Il 23 settembre 2021 il Food Systems Summit delle Nazioni Unite intende realizzare progressi su tutti i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, attraverso un
“Serve un nuovo trattato ONU per fermare l’inquinamento da plastica”
“Senza nuove misure, il volume di plastica sul
La COP26 sul clima “può fallire”, adesso se ne accorge anche l’ONU
Guterres: “C’è ancora un livello di sfiducia, tra nord e sud, paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, che deve essere superato”. E ribadisce l’importanza di
Deep sea mining: perché dobbiamo fare attenzione alle miniere a mare aperto

Per qualcuno, il futuro della transizione ecologica si gioca negli abissi oceanici. E il futuro si chiama deep sea mining, cioè lo sfruttamento delle ricchezze minerarie depositate in fondo ai mari. È in particolari formazioni rocciose sui fondali che si trovano alcuni dei giacimenti più ricchi al mondo di molti metalli critici. Proprio quelli di cui avremo sempre più bisogno in futuro. Come il cobalto che è essenziale per le batterie al litio o il nichel che serve per molte delle tecnologie legate alle rinnovabili ma è presente anche in quasi tutti gli smartphone. O il rame, pilastro di tutte le nostre infrastrutture elettriche.
Facciamo sul serio sul deep sea mining?
Le fantasie attorno al deep sea mining circolano da parecchi anni, ma per quanto i giacimenti fossero appetibili le compagnie minerarie non sono mai andate oltre l’esplorazione e la mappatura dei fondali. Da alcuni anni le cose sono cambiate.
La transizione ecologica ha indotto aziende e Stati a rivolgere di nuovo l’attenzione alle croste oceaniche, e questa volta con più attenzione di prima. La scarsità relativa dei metalli critici e il loro recente aumento dei prezzi hanno fatto il resto. Un rapporto di Wood Mackenzie di fine luglio spiegava che sta per partire un super-ciclo delle materie prime, per la prima volta slegato dal petrolio perché influenzato da rinnovabili e auto elettriche. I protagonisti sono appunto rame, nickel, cobalto, ma anche litio e terre rare.
Intanto anche le Nazioni Unite hanno iniziato a muoversi. Pungolate da molti paesi, soprattutto alcuni dei paesi più microscopici come gli arcipelaghi del Pacifico Nauru, Kiribati e Tonga. L’ONU, attraverso la sua agenzia per la regolamentazione dei fondali marini, l’ISA (International Seabed Authority), ha fatto delle regole per il deep sea mining una priorità e lo scorso giugno ha promesso un accordo globale entro due anni. Anche la Norvegia ha deciso di essere della partita e vuole emettere i primi permessi entro il 2024.
Pochi studi, nessuna certezza
Una accelerazione che sta generando non poche preoccupazioni. Perché si tratta di scrivere delle regole a proposito di una vera e propria terra incognita. Se conosciamo piuttosto bene l’impatto su ambiente, ecosistemi, biodiversità, inquinamento, salute umana delle attività minerarie sulla terra ferma, non sappiamo nulla di quelle sottomarine. E abbiamo anche pochi strumenti per farci un’idea e valutare secondo criteri scientifici. Il deep sea mining, infatti, andrebbe a raccogliere con speciali robottini i metalli critici a profondità anche di 4-5000 metri. Gli studi scientifici su quella fascia profonda degli oceani sono pochissimi e come è facile immaginare raccogliere nuovi dati non è propriamente un’operazione semplice.
Da più parti, alla notizia dei lavori in corso all’ISA, si è invocato il principio di precauzione (do not harm principle). Fa parte integrante del corpus del diritto internazionale espresso dalle Nazioni Unite, oltre che da altre realtà come l’Unione Europea, e consiste nel bloccare una certa attività fino a che non si è certi che i benefici non superino gli svantaggi, valutando il tutto con un metro che non è solo economico.
L’ISA in realtà qualche studio dice di averlo e su questa base ha già erogato una trentina di permessi di esplorazione. Il problema è che gli studi si basano solo sui dati forniti dalle compagnie interessate allo sfruttamento di giacimenti e depositi sottomarini. E l’ISA non ha mai accettato di renderli pubblici e permettere una verifica indipendente.
I possibili danni del deep sea mining
Secondo Natalie Lowrey, portavoce della campagna internazionale contro il deep sea mining, in realtà sappiamo ancora molto poco del fondale oceanico, tanto che alcuni scienziati pensano che abbiamo più informazioni sulla superficie lunare. Secondo altre ong, tuttavia, il principio di precauzione sarebbe una misura eccessiva perché basterebbe adottare un livello alto di protezione per il 30% degli oceani – richiesta avanzata anche durante la Giornata Mondiale degli Oceani – per creare zone cuscinetto sufficienti a prevenire danni.
Ma quali sono i danni possibili? Diversi studi ipotizzano che il deep sea mining causerebbe sulla fauna marina un impatto da rumore. Altre ricerche teorizzano inquinamento luminoso, disturbi creati dalle vibrazioni.
Tra le ripercussioni più preoccupanti c’è quella del sollevamento di nubi di sedimenti dovuto all’operazione di grattamento dei fondali per raccogliere i noduli polimetallici in cui sono contenuti i minerali ricercati. Nubi che contribuirebbero al degrado di ecosistemi con bassissima resilienza. E che potrebbero trasportare in superficie anche alcuni dei metalli pesanti, trascinati dalle correnti grazie a fenomeni noti come upwelling.
Tutti ciò avrebbe un impatto quindi non solo sui fondali, ma potenzialmente sull’intera colonna d’acqua. Inclusi gli organismi che svolgono la funzione di filtro degli oceani, come spugne e coralli ma anche grandi mammiferi come le balene.
fonte: www.rinnovabili.it
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Basta aria fritta, è il momento di fare sul serio

Il sesto rapporto della Commissione intergovernativa sui cambiamenti climatici dell’Onu (Ipcc) è stato lanciato mentre le ondate di calore e gli incendi devastano il pianeta dall’Amazzonia alla Siberia, dalla Grecia alla California.
Si tratta del primo dei tre volumi del sesto rapporto di valutazione, una sorta di summa delle scienze del clima pubblicata a otto anni dal rapporto precedente e a trentuno dal primo. La temperatura globale media registrata nel periodo 2010-19 risulta 1,07°C superiore a quella del periodo preindustriale mentre le concentrazioni di CO2 del 2020 sono quelle massime raggiunte negli ultimi 2 milioni di anni.
Rispetto al quinto rapporto, le evidenze della correlazione tra crisi climatica innescata dalle emissioni di gas serra e i fenomeni climatici estremi sono più forti così come il possibile crollo della corrente del Golfo giudicata solo otto anni fa «poco probabile» ora invece viene valutata con una probabilità media.
Si confermano i risultati presentati nel 2018 quando l’Ipcc aveva analizzato i diversi impatti tra uno scenario con l’aumento globale della temperatura media a 1,5°C e uno a 2°C e dunque dando un senso preciso alla formulazione degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, di limitare «ben al di sotto dei 2°C e preferibilmente a 1,5°C» la temperatura media globale.
Per riuscirci, e dunque per evitare le conseguenze peggiori, è necessario un dimezzamento delle emissioni globali entro il 2030 e un loro azzeramento entro il 2050: ed è ancora possibile farlo, questa la buona notizia negli scenari presentati dal rapporto.
La difficoltà – e i conflitti – stanno proprio nei tempi stretti per agire. Che la transizione richieda grandi investimenti e non sia una passeggiata è certo. Ma è solo metà della storia. Non c’è infatti solo il «bagno di sangue» evocato a ogni piè sospinto dal ministro Cingolani: i nuovi settori rinnovabili sono infatti a maggior intensità di lavoro e dunque richiederanno più occupati e, semmai, in qualifiche che richiedono politiche di formazione e di riconversione dei lavoratori dei settori fossili.
Questi sono dominati da un oligopolio globale fatto di poche majors (come per petrolio e gas) e di alcuni (importanti) stati proprietari delle risorse. I nuovi settori vedono invece una pluralità di soggetti anche di dimensioni medie e piccole e una concorrenza globale nelle tecnologie che, per alcune di queste, vede avanti la Cina. La cui linea pro-carbone va bloccata offrendo di cooperare sulle tecnologie pulite: una ripresa della collaborazione europea e americana col colosso asiatico, colpito anch’esso da alluvioni distruttive in queste settimane, rimane una condizione necessaria per combattere sul serio la crisi climatica.
Se la gravità della situazione viene nuovamente certificata sul piano scientifico con nuova analisi e dati, su diverse testate il nuovo negazionismo continua a seminare dubbi sulla gravità della situazione e a suggerire che comunque il cambiamento richiesto è peggio della malattia.
Alcuni sono tra quei promotori del nucleare poi bloccato dal referendum nel 2011: i reattori francesi (e quelli nippo-americani) proposti avrebbero creato solo altrettanti «buchi neri finanziari» senza aver prodotto un solo kilowattora. Oggi corrono solerti nel gruppetto dei nuovi negazionisti in soccorso degli interessi dei «padroni del vapore» per bloccare o ritardare i cambiamenti necessari, mentre aziende come Eni cercano di intimidire la stampa con querele temerarie come è successo al Fatto Quotidiano e di recente al Domani.
Eni che insiste con obiettivi largamente inadeguati sulle rinnovabili e a promuovere «soluzioni» incerte e rischiose come stoccare la CO2 nel sottosuolo o vendere il Gpl presentato come «verde» solo perché Eni ha acquistato gli equivalenti crediti di CO2 forestali in Zambia. Operazioni cartacee di assorbimenti forestali di CO2 a copertura di emissioni certe (quelle emesse dal Gpl «verde») che potrebbero andare in fumo al prossimo incendio, come è avvenuto per i crediti di CO2 acquisiti da altre grandi multinazionali proprio con gli incendi di questi giorni. Sarebbe ora di smetterla con l’aria fritta e iniziare a fare sul serio per combattere la crisi climatica.
Giuseppe Onufrio
Direttore Greenpeace Italia
fonte: ilmanifesto.it
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"Il peggio deve ancora venire", l'allarme nel rapporto Onu sul Clima

"Il peggio deve ancora venire e a pagarne il prezzo saranno i nostri figli e nipoti, più che noi stessi". È l'allarme lanciato nell'introduzione del rapporto sul clima del Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (Ipcc) delle Nazioni Unite.
La ricetta per riportare il termometro in equilibrio consiste nel dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2030 e portarle a uno zero netto entro il 2050. Se non si inverte la rotta, evidenziano gli scienziati, nel 2030 potremmo arrivare a 3 gradi e nel 2.100 fino a 4.
Il frutto del lavoro di 234 scienziati
Alla pubblicazione hanno lavorato 234 scienziati di 195 Paesi riuniti dal 26 luglio a porte chiuse e virtualmente per negoziare riga per riga, parola per parola, le previsioni degli esperti Onu sul clima che aggiornano le ultime stilate sette anni fa.
Il tutto, mentre si susseguono disastri naturali in tutto il mondo, dalle inondazioni in Germania e Cina ai maxi incendi in Europa e Nord America.
"Credo sarà uno dei più importanti rapporti scientifici mai pubblicati", ha dichiarato sui social la climatologa Corinne Le Quéré, non presente tra gli autori del documento, che arriva a tre mesi dalla conferenza sul clima COP26 delle Nazioni Unite a Glasgow (Scozia), ritenuta cruciale per il futuro dell'umanità.
Una delle questioni centrali sarà la capacità del mondo di limitare il riscaldamento globale a +1,5°C rispetto all'era preindustriale, obiettivo ideale dell'Accordo di Parigi.
Presidente COP26, agire ora o non avremo più tempo
"Non possiamo permetterci di aspettare due, cinque o 10 anni: questo è il momento, o si agisce ora o non avremo più tempo": parole dal sapore di ultimatum per il mondo, quelle del presidente designato della Conferenza mondiale dell'Onu (COP26) sul clima, Alok Sharma, pronunciate alla vigilia della pubblicazione di un rapporto delle Nazioni Unite che sarà per la comunità internazionale il più chiaro e deciso avvertimento sui pericoli e le conseguenze dell'accelerazione del cambiamento climatico.
Il capo del vertice in programma a novembre a Glasgow, in Scozia, ha avvertito che il rapporto dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) in uscita oggi, mostrerà che il mondo è sull'orlo di un potenziale disastro.
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Il prossimo “Accordo di Parigi” per la biodiversità
Il fatto che i lavori siano proseguiti è un segnale molto positivo e si spera che possa consentire ai paesi di cominciare a stanziare le risorse necessarie a livello economico. Del resto, questa pandemia è stata l’ultima, tragica dimostrazione di quanto fermare la distruzione degli ecosistemi e ripristinare gli ambienti naturali sia fondamentale se vogliamo impedire la trasmissione di malattie pericolose dagli animali agli esseri umani. È anche risaputo che il rewilding e il ripristino degli ecosistemi sono fra le armi più efficaci per contrastare i cambiamenti climatici.
Gli obiettivi delle Nazioni Unite in tema biodiversità
Sfruttare il potere della natura per mitigare l’aumento della temperatura media globale figura proprio tra gli obiettivi fissati dall’Onu: il ripristino delle torbiere, degli habitat marini, lacustri e fluviali, e l’adozione dei principi dell’agricoltura rigenerativa consentirebbero di ridurre notevolmente le quantità di gas serra in atmosfera. In base alla bozza, le varie nazioni dovranno inoltre compiere tutti gli sforzi possibili per arrivare a:
proteggere almeno il 30 per cento delle terre emerse e il 30 per cento degli oceani entro il 2030;
rallentare il tasso di estinzione del 90 per cento;
dimezzare l’introduzione in natura delle specie invasive;
promuovere l’integrità di tutti gli ecosistemi e valorizzare il ruolo degli indigeni nella loro salvaguardia;
eliminare l’inquinamento dovuto alla plastica;
ridurre di due terzi l’utilizzo dei pesticidi;
tagliare 500 miliardi di dollari (oltre 400 miliardi di euro) all’anno di sussidi ad attività dannose per l’ambiente.
Sono necessarie politiche urgenti a livello globale, nazionale e regionale per trasformare i modelli economici, sociali e finanziari affinché i trend che hanno esacerbato la perdita di biodiversità si arrestino entro il 2030 e permettano agli ecosistemi naturali di ristabilirsi nei vent’anni successivi, portando a miglioramenti netti nel 2050.
Elizabeth Maruma Mrema, segretaria esecutiva della Convenzione sulla diversità biologica
È giunta l’ora di cambiare i nostri modelli produttivi
Come accennato sopra, l’agricoltura giocherà un ruolo fondamentale nel raggiungimento di questi obiettivi. Le tecniche di coltivazione tradizionali, così come l’allevamento intensivo, non sono più sostenibili. Il modo in cui produciamo il cibo dovrà necessariamente subire un drastico cambiamento.
“Tra dieci anni ci saranno molti più esseri umani che avranno bisogno di essere nutriti. Quindi la vera sfida non è ridurre la produzione, ma incrementare il risultato senza danneggiare la natura”, chiarisce al quotidiano britannico Guardian Basile van Havre, co-presidente del gruppo di lavoro che ha redatto il documento.
Solo così potremo arrestare quella che gli scienziati hanno definito “sesta estinzione di massa” nella storia del Pianeta, che potrebbe portare alla scomparsa di un milione di specie animali e vegetali a causa delle attività umane. Per questo, il nuovo accordo si inserisce all’interno di un piano più ampio che punta a far sì che l’uomo possa vivere in armonia con la natura entro il 2050.
I trattati internazionali, però, non bastano: i singoli stati devono infatti recepire le direttive e trasformarle in leggi nazionali e regionali. Come spesso accade, le decisioni dall’alto non sono le sole che contano: il cambiamento deve scorrere inarrestabile verso il basso, fino a spingersi al singolo individuo.
fonte: www.lifegate.it
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Il cambiamento climatico ci sconvolgerà la vita: il nuovo rapporto IPCC
Il nuovo report IPCC sul cambiamento climatico
Sul documento di oltre 4.000 pagine sono riusciti a mettere gli occhi in anteprima i giornalisti dell’AFP. Il rapporto IPCC dovrebbe uscire soltanto nel febbraio del 2022, ma i principali risultati sono già consolidati. L’IPCC infatti costruisce una “summa” della scienza climatica: lo stato dell’arte più aggiornato, con una ponderazione delle previsioni più attendibili, da cui emergono gli scenari di riferimento. È in base a questo documento che le politiche climatiche si devono muovere.
Sui numeri stabiliti dal panel dell’Onu si misura l’ambizione climatica degli Stati. Una bussola per comprendere se stiamo andando nella direzione giusta, e se ci stiamo andando abbastanza veloci. Insomma, un reality check rispetto ai piani di transizione ecologica messi in campo.
Se si tiene a mente questo, il contenuto del rapporto IPCC ha dei toni ancora più drammatici di quanto non sembra a prima vista. E non sembra un caso che in un documento scientifico di questa portata sia usato un linguaggio anche molto crudo, diretto, per nulla ambiguo. Le sfide che abbiamo di fronte sono sistemiche e intrecciate con la nostra vita di tutti i giorni. Il cambiamento climatico è già qui, avverte l’IPCC. E ci stiamo tirando la zappa sui piedi da soli, trasformando i nostri alleati più preziosi in potenziali nemici. Come? Diminuendo la capacità di foreste, oceani e altri ecosistemi di assorbire CO2 e quindi tamponare l’impatto del cambiamento climatico.
Il cambiamento climatico è già qui
Nel resoconto del rapporto fatto dall’AFP, l’agenzia stampa francese evidenzia 4 grandi conclusioni. Primo punto: il cambiamento climatico è già qui. L’IPCC calcola che le temperature globali siano cresciute finora di 1,1°C sui livelli preindustriali. Si tratta, sottolinea, di un valore che innesca già un climate change con effetti molto importanti sulle nostre vite. In pratica il messaggio è che le soglie individuate dall’accordo di Parigi non sono più valide: non bastano a tenerci al riparo. In ogni caso, l’IPCC sottolinea che il riscaldamento globale prolungato anche oltre gli 1,5 gradi Celsius potrebbe produrre “conseguenze progressivamente gravi, lunghe secoli e, in alcuni casi, irreversibili”.
Anche a questa soglia di riscaldamento globale, molte specie sono condannate all’estinzione e diversi ecosistemi sono profondamente degradati. Le condizioni climatiche corrono più veloci, troppo veloci, rispetto alla capacità di animali, piante e ecosistemi di adattarsi al cambiamento climatico.
Il secondo messaggio del rapporto è proprio sull’adattamento: non stiamo facendo abbastanza. “Gli attuali livelli di adattamento saranno inadeguati per rispondere ai futuri rischi climatici”, avverte l’IPCC. Non siamo pronti ad affrontare nemmeno gli scenari che contengono il global warming a 2°C entro il 2050. Tutto ciò punta chiaramente in una direzione: l’aumento delle diseguaglianze. Decine di milioni di persone in più soffriranno la fame, 130 milioni finiranno in povertà estrema. Centinaia di milioni di persone dovranno affrontare inondazioni nelle città costiere, ondate di caldo intollerabili, scarsità d’acqua.
Sul punto di non ritorno
Il terzo messaggio dell’IPCC riguarda i cosiddetti tipping points, i punti di non ritorno climatici. Una questione molto discussa e ancora troppo poco compresa. Per il panel dell’Onu la scienza è sufficientemente concorde: sono un pericolo reale. Perché sono importanti? C’è il pericolo che un cambiamento climatico inneschi impatti multipli e a cascata, come in un effetto domino che destabilizza una catena di ecosistemi. Il rapporto cita lo scioglimento dei ghiacciai in Groenlandia e Antartide, il degrado dell’Amazzonia e lo scioglimento del permafrost siberiano.
Per alcune regioni, in un futuro più immediato di quanto ci si aspettava finora, gli eventi climatici estremi possono colpire in rapida sequenza, dando forma a una sorta di tempesta perfetta. Brasile orientale, Sud-est asiatico, Mediterraneo, Cina centrale e quasi tutte le zone costiere potrebbero trovarsi di fronte, contemporaneamente, a siccità, ondate di calore, cicloni, incendi, inondazioni. L’umanità non sta agendo nel verso giusto, visto che la probabilità di innescare i punti di non ritorno è esacerbata da fenomeni profondamente influenzati dall’uomo come “perdita di habitat e di resilienza, sfruttamento eccessivo, estrazione di acqua, inquinamento, specie non autoctone invasive e dispersione di parassiti e malattie”.
Dobbiamo cambiare la nostra vita
Serve un cambiamento radicale e realmente trasformativo. Questo il quarto messaggio del rapporto IPCC sul cambiamento climatico. Le priorità devono essere evitare che gli scenari peggiori si concretizzino e prepararsi per quegli impatti del climate change che ormai non possiamo più evitare.
Cosa dobbiamo fare? Il rapporto nomina alcuni punti. Conservazione e ripristino dei cosiddetti ecosistemi blue carbon (foreste di alghe e mangrovie). Mangiare meno carne e prodotti animali. Abitudini di consumo più orientate a diete a base vegetale sono in grado di tagliare le emissioni legate al cibo anche del 70% entro il 2050.
“Abbiamo bisogno di un cambiamento trasformativo che operi su processi e comportamenti a tutti i livelli: individuo, comunità, imprese, istituzioni e governi”, conclude il rapporto IPCC. “Dobbiamo ridefinire il nostro modo di vivere e di consumare“.
fonte: www.rinnovabili.it
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Food Waste Index-Report 2021, pianificare strategie antispreco
Produrre e sprecare cibo ha un impatto negativo da vari punti di vista: ambientale, sociale ed economico. Si stima che l’8-10% delle emissioni globali di gas serra siano dovute al cibo che non viene consumato, con un pesante impatto sui sistemi di gestione dei rifiuti e sul consumo di risorse: circa 1,4 milioni di ettari di terreno coltivabile vengono utilizzati per produrre alimenti che non verranno mai consumati. Lo spreco di cibo, quindi, incide sul cambiamento climatico, sulla biodiversità, sull’inquinamento e sulla vita delle persone, delle quali esaspera l’insicurezza alimentare.
Nessuno può chiamarsi fuori: lo spreco alimentare si può ridurre sia a livello di produzione, trasformazione e distribuzione, che a livello di ristorazione e familiare. Eliminarlo porterebbe un vantaggio per il Pianeta e, di conseguenza, per le persone. Nonostante l’evidenza della questione, la consapevolezza in materia è ancora molto scarsa: pochi conoscono la portata dello spreco e i suoi effetti sull’ambiente. Secondo il Food Waste Index Report 2021 lo spreco alimentare delle famiglie, dei negozi di vendita al dettaglio e del settore della ristorazione ammonta a 931 milioni di tonnellate ogni anno, con impatti non marginali sui cambiamenti climatici; la maggior parte di questi sprechi avviene tra le mura domestiche (61%). Un dato ci sembra particolarmente interessante: lo spreco domestico pro capite non accomuna i Paesi ricchi bensì le fasce di reddito, a prescindere dalla ricchezza del Paese.
Lo spreco alimentare è socialmente inaccettabile
L’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 12.3 dell’Agenda ONU 2030 punta a dimezzare lo spreco alimentare globale pro capite, ma come abbiamo visto siamo ancora lontani dal raggiungerlo. Si può invertire la tendenza? L’informazione è un buon punto di partenza. Pochi governi dispongono di dati affidabili che permettano di pianificare efficaci strategie antispreco e di monitorare gli auspicabili progressi. Il Food Waste Index Report 2021 dell’UNEP (United Nations Environment Programme) presenta la raccolta, l’analisi e la modellizzazione dei dati sullo spreco alimentare più completa fino ad oggi e indica una metodologia per misurarlo a livello domestico, di servizio di ristorazione e al dettaglio.
Nel 2019 circa 690 milioni di persone hanno sofferto la fame e tre miliardi non hanno potuto permettersi una dieta sana, dal 2020 a causa del COVID-19 questi numeri sono in crescita. Uno degli obiettivi del Food Waste Index Report 2021 è anche esortare i consumatori a non sprecare il cibo e spingere i governi a includere lo spreco alimentare nei piani di ripresa nazionale, un cambio di prospettiva per pianificare azioni climatiche sempre più ambiziose.
Il Food Waste Index Report 2021 è il contributo dell’UNEP al Food System Summit delle Nazioni Unite che si svolgerà a New York nel settembre prossimo. Il messaggio del rapporto è molto chiaro: si può fare di più e proprio i consumatori hanno un ruolo fondamentale nel raggiungimento degli obiettivi antispreco, a tutte le latitudini. Facciamo la spesa con attenzione e cuciniamo in modo creativo: tutti hanno diritto a un’alimentazione sana e sostenibile e lo spreco di cibo è socialmente inaccettabile.
fonte: www.rinnovabili.it
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“Siamo sull’orlo dell’abisso”: il rapporto State of Global Climate 2020 dell’ONU

L’ONU conferma che il 2020 è stato fa i 3 anni più caldi della storia e il segretario generale Antonio Guterres avverte: “siamo sull’orlo di un abisso climatico”. Il Palazzo di Vetro ha presentato la versione definitiva del rapporto State of Global Climate 2020 in cui fa il punto sullo stato di salute del clima del pianeta e mostra l’intreccio tra le diverse crisi in cui siamo invischiati: climatica, economica, sociale.
Il 2021 sia “l’anno dell’azione sul clima”
Come è solito fare, specie quando si tratta di clima, Guterres non si è tenuto a freno. Nella conferenza stampa di presentazione del rapporto State of Global Climate 2020 il diplomatico portoghese avverte che non c’è più tempo. “Questo è l’anno dell’azione”, ha ripetuto. “Il clima sta cambiando e gli impatti sono già troppo costosi per le persone e per il pianeta. I paesi devono presentare, molto prima della Cop26, piani ambiziosi per ridurre le emissioni globali del 45% entro il 2030″.
E’ tempo di eliminare i sussidi alle fossili, reindirizzandoli sulle energie rinnovabili per accelerare la transizione energetica, sottolinea il numero 1 del Palazzo di Vetro. Accelerazione che è assolutamente necessaria e che deve vedere gli Stati come protagonisti: “I paesi devono presentare nuovi ambiziosi contributi determinati a livello nazionale (NDC) progettati dall’accordo di Parigi. I loro piani climatici per i prossimi 10 anni devono essere molto più efficienti “.
A Guterres fanno eco le dichiarazioni di Petteri Taalas, segretario dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo), l’agenzia che ha firmato il rapporto State of Global Climate 2020. Taalas ha avvertito che la “tendenza negativa” del clima potrebbe continuare per i prossimi decenni indipendentemente dagli sforzi di mitigazione, e ha quindi chiesto più investimenti nelle misure di adattamento al cambiamento climatico. Anche per il Wmo non c’è tempo da sprecare e l’orizzonte comune dovrebbe essere quello di emissioni zero entro il 2050.
“Uno dei modi più efficaci per adattarsi è investire in servizi di allerta precoce e reti di osservazione meteorologica. Diversi paesi meno sviluppati hanno grandi lacune nei loro sistemi di osservazione e mancano di servizi meteorologici, climatici e idrici all’avanguardia”, ha concluso Taalas.
Emissioni, oceani e criosfera
La panoramica globale degli indicatori dello stato di salute del clima globale inizia con le emissioni. Il focus non è tanto sui valori assoluti, che avrebbe un significato solo relativo visto lo stravolgimento dei pattern consolidati causato dalla pandemia. Il rapporto ONU si sofferma invece sulla concentrazione di CO2 in atmosfera. Un indicatore meno soggetto alle oscillazioni temporanee nelle emissioni di gas serra, ma decisivo per comprendere l’intensità del cambiamento climatico in atto e la sua traiettoria futura. Lo State of Globale Climate 2020 dichiara ufficialmente superata la soglia dei 410 ppm (parti per milione) come media globale e stima che, se continua il trend degli ultimi anni, nel 2021 si supererà il livello di 414 ppm.
Passando agli oceani, le masse di acqua marina che assorbono circa un quarto delle emissioni antropiche di gas serra e fanno da cuscinetto contro il riscaldamento globale sono sotto forte stress. L’80% degli oceani ha patito almeno un’ondata di calore nel corso del 2020. E quasi la metà (45%) delle acque salate del pianeta ha dovuto fare i conti con ondate di calore definite intense. Continua a crescere anche il livello medio dei mari, con un’accelerazione negli ultimi anni dovuta allo scioglimento accelerato dei ghiacci artici e antartici.
La situazione della criosfera continua a segnare record di riscaldamento globale. I Poli hanno un tasso di aumento delle temperature doppio rispetto al resto del mondo, con un impatto potenzialmente dirompente sul clima globale nel caso si attivassero meccanismi di feedback positivo di grande entità, ad esempio rispetto alle emissioni di metano generate dallo scioglimento del permafrost artico.
L’Artico ha toccato nel 2020 il suo secondo valore minimo storico per l’estensione dei ghiacci al termine della stagione estiva, totalizzando appena 3,74 milioni di km2. Il mare di Laptev, una delle aree più preziose per comprendere l’andamento del clima nell’Artico, non ha mai iniziato a perdere ghiaccio così presto come nel 2020. Groenlandia e Antartide, quanto a scioglimento dei ghiacci, sono rimasti vicini alla media di lungo periodo.
Eventi climatici estremi
Anche sotto il profilo degli eventi climatici estremi, il rapporto State of Global Climate 2020 registra una serie di record poco invidiabili. Gli Stati Uniti escono dalla loro peggiore stagione degli incendi, l’Australia ha avuto picchi di caldo record che sfiorano i 49°C, e gli incendi nell’Artico hanno imperversato. Nella regione siberiana infatti le temperature medie sono state di ben 3°C superiori alla media e hanno toccato picchi anche di 38°C.
Africa e Asia hanno continuato a registrare il maggior numero di inondazioni e di eventi siccitosi. In particolare, la concentrazione delle precipitazioni in pochi momenti durante l’anno, con la caduta di livelli molto consistenti di acqua, ha interessato l’area del Sahel e del Corno d’Africa. Questo ha contribuito a scatenare una nuova invasione di locuste, che si sono poi diramate nella regione nelle settimane successive. La siccità ha invece interessato Brasile, Argentina e Paraguay in modo particolare, oltre che il Sudafrica dove però non ha raggiunto i livelli estremi toccati nel 2018.
Il 2020 è stato anche l’anno delle tempeste tropicali: un record , anche qui, con ben 30 cicloni generati nel quadrante atlantico che sono riusciti a toccare terra, squassando soprattutto il Centro America. L’Europa ha subito bombe d’acqua di grande entità, come la tempesta Alex a inizio ottobre.
L’impatto sulle popolazioni
A fare le spese dei cambiamenti climatici sono soprattutto i paesi e le popolazioni più vulnerabili, anche dal punto di vista socio-economico. Dopo decenni di declino, l’aumento dell’insicurezza alimentare dal 2014 è guidato da conflitti e rallentamento economico, ma anche dalla variabilità climatica e da eventi meteorologici estremi. “Tra il 2008 e il 2018, gli impatti dei disastri sono costati ai settori agricoli delle economie dei paesi in via di sviluppo oltre 108 miliardi di dollari in raccolti danneggiati o persi e produzione di bestiame”, si legge nel rapporto State of Global Climate 2020. “Il numero di persone classificate in condizioni di crisi, emergenza e carestia è aumentato a quasi 135 milioni di persone in 55 paesi nel 2019, secondo FAO e WFP”. Nel 2020 a questo trend si è sovrapposto il Covid-19, che ha ulteriormente messo pressione sui sistemi alimentari locali, regionali e globali.
La crisi climatica continua anche a essere causa di migrazioni. Nell’ultimo decennio, gli eventi legati al clima hanno innescato in media 23,1 milioni di sfollati di persone ogni anno, la maggior parte dei quali all’interno dei confini nazionali. Il 2020 conferma questi numeri. “Durante la prima metà del 2020 sono stati registrati circa 9,8 milioni di spostamenti, in gran parte dovuti a pericoli idrometeorologici e disastri, concentrati principalmente nell’Asia meridionale e sudorientale e nel Corno d’Africa”. Non ci sono ancora dati consolidati sulla seconda metà dell’anno, ma si prevede che la cifra finale batta su valore medio degli ultimi anni, a causa delle inondazioni nella regione del Sahel, della stagione degli uragani nell’Atlantico e degli impatti dei tifoni nel sud-est asiatico.
fonte: www.rinnovabili.it
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La più grande indagine mondiale sui cambiamenti climatici
I risultati dettagliati suddivisi per età, sesso e livello di istruzione saranno condivisi con i governi di tutto il mondo dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), che ha organizzato il sondaggio innovativo con l'Università di Oxford. In molti paesi partecipanti, è la prima volta che vengono condotti sondaggi su larga scala dell'opinione pubblica sul tema del cambiamento climatico. Il 2021 è un anno fondamentale per gli impegni di azione per il clima dei paesi, con un ciclo di negoziati chiave che si terrà al vertice delle Nazioni Unite sul clima a novembre a Glasgow, nel Regno Unito.
Nel sondaggio, agli intervistati è stato chiesto se il cambiamento climatico fosse un'emergenza globale e se sostenessero diciotto politiche climatiche chiave in sei aree di azione: economia, energia, trasporti, cibo e agricoltura, natura e protezione delle persone.
I risultati mostrano che le persone spesso vogliono politiche climatiche di ampio respiro oltre lo stato attuale dei lavori. Ad esempio, in otto dei dieci paesi oggetto dell'indagine con le più alte emissioni del settore energetico, la maggioranza richiede più energie rinnovabili. In quattro dei cinque paesi con le maggiori emissioni dovute al cambiamento dell'uso del suolo, la maggioranza è favorevole alla conservazione delle foreste. Nove paesi su dieci con le popolazioni più urbanizzate hanno sostenuto un maggiore utilizzo di auto e autobus elettrici puliti o biciclette.
L'amministratore dell'UNDP Achim Steiner ha dichiarato: "I risultati del sondaggio illustrano chiaramente che l'azione urgente per il clima ha un ampio sostegno tra le persone di tutto il mondo, di nazionalità, età, sesso e livello di istruzione. Ma più di questo, il sondaggio rivela come le persone vogliono che i loro responsabili politici affrontino la crisi. Dall'agricoltura rispettosa del clima. alla protezione della natura e all'investimento in una ripresa verde, l'indagine porta la voce delle persone in prima linea nel dibattito sul clima. Indica i modi in cui i paesi possono andare avanti con sostegno pubblico mentre lavoriamo insieme per affrontare questa enorme sfida ".
L'innovativo sondaggio è stato distribuito attraverso le reti di gioco mobile al fine di includere un pubblico difficile da raggiungere nei sondaggi tradizionali, come i giovani sotto i 18 anni. Esperti di sondaggi presso l'Università di Oxford hanno ponderato l'enorme campione per renderlo rappresentativo dell'età, dei profili di genere e di formazione scolastica dei paesi presi in esame, con margini di errore ridotti del +/- 2%.
Le politiche hanno avuto un sostegno ad ampio raggio, con le più condivise la conservazione delle foreste (54% di sostegno pubblico), più energia solare, eolica e rinnovabile (53%), l'adozione di tecniche agricole rispettose del clima (52%) e l'investimento maggiore nella green economy (50%).
Il Prof.Stephen Fisher, Dipartimento di Sociologia, Università di Oxford, ha dichiarato: "Climate Vote ha fornito un tesoro di dati sull'opinione pubblica che non abbiamo mai visto prima. Il riconoscimento dell'emergenza climatica è molto più diffuso di quanto si pensasse. Abbiamo anche scoperto che la maggior parte delle persone desidera chiaramente una risposta politica forte e di ampia portata ".
Il sondaggio mostra un collegamento diretto tra il livello di istruzione di una persona e il suo desiderio di azione per il clima. C'è stato un riconoscimento molto alto dell'emergenza climatica tra coloro che avevano frequentato l'università in tutti i paesi, dai paesi a basso reddito come il Bhutan (82%) e la Repubblica Democratica del Congo (82%), ai paesi ricchi come la Francia ( 87%) e Giappone (82%).
Quando si parla di età, i giovani (sotto i 18 anni) sono più propensi a dire che il cambiamento climatico è un'emergenza rispetto alle persone anziane. Tuttavia, altri gruppi di età non hanno dato risultati molto diversi, con il 65% di quelli di età compresa tra 18 e 35 anni, il 66% di età compresa tra 36 e 59 anni e il 58% di quelli con più di 60 anni, a dimostrazione di quanto sia diventata diffusa questa visione.
fonte: www.arpat.toscana.it
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Onu e UE: nasce l’Alleanza globale sull’economia circolare e l’efficienza delle risorse

Lunedì 22 febbraio, a margine della quinta Assemblea ambientale delle Nazioni Unite, l’Unione Europea, in collaborazione con il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) e in coordinamento con l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale (UNIDO), ha lanciato la Global Alliance on Circular Economy and Resource Efficiency ( GACERE).
L’Alleanza è uno dei risultati del Piano d’azione per l’economia circolare dell’UE adottato dalla Commissione europea nel marzo 2020 come parte del Green Deal europeo. Avviando l’Alleanza, il Commissario per l’ambiente, gli oceani e la pesca, Virginijus Sinkevičius, ha dichiarato: “La transizione verso un’economia efficiente sotto il profilo delle risorse, pulita e circolare è sempre più riconosciuta come una necessità per affrontare le crisi ecologiche che il mondo deve affrontare. L’economia circolare offre opportunità per stimolare l’innovazione e rendere la transizione più equa creando posti di lavoro verdi e riducendo l’impatto ambientale. Con il lancio odierno dell’Alleanza globale sull’economia circolare e l’efficienza delle risorse, l’UE dimostra il suo impegno a lavorare su tali questioni a livello globale “.
Riunendo governi e reti e organizzazioni pertinenti, GACERE mira a fornire uno slancio globale per la transizione verso l’economia circolare, l’efficienza delle risorse e il consumo e la produzione sostenibili. Finora l’UE e altri undici paesi hanno aderito all’Alleanza. La preparazione alla quinta Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente ha visto anche il lancio di un rapporto di sintesi “Fare pace con la natura”, che riunisce i risultati di una serie di valutazioni scientifiche globali che esaminano insieme le crisi del clima, della biodiversità e dell’inquinamento.
Secondo il rapporto, il mondo può trasformare il suo rapporto con la natura e affrontare insieme le crisi di clima, natura e inquinamento per garantire un futuro sostenibile e prevenire future pandemie. Il rapporto intende supportare la riflessione sui risultati e sui fallimenti delle politiche ambientali degli ultimi 50 anni.
Maggiori informazioni qui.
fonte: www.ecodallecitta.it
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Antropocene: per l’Onu è ora di cambiare il nostro concetto di progresso
Con un punto di partenza molto chiaro: quello dell’antropocene. Una parola che identifica l’età dell’uomo, cioè quel periodo in cui l’azione degli esseri umani ha ormai una portata tale da influire sulle principali dinamiche della Terra, a partire dal cambiamento climatico. Così l’Undp ha elaborato un nuovo indice sperimentale sul progresso umano, che tiene conto delle emissioni di anidride carbonica dei paesi e dell’impronta dei materiali.
Per 30 anni, lo Human Development Report si è concentrato non solo sull’economia, ma anche sulla misurazione della salute, dell’istruzione e del tenore di vita delle nazioni per computare lo sviluppo umano. Il nuovo rapporto include due nuovi elementi: il consumo di materiali e l’impronta di carbonio, scelti per riflettere il massiccio aumento dell’uso delle risorse negli ultimi anni e l’impatto sul clima.
Il rapporto lancia quindi uno sguardo sul presente, sull’impatto della pandemia e sulle opportunità che dobbiamo saper cogliere. Secondo il direttore del programma e prima firma dello studio, Pedro Conceição, le scelte che i governi prenderanno in questi mesi forgeranno il mondo per i decenni a venire. L’occasione della ripresa post-Covid, con i piani di supporto all’economia e alle società, è un punto di svolta importante. Da non sprecare.
“Stiamo mobilitando risorse fiscali senza precedenti per affrontare la pandemia, e possiamo scegliere di effettuare allocazioni in modi che si aggiungono alle disuguaglianze, o in modi che riducono la pressione sul pianeta”, spiega Conceição.
Senza ripresa verde, sostiene il rapporto, i problemi legati al cambiamento climatico e al riscaldamento globale freneranno il progresso umano nel prossimo futuro. E insieme a una ripresa disfunzionale andranno ad aggravare le disuguaglianze, scavando ancora più profondo il solco che separa il nord dal sud del mondo e le economie avanzate dai paesi con meno mezzi per mitigare e adattarsi al cambiamento climatico.
fonte: www.rinnovabili.it
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