Le soluzioni proposte dalle grandi multinazionali per combattere l’emergenza plastica? Sono inefficaci, non sono sostenibili e distolgono risorse e attenzione da strategie migliori. Sono queste le conclusioni tratte dall’associazione ambientalista Greenpeace, che ha da poco pubblicato un rapporto dal titolo eloquente: “Il Pianeta usa e getta. Le false soluzioni delle multinazionali alla crisi dell’inquinamento da plastica”.
Greenpeace accusa infatti le grandi aziende di concentrarsi su strategie di greenwashing che, in sostanza, non aiutano granché a risolvere il problema plastica, ma consentono alle multinazionali di mantenere lo status quo, e cioè di vendere prodotti avvolti da packaging usa e getta. La soluzione dell’emergenza passa dalla riduzione degli imballaggi monouso e da investimenti in nuovi packaging riutilizzabili, nel vuoto a rendere e nella diffusione dei prodotti sfusi (refill).
L’associazione ambientalista punta il dito contro tre pratiche insospettabili: gli imballaggi monouso in carta, le bioplastiche e l’investimento per potenziare il riciclo della plastica, anche scommettendo su tecnologie emergenti. Si tratta di scelte che, secondo Greenpeace, pur essendo positive, in realtà non sono sostenibili sul lungo periodo e non sono in grado di risolvere l’emergenza. Ma andiamo con ordine.
Sostituire gli imballaggi in plastica usa e getta con la carta, come hanno scelto di fare McDonald’s, Starbucks e Nestlé, può sembrare una buona idea, in teoria. In realtà, l’impiego di quantità sempre maggiori di carta per il packaging si scontra inevitabilmente con gli sforzi di riforestazione che si dovranno mettere in atto per contrastare gli effetti del cambiamento climatico. D’altra parte anche le foreste gestite responsabilmente con certificazioni di sostenibilità (come la Fsc) non sono in grado di rispondere a un aumento della domanda di carta.
Di solito la carta è scelta come alternativa alla plastica perché è un materiale facilmente riciclabile. Nonostante ciò, per le aziende, soprattutto quelle del settore alimentare, reperire sul mercato carta riciclata di qualità non è facile, spesso a causa delle contaminazioni che si possono verificare durante il processo di riciclo. A volte, invece, sono proprio i nuovi packaging di carta a non essere riciclabili, come nel caso delle cannucce introdotte da McDonald’s nel Regno Unito e in Irlanda, che a causa del loro spessore e della loro composizione non possono essere riciclate.
Il greenwashing passa anche attraverso le bioplastiche, le plastiche biodegradabili e quelle compostabili. Infatti c’è una grande confusione tra i consumatori, che finiscono per considerare equivalenti questi termini, quando in realtà una bioplastica non è necessariamente biodegradabile e viceversa, e di fare pasticci al momento dello smaltimento.
Una bioplastica è un materiale prodotto a partire da materie prime vegetali. Tuttavia, oggi, la gran parte delle bioplastiche derivano da colture ad uso alimentare umano e quindi competono con la produzione di cibo, alzandone i prezzi e contribuendo alla deforestazione causata dall’agricoltura industriale. Le plastiche biodegradabili sono materiali progettati per degradarsi in determinate condizioni, che però spesso non vengono soddisfatte nell’ambiente, con il rischio di contribuire alla diffusione delle microplastiche. Quelle compostabili, come ad esempio il materiale usato per i sacchetti distribuiti nei supermercati, sono plastiche pensate per dissolversi completamente negli impianti di compostaggio. Non tutti i centri di trattamento dei rifiuti organici, però, sono in grado di gestire questo materiale, e la situazione non potrà che peggiorare man mano che cresce l’uso di questi materiali.
Molte aziende hanno deciso di puntare sul riciclo della plastica. Oggi solo una frazione di tutta la plastica messa in circolazione viene riciclata (in Europa circa il 31%). Tutto il resto finisce in discarica, negli inceneritori o, nella peggiore delle ipotesi, viene disperso nell’ambiente. Ad oggi gli impianti di riciclaggio non sono in grado di stare al passo con l’enorme mole di plastica prodotta, tanto che alcuni Paesi industrializzati spediscono parte dei rifiuti nei paesi in via di sviluppo. Potenziare la nostra capacità di riciclo non sembra una cattiva idea.
La realtà è che solo una piccola parte della plastica viene effettivamente riciclata e si trasforma in materiali nuovamente riciclabili. Gran parte subisce un trattamento di ‘downcycling’, diventa cioè un materiale meno pregiato, che non può più essere riciclato e quindi, quando raggiunge la fine vita, viene portato in discarica o nei termovalorizzatori. Questo spesso accade perché nella la filiera del riciclo è difficile separare correttamente i diversi polimeri, che spesso si ritrovano assemblati in un unico imballaggio multimateriale.
Per ovviare ai limiti del riciclo tradizionale della plastica, molte aziende stanno investendo su tecnologie emergenti, che globalmente vengono definite ‘riciclo chimico’. Si tratta di tecniche che impiegano solventi, la depolarizzazioni chimica o la depolarizzazione termica (pirolisi) dei materiali plastici. Tuttavia, ci sono grosse preoccupazioni sull’impatto ambientale, soprattutto per quanto riguarda la pirolisi, che richiede grandi quantità di energia e può generare sottoprodotti pericolosi.
Greenpeace ritiene le soluzioni proposte dalle aziende ‘toppe’ insufficienti ad affrontare un problema molto più grande, che si può risolvere solo ripensando il modo in cui tutti i prodotti, alimentari o meno, sono realizzati, distribuiti e consumati.
fonte: www.ilfattoalimentare.it