Rifiuti, a che punto siamo in Italia su prevenzione e riutilizzo degli imballaggi?

Dalla “psicosi” nazionale sui sacchetti biodegradabili al nuovo pacchetto normativo europeo sull’economia circolare. Intervista a Carlo Milanoli, presidente del consorzio Eurepack




















Gli imballaggi costituiscono appena il 7% circa di tutti i rifiuti prodotti in Italia ogni anno, una frazione però molto vicina alla quotidianità dei cittadini, in quanto rappresentano al contempo il 35-40% in peso dei rifiuti solidi urbani prodotti ogni anno: come e in che volumi il maggiore impiego di imballaggi riutilizzabili potrebbe incidere sul problema?

«Vorrei che fossero le cifre a parlare. In generale si calcola che l’impiego di imballaggi riutilizzabili per il trasporto delle merci contribuisca a una riduzione media di 70 kg di rifiuti per ogni tonnellata di merce trasportata. Oggi in Italia, nel circuito della grande distribuzione si stimano 300 milioni all’anno di movimenti di cassette riutilizzabili in plastica per il trasposto dei prodotti ortofrutticoli. Questo comporta l’eliminazione di altrettante cassette monouso, con 150.000 tonnellate in meno ogni anno di rifiuti da imballaggi destinati alla raccolta differenziata.
L’utilizzo di una soluzione analoga in altre filiere dei freschi (carne, prodotti ittici) della grande distribuzione si stima che comporterebbe fino al raddoppio dei movimenti annui e del volume di rifiuti risparmiati. Soluzioni praticabili sono infatti attualmente allo studio.
Centinaia di milioni di cassette monouso verrebbero poi sottratte ogni anno al circuito della raccolta differenziata, se potessero essere sostituite da altrettante riutilizzabili in circuiti diversi dalla grande distribuzione. Penso ad esempio al circuito: produttori ↔ mercato generale ↔ dettaglianti.
Tutto questo avrebbe un impatto positivo non solo in termini di minori rifiuti, ma anche in termini di sviluppo economico del territorio, con nuove imprese che necessariamente dovranno nascere per la produzione delle cassette e per la gestione logistica delle stesse».

Dal 2012 l’Italia vieta già (Dl 2/2012) l’utilizzo di sacchetti per l’asporto merci che non siano biodegradabili o riutilizzabili: come giudica questi primi anni di applicazione della norma?

«La giudico molto positivamente, soprattutto perché ha avuto il merito di porre l’attenzione del grande pubblico sul problema dei sacchetti in plastica a perdere. Questo ha contribuito in maniera determinante ad innescare un’evoluzione positiva nel comportamento dei consumatori, con l’uso sempre più diffuso delle borse riutilizzabili e dei carrelli.  Questo è a mio avviso il vero valore aggiunto della norma.
Naturalmente, se la grande distribuzione si è adeguata prontamente alla nuova normativa, più lenta sembra essere la sua applicazione presso altri canali di vendita, dove probabilmente si sconta anche l’insufficiente campagna informativa da parte delle autorità competenti».

L’inizio del 2018 italiano è stato segnato dalla “psicosi” scattata in seguito all’entrata in vigore della legge 123/2017 sui sacchetti per l’imballaggio della merce sfusa, che tra l’altro sembra aver causato un crollo nella vendita dei prodotti sfusi a vantaggio di quelli confezionati. In questo caso cos’è andato storto?

«Intanto chiariamo che questo provvedimento interessa principalmente, per non dire unicamente, la grande distribuzione. È il naturale proseguimento nella logica della progressiva eliminazione degli shopper in plastica monouso. Peccato che sia stato gestito “all’italiana”, con un grande dibattito tra gli addetti ai lavori, nel quale si sono scontrati legittimi interessi politici ed altrettanto legittimi interessi aziendali. Questo a scapito di una corretta ed approfondita informazione preventiva, in primo luogo nei confronti dei consumatori. Il risultato è che il provvedimento, giusto in linea di principio, viene vissuto come imposto dall’alto, sotto la pressione di non meglio identificate lobby. Infatti, l’obiettivo che viene colto dal pubblico non è tanto la riduzione della plastica monouso, quanto la sua sostituzione con un diverso materiale.
Inoltre, la giustissima esigenza “pedagogica” di far pagare al consumatore almeno parte del costo dello smaltimento del sacchetto viene in questo caso stravolta. Il paradigma è risultato infatti completamente ribaltato: ieri il costo del sacchetto in plastica era invisibile perché incluso nel prezzo dei prodotti ortofrutticoli, oggi al consumatore è richiesto di pagare un fee, pur dichiarandogli che questo sacchetto è più ecosostenibile, e quindi, in teoria, con un costo di smaltimento inferiore.
Perciò non mi meraviglia affatto il disorientamento dei consumatori. La soluzione ottimale sta nel riutilizzo. Si mettano attorno ad un tavolo grande distribuzione, consumatori e ministeri competenti, per normare uno shopper riutilizzabile, con caratteristiche adeguate e peso dichiarato; si riformuli il principio di responsabilità per chi lo utilizza. La nostra associazione è pronta a fornire, se richiesto, il proprio contributo».

A livello europeo il nuovo pacchetto normativo sull’economia circolare è ormai realtà. Come giudica l’impegno Ue nella promozione del riuso per gli imballaggi?

«Ritengo il pacchetto abbia risvolti in chiaroscuro, come si dice. Infatti, parlando di circolarità dell’economia in chiave di riduzione dei rifiuti, finisce per porre l’accento soltanto sul riciclo. Non ne sottovaluto certo l’importanza. Significa ripensare i beni prodotti affinché siano di facile riciclabilità; creare un indotto di imprese per separare i materiali costituenti; curarne il processo di riciclo, massimizzando il valore del prodotto riciclato.
Se però parliamo di riduzione dei rifiuti da imballaggio, allora l’accento e l’impegno va messo principalmente sul riutilizzo, la cui “R” dovrebbe essere la prima tra le tre della sostenibilità (riduco, riuso, riciclo).
In questo senso non mi pare si siano fatti grandi passi avanti in termini di definizione di cosa possa essere definito come imballaggio riutilizzabile; quando e come debbano essere gestiti logisticamente da terzi i cicli di riutilizzo; come e da chi debba essere gestito il fine-vita; quali incentivi sul piano economico e normativo debbano essere previsti per agevolare efficacemente l’introduzione di schemi di riutilizzo per le varie tipologie di imballaggio.
Eppure, la stessa Commissione europea già nel 2008 aveva stabilito molto chiaramente che nella gerarchia della gestione dei rifiuti al primo posto c’è la prevenzione della loro formazione. Proprio quello che egregiamente fa l’imballaggio riutilizzabile quando ben progettato: non diventa mai rifiuto.

Su questo fronte, a livello normativo, c’è quindi ancora molto da lavorare. Noi come consorzio Eurepack intendiamo impegnarci per coagulare attorno al concetto di riutilizzo, declinato nelle sue diverse forme, quanti in Italia e in Europa sono convinti che esso sia centrale in ogni serio discorso sull’economia circolare ed intendono cooperare per supportare e stimolare le Istituzioni Europee, affinché esprimano una posizione chiara sui punti che ho citato e su tutti gli altri ad essi connessi. Questo sarebbe il miglior modo con cui le istituzioni europee possono promuovere il riutilizzo degli imballaggi».

fonte: www.greenreport.it