più produttive, è autorizzata a ricevere 250 tipologie di rifiuti,
utilizzate per la messa in sicurezza delle cavità che si generano a
seguito dell’attività estrattiva».
fonte: www.greereport.it