Vanni Covolo: «Pulire i fiumi dalla plastica: si può fare»

La plastica sta uccidendo i nostri mari, ma per salvarli bisogna pulire i fiumi, perché è da lì che arriva il 90% dei rifiuti. Così un’azienda italiana ha brevettato un metodo efficace. E ora ha bisogno di qualcuno che ci creda











I numeri, da soli, a volte non dicono niente. Allora Vanni Covolo, per darmi un’idea più precisamente allarmante della situazione, li rende immagini. Cominciamo da un dato: i mari sono pieni di plastica, nel Pacifico ci sono isole di plastica «grandi come Spagna e Portogallo messi insieme». Il Mediterraneo non è messo meglio, «come se qualcuno ci buttasse 33 mila bottiglie al minuto. Per un anno intero».

La plastica si deteriora in micro particelle che arrivano nel nostro corpo attraverso i pesci (loro le mangiano, noi mangiamo loro) e il ciclo dell’acqua (evaporano, piovono sulla terra, inquinano le fonti). «È come se ingerissimo una carta di credito la settimana». In 49 organi umani sono state individuate particelle di microplastica; è notizia di pochi giorni fa che un’ecografia ne ha rivelato la presenza anche nella placenta di una donna incinta. E poi, c’è un numero che per quest’uomo che mi sta spiegando la situazione è la chiave di tutto e gli ha cambiato la vita: «Il 90 per cento di tutta questa plastica che si trova in mare arriva dai fiumi».

L’idea di «andarla a intercettare» arriva nel 2019 quando la società di Vanni acquista prima metà, poi tutto il brevetto di una speciale boa in grado di fermare i rifiuti plastici galleggianti nei corsi d’acqua. «Era l’anno dei miei 50 anni e anche quello in cui, purtroppo, avevo perso alcuni amici cari. Fare un punto è stato inevitabile: gli affari andavano bene, non avevo bisogno di niente. Ma che cosa volevo rimanesse dopo di me?». E così Vanni Covolo, che in mezzo alla plastica ci aveva fino a quel momento vissuto e lavorato – «La mia azienda, la Mold, si è sempre occupata di stampi per il settore dell’automotive: paraurti per la Lamborghini, pezzi per la Porsche –, ha deciso di abbandonare fatturati e reddito certi, e di destinare denaro ed energie in un progetto che ha, con chiarezza didascalica, battezzato River Cleaning.
«In due parole, River Cleaning è una barriera galleggiante intelligente formata da diverse boe che consente di fermare i rifiuti plastici che navigano in superficie e spingerli verso un punto di raccolta a lato del corso d’acqua. Ciò che la rende unica è che questa barriera è perfettamente penetrabile, ovvero consente alle barche di ogni dimensione – dalla piroga alla chiatta, alla grande nave – di attraversarla. I fiumi sono importanti vie di trasporto e commercio, qualsiasi sistema che non tenesse in considerazione queste necessità sarebbe inutile».

La barriera è composta da una serie di boe galleggianti del diametro di un metro e mezzo (in plastica totalmente riciclata e riciclabile, perfette tra l’altro per essere brandizzabili da uno sponsor) ancorate a un cavo sommerso posto nel letto – o a mezza profondità per i corsi profondissimi – del fiume. Oltre a consentire il passaggio delle imbarcazioni, le boe non influiscono sull’ecosistema. Accanto alla vasca di raccolta dei rifiuti intercettati c’è un dissuasore (alimentato a energia solare) che, con dolcezza, allontana i pesci che potrebbero finire nella vasca stessa. «L’ideale sarebbe posizionare queste barriere prima della foce dei fiumi, per impedire che la plastica arrivi in mare, dove recuperarla diventa quasi impossibile oltre che costosissimo», spiega l’imprenditore. I pescatori ogni giorno si ritrovano nelle reti moltissima plastica; fino a poco tempo fa chi la portava a riva aveva anche l’onere economico di smaltirla. Ora la legge è cambiata e, per fortuna, non sono più i pescatori a dover pagare. Per i fiumi invece il vuoto legislativo fa sì che valga la regola secondo cui «ciò che trovi nel fiume è tuo. Sia che si tratti di pepite d’oro, sia che si tratti di plastica. Così chi installa la diga ha poi l’onere economico di pagare lo smaltimento della plastica che la diga intercetta», dice Vanni. «Speriamo si possa sistemare anche questo buco legislativo, perché chiaramente è un deterrente alla raccolta».

L’azienda è stata contattata per partecipare a bandi internazionali (per il Gange, per esempio) ma, senza un socio economicamente forte, non è in grado di produrre un numero di boe sufficiente per poter competere per le grandi opere. «Abbiamo realizzato 7 device con le stampanti 3D e le abbiamo testate. Ne produrremo altre 7. Ma abbiamo davvero bisogno di qualcuno che creda nel progetto e partecipi. Siamo disposti anche a cedere i brevetti – che nel frattempo sono diventati 3, uno è per una boa che intercetta, oltre alla plastica, anche gli oli in superficie – per permettere a questa idea semplice ed efficace di non arenarsi».

Il sogno di Vanni è di vedere le sue boe sotto il ponte di Brooklyn, illuminate (sì, si possono anche illuminare) nella notte. Ma soprattutto invertire la più triste delle previsioni secondo la quale nel 2050 in mare ci sarà più plastica che pesci. «Non è troppo tardi: proviamoci».

fonte: www.vanityfair.it


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