Veicoli “fossili”: la rottamazione non sarà cosa da poco

Il bando alla circolazione di diesel e benzina è stato annunciato in diversi Paesi del mondo. Italia non pervenuta. Ma il tempo stringe. La rubrica di Stefano Caserini





Norvegia: 2025; Germania: 2030; India: 2030; Irlanda: 2030; Israele: 2030; Paesi Bassi: 2030; Scozia: 2032; Gran Bretagna: 2040; Francia: 2040; California: 2040; Taiwan: 2040. Questo l’elenco dei Paesi che hanno annunciato l’intenzione di introdurre un divieto di vendita di automobili alimentate a combustibili fossili. Si tratta di annunci, non ancora seguiti da atti legislativi definitivi, ma in alcuni i divieti non si sono limitati all’effetto annuncio, sono stati inseriti nei lavori dei governi e dei parlamenti. In alcuni casi il divieto riguarda solo i due combustibili più usati, benzina e diesel, in altri anche GPL e metano; in qualche Stato il divieto si estende ai mezzi commerciali leggeri.

La Norvegia potrebbe essere la prima ad attuare questo divieto, fra meno di 8 anni, e questo obiettivo ha il supporto dei quattro maggiori partiti politici. Il 2025 è davvero vicino, ed è legittimo che per qualcuno questi annunci sembrino incredibili, nel senso “non credibili”. In fondo la produzione e vendita su scala industriale di veicoli alimentati a combustibili fossili avviene da più di un secolo ed è diffusa in modo capillare nel mondo, generando profitti giganteschi. Rottamarla in qualche decennio non sarà cosa da poco: i dubbi sono legittimi.


2025, l’anno in cui in Norvegia sarà vietata la vendita di veicoli alimentati a benzina e diesel

A questi annunci se ne aggiungono altri, che riguardano la circolazione dei veicoli diesel: Città del Messico, Atene, Parigi, Madrid hanno annunciato l’intenzione di introdurre divieti di circolazione per questi veicoli nel 2025. Il motivo alla base in questi casi non è il cambiamento climatico, ma l’inquinamento dell’aria: i veicoli diesel hanno maggiori emissioni di ossidi di azoto e di polveri fini rispetto ai veicoli a benzina. Certo, gli ultimi modelli dotati di dispositivi per abbattere una parte delle emissioni di questi inquinanti (De-NOx e filtri antiparticolato) hanno ridotto un po’ il problema, ma non basta, tanti sono i diesel inquinanti ancora circolanti.

Anche in questi casi si tratta di annunci importanti, perché un divieto sulla circolazione agisce molto più rapidamente di un divieto sulla produzione dei veicoli, che permette la circolazione per molti anni dei veicoli già prodotti.

E l’Italia? Non pervenuta, a livello nazionale, sui divieti alla vendita. A livello di città, sia Milano sia Roma hanno annunciato l’intenzione di vietare la circolazione dei diesel, rispettivamente dal 2025 e dal 2030. Il divieto però sarebbe limitato solo al centro città, che nel caso di Milano è un’area piuttosto esigua, circa 9 chilometri quadrati. I divieti maggiori in Italia continuano a riguardare singole categorie di veicoli (euro 2, 3, 4, ecc.), con categorie e date che cambiano da zona a zona, in modo non sempre comprensibile e giustificato. Si tratta di divieti che a volte colpiscono veicoli prodotti poco più di una decina d’anni prima, e nel caso dei diesel i reali vantaggi del passaggio da una categoria euro alla successiva sono stati, in passato, discutibili.

L’area della pianura padana in cui vivo, in cui le condizioni meteorologiche sono davvero sfavorevoli alla dispersione degli inquinanti, sarebbe una delle aree del mondo che avrebbe più da guadagnare da un bando dei veicoli a combustibili fossili. Solo con una politica decisa contro i combustibili fossili si potrebbero raggiungere quei limiti così ambiziosi di qualità dell’aria. I tempi della crisi climatica non permettono di continuare con la lentezza e le inerzie degli ultimi 20 anni. Servono segnali precisi e diretti ai produttori, serve fare capire loro che è necessario cambiare in modo rapido il sistema dei trasporti. Anche in Italia.

Stefano Caserini è docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Il clima è (già) cambiato” (Edizioni Ambiente, 2016)

fonte: https://altreconomia.it/