Economia circolare: cosa cambia nella gestione dei rifiuti?


















Nello scorso mese di marzo – in piena emergenza Covid-19 – è avvenuta una piccola grande rivoluzione nel settore dei rifiuti. Sono stati approvati, in via preliminare quattro decreti legislativi che recepiscono le quattro Direttive europee del Pacchetto Economia Circolare.

Si tratta di provvedimenti che apporteranno innovazioni sostanziali al Testo Unico in materia Ambientale (TUA), cioè quell’insieme di norme che disciplina la gestione dei rifiuti e indicherà la via per realizzare all’economia circolare nel nostro Paese.

Le novità riguarderanno molti ambiti del settore, quali: la definizione di rifiuto urbano, la governance e le strategie nazionali, una revisione degli incentivi economici e dei criteri di responsabilità dei produttori, finalità e obiettivi del riciclaggio e modifica alla disciplina dell’End of Waste. Ma andiamo con ordine.

1. Un nuovo modo di definire i rifiuti

La nuova definizione di rifiuto “urbano”, e di conseguenza di rifiuto “speciale”, prefigura un superamento delle logiche di assimilazione dei rifiuti prodotti dalle attività economiche. Gli assimilati sono quei rifiuti prodotti dalle utenze non domestiche, simili per natura e composizione ai rifiuti domestici e producibili da ciascuna delle 30 categorie di attività economica già oggi assoggettate al pagamento della TARI.

Se, sino ad oggi, il discrimine tra ciò che può o non può essere considerato urbano si è basato su criteri quali le superfici e la tipologia di attività o ancora la quantità di rifiuti di una certa qualità prodotti, con la nuova definizione tutti i rifiuti simili per qualità agli urbani sono destinati a divenire urbani, su tutto il territorio nazionale. Ciò comporta evidentemente un aumento della produzione di rifiuti urbani, un calo della produzione di rifiuti speciali non pericolosi.

Secondo le nostre stime, nelle regioni dovessero allinearsi ai tassi di assimilazione di una regione come l’Emilia-Romagna o la Toscana, la produzione di rifiuti urbani in Italia potrebbe aumentare del 25-30% (portandosi a 38 milioni di tonnellate/anno), in ragione di un aumento del contributo offerto dai rifiuti assimilati attesi passare dai 9,8 a 17,8 milioni di tonnellate/anno.

Questo scenario potrebbe portare a un aumento dei costi di gestione dei rifiuti urbani nei territori in deficit, sotto la pressione dei maggiori flussi assimilati da gestire e degli investimenti necessari a chiudere il divario impiantistico, e viceversa a una riduzione nei territori provvisti di impianti con capacità superiori al fabbisogno.

Infine, la classificazione dei “rifiuti derivanti dalla attività di recupero e smaltimento di rifiuti” tra i rifiuti urbani appare sì un intervento volto ad accrescere il grado di trasparenza e “responsabilizzazione” dei territori sulla necessità di assicurare l’autosufficienza nello smaltimento dei rifiuti urbani non pericolosi, ma al contempo espone al rischio di emergenze-rifiuti i territori mancanti degli impianti e che sino ad oggi hanno fatto affidamento sul mercato e sulle esportazioni verso altro regioni. Laddove tale impostazione dovesse essere confermata, andrebbero dunque individuate soluzioni transitorie in grado di assicurare la chiusura del ciclo dei rifiuti per il tempo necessario alla realizzazione degli impianti mancanti.

2. L’importanza di una strategia nazionale

In secondo luogo, come nell’energia, anche il settore rifiuti necessita di un Programma Nazionale e di una relativa cabina di regia. Le carenze impiantistiche, il desiderio di raggiungere gli obiettivi sfidanti di riciclaggio e riduzione dello smaltimento in discarica nei prossimi anni, l’esigenza di governare la transizione ecologica, sono elementi che rafforzano la necessità di un indirizzo e di un sostegno centrale. Non solo. Si pongono anche come un rinforzo alla “cinghia di trasmissione” che dal centro arriva nei territori e che passa anche per il completamento della governance e la piena operatività degli Enti di governo degli Ambiti.

I recenti avvenimenti, legati alla diffusione dell’epidemia di COVID-19, hanno mostrato come la gestione dei rifiuti è un ambito strategico, nel quale non è più possibile fare affidamento sulle esportazioni, un servizio essenziale la cui continuità non può essere messa a repentaglio.

Una risposta a questa esigenza è offerta dall’art.198-bis. Il provvedimento indica che il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM), con il supporto dell’ISPRA, è tenuto a predisporre un Programma Nazionale per la gestione dei rifiuti entro 18 mesi dall’entrata in vigore della norma. Tra le azioni di cui si dovrà fare carico vi sono:
realizzare una ricognizione impiantistica nazionale, per tipologia di impianti e regione;
stabilire i criteri per l’individuazione di distretti interregionali, che consentano la razionalizzazione degli impianti sulla base del principio di prossimità;
elaborare un Piano nazionale di comunicazione e conoscenza ambientale;
stabilire i meccanismi di solidarietà tra Regioni in caso di emergenze;
individuare i flussi di rifiuto con difficoltà di smaltimento o possibilità di recupero, i relativi fabbisogni impiantistici da soddisfare.

Rispetto a quest’ultimo punto, la novità è dunque quella di estendere il principio di area vasta anche al fabbisogno impiantistico per le attività di recupero, non solo di energia ma anche di materia. La disposizione sembra prefigurare l’eventualità di risposte impiantistiche integrate a livello di distretto interregionale anche per il riciclaggio.

Affinché la Strategia Nazionale possa rivelarsi davvero efficace, quest’ultima dovrà farsi carico di affrontare l’annosa questione dei deficit impiantistici, oltre che delineare la traiettoria per intercettare gli obiettivi della transizione ecologica, che vanno ben oltre i meri target di riciclaggio. Un bilancio che ad oggi vede un passivo di 2,1 milioni di tonnellate di rifiuti da avviare a recupero energetico o smaltimento tra rifiuti urbani e speciali e ben quattordici regioni in deficit, costrette ad esportare al di fuori dei propri confini rifiuti urbani destinati a smaltimento.

3. EPR o responsabilità estesa del produttore

I recenti recepimenti hanno conseguenze su quella che viene definita responsabilità estesa del produttore o (EPR): quell’approccio di politica ambientale nel quale il produttore di un bene è responsabile anche della fase post-consumo, ovvero della sua gestione una volta che il manufatto è divenuto un rifiuto.

L’EPR italiana, così recepita, mostra diversi elementi di novità. Tra i principali vi sono:
’istituzione di nuovi sistemi di EPR, ponendo le basi affinché il settore si sviluppi in un’ottica pro-concorrenziale;
’adozione di misure per incoraggiare una progettazione volta a ridurne l’impatto ambientale dei prodotti e la produzione dei rifiuti. Dunque, viene ribadita la necessità di incentivare la diffusione su larga scala di prodotti e componenti pensati per un uso multiplo, contenenti materiali riciclati. Materiali, questi, sin dall’origine delineati per essere quanto più durevoli e riparabili possibili, atti a venire riutilizzati e riciclati anche più volte;
’istituzione di un Registro Nazionale dei Produttori, a cui sono tenuti ad iscriversi tutti i produttori e che dovrà contenere i dati sui quantitativi di prodotti soggetti a regime di EPR immessi sul mercato nazionale e le modalità operative con cui gli stessi produttori sono chiamati a traguardare i propri obblighi. Un provvedimento innovativo che mira a censire i produttori e i quantitativi di prodotto da questi ultimi immessi, che si configura sia come strumento per la trasparenza sia come leva per declinare a livello di singolo operatore gli obiettivi di riciclaggio.

La “nuova” Responsabilità Estesa del Produttore può rappresentare un punto di svolta nell’applicazione degli schemi EPR nel nostro Paese. I requisiti informativi e finanziari, l’incentivo a una progettazione sostenibile dei prodotti e la semplificazione delle procedure per attivare nuovi sistemi di EPR sono il passo avanti che ci si attendeva.

4. La centralità del riciclaggio

Siccome non possiamo più permetterci di non riutilizzare o riciclare i rifiuti urbani che possono essere reimpiegati, la nuova versione dell’articolo 181 del TUA recepisce gli ambiziosi target sul riciclaggio per il periodo che va dal 2020 al 2035. Nello specifico, entro il 2020, la preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio dei rifiuti provenienti dai segmenti della carta, dei metalli, della plastica e del vetro, siano essi di origine urbana o assimilata, deve raggiungere il 50% in termini di peso; la quota sale al 70% per la preparazione per il riutilizzo, il riciclaggio e altri tipi di recupero di materiale. Gli obiettivi di preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio dei rifiuti urbani vedranno una crescita ad almeno il 55% entro il 2025, in misura non inferiore al 60% entro il 2030 e a un minimo del 65% entro il 2035.

L’ARERA, nella sua Memoria per l’audizione sul Pacchetto Economia Circolare, riporta la necessità di raggiungere tali obiettivi attraverso la valorizzazione di logiche industriali, in un’ottica di efficienza e di un’adeguatezza tecnologica, e suggerisce maggiore attenzione ai percorsi di liberalizzazione delle attività di riciclo, quale leva per contribuire alla promozione dell’efficienza e della sostenibilità.

È poi auspicabile un sostegno alle filiere del recupero, con l’approvazione in tempi rapidi di decreti EoW coerenti con le potenzialità presenti, a partire da quelle dei materiali da costruzione e demolizione. Si tratta di un passaggio indispensabile per il raggiungimento dei target Ue, che va di pari passo con il sostegno al mercato delle materie prime seconde.


fonte: https://laboratorioref.it


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