Bratti: «Importiamo materiali necessari
all'industria italiana ma esportiamo rifiuti che non abbiamo modo di
trattare adeguatamente con impianti»
Anche l’economia circolare produce
inevitabilmente scarti: 35,7 milioni di tonnellate l’anno arrivano da
attività di trattamento rifiuti e risanamento, che non vogliamo però
gestire adeguatamente
Quando il dibattito pubblico si concentra sui rifiuti in genere
l’attenzione è tutta per la fetta più immediatamente percepibile perché proviene essenzialmente dalle nostre case, gli urbani, che secondo l’Ispra nell’ultimo anno censito (2017) ammontano a 29,6 milioni di tonnellate; sempre l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale, con il report pubblicato oggi,
ci ricorda però che l’altra faccia della luna è ben più grande. I
rifiuti speciali prodotti dall’Italia nel 2017 sono 138,9 milioni di
tonnellate – compresi tra l’altro i quantitativi di rifiuti speciali
provenienti dal trattamento dei rifiuti urbani, pari a circa 10,9
milioni di tonnellate –, suddivisi tra 129.226.731 tonnellate di non
pericolosi e 9.669.476 tonnellate di pericolosi.
Dato che a proposito di rifiuti speciali – per dirla con l’ex presidente dell’Ispra Bernardo de Bernardinis –
la «certezza dell’informazione nel nostro Paese è un’utopia», questi
numeri sono in larga parte di stime, che riguardano il 43,6% della
quantità complessiva dei rifiuti speciali come sottolinea l’Ispra, ma si
tratta comunque di dati preziosi in quanto i più precisi a nostra
disposizione.
Innanzitutto mostrano che il Programma nazionale di prevenzione dei
rifiuti rimane disatteso: «Tra il 2016 e il 2017 si rileva un aumento
nella produzione totale di rifiuti speciali, pari al 2,9%,
corrispondente a circa 4 milioni di tonnellate». Si tratta un incremento
quasi doppio rispetto a quello conseguito dal Pil nello stesso periodo (+1,6%),
e allargando il campo d’osservazione il risultato non cambia, dato che
nell’intero periodo 2010-2017 la variazione del rapporto tra produzione
di rifiuti speciali non pericolosi per unità di Pil è positiva.
Da dove arrivano tutti questi rifiuti speciali? In primo luogo dal
settore delle costruzioni e demolizioni (41,3% del totale), cui seguono
subito dopo le attività di trattamento dei rifiuti e di risanamento
(25,7%, pari a 35,7 milioni di tonnellate), a testimonianza di come
anche trattare rifiuti produce – come ogni altro processo industriale –
rifiuti, che dovranno poi essere gestiti; sul terzo posto del podio ci
sono infine le attività manifatturiere (21,5%).
Complessivamente, la gestione dei rifiuti speciali prodotti in Italia
da una parte mostra aspetti virtuosi – avanza il recupero di materia e
diminuisce la discarica – ma dall’altra resta una strutturale carenza
d’impianti per chiudere davvero il cerchio dell’economia circolare.
Ne dettaglio, il recupero di materia riguarda il 67,4% (99,1 milioni
di tonnellate) dei rifiuti speciali, lo smaltimento in discarica l’8,2%
(12 milioni di tonnellate) e le altre operazioni di smaltimento lo 10,9%
(16 milioni di tonnellate); appaiono residuali, con l’1,4% e con lo
0,9%, le quantità avviate al coincenerimento (2 milioni di tonnellate) e
all’incenerimento (1,2 milioni di tonnellate).
Complessivamente nel 2017 l’Italia segna un +7,7% delle quantità
avviate a recupero di materia ed una diminuzione dell’8,4% di quelle
destinate allo smaltimento, ma esporta circa 3,1 milioni di tonnellate
di rifiuti speciali; è vero anche che ne importiamo il doppio (6,6
milioni di tonnellate), ma si tratta essenzialmente di materie prime
seconde necessarie alla nostra industria. Circa 5 milioni di tonnellate
di import sono infatti rifiuti metallici destinati principalmente alle
acciaierie localizzate in Lombardia e in Friuli Venezia Giulia.
«Importiamo materiali necessari all’industria italiana – sintetizza
il direttore Ispra Alessandro Bratti – ma esportiamo rifiuti che non
abbiamo modo di trattare adeguatamente con impianti». E si tratta
soprattutto, paradossalmente, di scarti provenienti dall’economia
circolare che ci ostiniamo a non vedere inseguendo la retorica rifiuti zero:
i rifiuti esportati sono costituiti infatti per il 50% da “rifiuti
prodotti da impianti di trattamento dei rifiuti, impianti di trattamento
delle acque reflue fuori sito nonché dalla potabilizzazione dell’acqua e
dalla sua preparazione per uso industriale”. Nel dettaglio, il 60,7%
dei rifiuti pericolosi esportati, sono “rifiuti prodotti da impianti di
trattamento dei rifiuti”, 594 mila tonnellate, e anche il 45,3% del
totale dei rifiuti non pericolosi, pari a circa 940 mila tonnellate, è
costituito da “rifiuti prodotti da impianti di trattamento dei rifiuti”.
Si tratta di rifiuti che in larga parte finiscono in Germania, a caro
prezzo.
Del resto è per la gestione di tutti i rifiuti speciali che si rileva
una profonda asimmetria nella dislocazione degli impianti sul
territorio nazionale: la maggiore concentrazione è al Nord – e in
particolare in Lombardia (2.176), Piemonte (1.137) e in Veneto (1.126)
–, mentre nel resto del Paese gli impianti sono molti meno: la presenza
più alta si registra tra le regioni del Centro la Toscana (comunque
ferma a 837) e tra quelle del Sud la Campania (730).
Non a caso si stima
che nel solo 2016 i rifiuti italiani – urbani e speciali – abbiano
percorso complessivamente 1,2 miliardi di km su territorio nazionale in
cerca di impianti, il che equivale a percorrere circa 175.000 volte
l’intera rete autostradale italiana. «Se vogliamo risolvere il problema
della gestione rifiuti e della legalità bisogna sanare il gap tra
domanda e offerta facendo impianti»,
osserva il presidente di Assoambiente Chicco Testa, mentre dal fronte
normativo continuano a non arrivare le risposte necessarie per sbloccare
l’economia circolare: «È fondamentale lavorare su semplificazione
capace di tutelare ambiente, salute e impresa – sottolinea il presidente
di Legambiente, Stefano Ciafani – La soluzione trovata nella L55/2019 sull’End of waste ci lascia perplessi. Serve lavoro di condivisione prima di dare risposte necessarie».
Nel mentre in assenza degli impianti industriali necessari per
gestire i nostri rifiuti peggiora sia il bilancio ambientale si quello
economico (e occupazionale) dell’Italia, mentre nel mentre altri Paesi
guadagnano a nostre spese. Un caso scuola è da sempre l’amianto, messo
al bando da 27 anni ma ancora presente sul territorio in 32-40 milioni di tonnellate da bonificare e smaltire; ma senza gli impianti di smaltimento, appunto, le bonifiche non si fanno.
Infatti i rifiuti contenenti amianto prodotti in Italia nel 2017 sono
pari a 327 mila tonnellate, con una diminuzione rispetto al 2016 di
circa 25 mila tonnellate (-7%), e non è una buona notizia: l’andamento
della produzione nel periodo 2007 – 2017, osserva l’Ispra, è collegata
allo smantellamento dei manufatti e alle bonifiche dei siti contaminati
dalla presenza dei rifiuti di amianto. In compenso, anche il poco
amianto bonificato prende in larga parte la via dell’estero: la Germania
è il Paese che riceve (profumatamente pagata) la quasi totalità del
nostro export d’amianto, circa 100 mila tonnellate smaltite in miniere
dismesse e in particolare in quella salina di Stetten, autorizzata a
ricevere 250 tipologie di rifiuti utilizzate per la messa in sicurezza
delle cavità che si generano a seguito dell’attività estrattiva.
Dunque benefici ambientali ed economici per i tedeschi alimentati dai
rifiuti italiani, che rinunciamo a gestire in patria – lasciando cadere
gli sbandierati principi di sostenibilità e prossimità – a favore di un
ambientalismo di facciata alimentato da sempre più numerosi comitati
locali e soprattutto dell’insipienza politica, primo motore delle sindromi Nimby e Nimto che bloccano lo sviluppo sostenibile italiano.
fonte: www.greenreport.it