Come dovrebbe essere il paese ideale in cui sperimentare un sistema energetico sostenibile?
Ovviamente dovrebbe essere ricco di fonti rinnovabili, ma anche avere
grandi deserti dove installare gli impianti senza problemi e, dunque,
non essere troppo densamente popolato, avere un buon livello culturale e
di reddito, ed essere dotato di una valida struttura scientifica e
industriale. Sembra l’identikit dell’Australia: un
paese di 22 milioni di abitanti che abitano un territorio,
prevalentemente desertico, inondato dal sole e spazzato dal vento,
grande quanto l’Europa Occidentale.
Peccato che l’Australia sia anche uno dei massimi esportatori al mondo di combustibili fossili
(carbone, soprattutto), e che solo recentemente, con il premier Julia
Gillard, il governo australiano abbia cominciato a prendere sul serio le
tematiche del cambiamento climatico, ponendo una tassa di 23 dollari a
tonnellata sulla CO2 emessa dai grandi emettitori australiani.
Ispirata forse dal vento nuovo portato dalla Gillard, arriva ora una ricerca dell’Energy Research Institute dell’Università di Melbourne, che svela come, se solo si volesse, l’Australia potrebbe fare a meno delle fonti fossili, in tutti i settori, trasporti compresi, in appena 10 anni (vedi allegati in fondo).
Ispirata forse dal vento nuovo portato dalla Gillard, arriva ora una ricerca dell’Energy Research Institute dell’Università di Melbourne, che svela come, se solo si volesse, l’Australia potrebbe fare a meno delle fonti fossili, in tutti i settori, trasporti compresi, in appena 10 anni (vedi allegati in fondo).
La
ragione che dovrebbe spingere a questa svolta radicale, secondo i
ricercatori, sta soprattutto nei rischi che il mondo, e l’Australia in
particolare, corrono a causa del cambiamento climatico, se non si
prenderanno, globalmente, misure drastiche per contenerlo. Da qualche
anno, infatti, l’Australia sta vivendo stagioni estreme,
fra siccità prolungate e inondazioni mai viste, e anche l’estate 2013
sta passando alla storia per gli incendi giganti e una ondata di calore
mai registrata prima, che ha portato il paese a vivere con temperature
medie superiori a 39° C per una settimana di fila, frantumando diversi
record assoluti di caldo negli ultimi 200 anni. Insomma, continuando in
questa direzione, le estati australiane dei prossimi decenni potrebbero
diventare invivibili in gran parte del paese.
Così
i ricercatori di Melbourne si sono messi a studiare il modo in cui
l’Australia potrebbe dimostrare al mondo che di carbone, gas e petrolio
si può fare a meno. La loro ipotesi è che nel 2020, l’Australia richieda
325 TWh di elettricità l'anno (l’Italia consuma ora
circa 330 TWh annui), un 40% in più di oggi, visto che per allora questo
vettore, nei loro piani, dovrà alimentare anche i trasporti, diventati
prevalentemente elettrici, e il riscaldamento, tramite pompe di calore.
A produrre questa elettricità, oggi generata per il 90% da carbone e gas, sarà soprattutto il solare termodinamico, che produrrà il 58% dell’elettricità,
grazie a 12 enormi centrali a specchi e torri solari da 3500 MW l’una,
che usano sali fusi a 500 °C di temperatura, distribuite al margine sud e
sudorientale del grande deserto centrale, subito a ridosso delle grandi
città. I ricercatori di Melbourne, hanno scelto questa tecnologia, già
in sperimentazione in Spagna, in quanto la più adatta al territorio
desertico australiano, e perché, grazie all’accumulo termico consentito
dai sali fusi, può produrre continuamente non solo di
notte, ma anche, a potenza ridotta, per diversi giorni nuvolosi di fila.
Si potrebbe pensare che 50 GW di centrali solari a specchi, occupino
un’enorme quantità di territorio. In realtà nel piano si fa notare che,
tutte assieme, coprirebbero 2.760 kmq, meno della superficie del più
grande ranch australiano.
La secondo fonte prevista dal piano è l’eolico,
con 23 grandi centrali eoliche ognuna da 2000-3000 MW, poste lungo le
coste orientali e meridionali, sempre molto vicine ai maggiori centri
urbani del paese. Il restante 2% della fornitura energetica proverrebbe
da centrali idroelettriche già esistenti - usate anche come sistemi di accumulo - e da nuove centrali a biomasse,
che avrebbero anche il compito di fare da riserva di potenza nei,
normalmente rari, momenti in cui sole e vento non siano disponibili in
quantità sufficienti.
Il piano prevede infine anche una quota di autoproduzione da fotovoltaico,
ma limitando il suo uso alla riduzione della domanda domestica, con
mezzo milione di piccoli impianti su tetti in grado di fornire circa il
15% dell’energia consumata dalle famiglie. Qui, facciamo notare, i
ricercatori hanno forse sottostimato le potenzialità della tecnologia
fotovoltaica, basandosi su dati del 2008, con 6$/kW di costo medio degli
impianti (oggi il costo è meno della metà …) e 15 GW come installato
globale nel mondo (oggi sono già 17 GW solo in Italia).
Si
potrebbe pensare che un piano così ambizioso, costi una fortuna. In
realtà, seguendo i calcoli e i piani dettagliati nelle 190 pagine del
rapporto, il costo complessivo sarebbe relativamente modesto: 370
miliardi di dollari australiani, cioè 290 miliardi di euro,
in 10 anni, che, secondo gli autori, potrebbero, ma è solo una delle
ipotesi, essere raccolti con un sovrapprezzo di 6,5 centesimi di Aus$ (5
eurocent/kWh) in bolletta, circa un +50% sul costo attuale.
Per la famiglia media australiana, si tratterebbe di una spesa extra di
420 Aus$ (330 euro) l’anno, o 8 Aus$ a settimana. In questa ipotesi, il
grosso del costo della conversione finirebbe sui grandi consumatori di
energia industriali e minerari, che, però, come compensazione,
riceverebbero una enorme mole di lavoro dalla creazione degli impianti
solari ed eolici.
Si prevedono nel piano 120.000 nuovi posti di lavoro
per la realizzazione delle infrastrutture e 40.000 per il loro
funzionamento. Per comparare il peso finanziario del progetto proposto
dell’Università di Melbourne, 290 miliardi di euro in 10 anni, sono
circa il doppio di quanto spenderà l’Italia per gli
incentivi alle rinnovabili; ma avendo l’Australia una popolazione che è
un terzo della nostra, il loro peso per loro sarebbe 6 volte più gravoso. In compenso, però, eliminerebbe una volta per tutte l’uso dei combustibili fossili dal paese.
Più che lo sforzo finanziario richiesto - 3% del Pil
annuo australiano - però, a far sorgere dei dubbi sulle possibilità
pratiche di realizzazione di una simile, velocissima conversione
energetica, è il fatto che l’Australia vive in gran parte di produzione e
esportazione di carbone, gas e, in futuro, forse anche di petrolio da
fracking (recentemente individuato nei deserti centrali). Se
l’Australia volesse veramente creare un sistema energetico sostenibile
per ridurre le emissioni di gas serra, poi non potrebbe certo consentire
che i combustibili fossili che non utilizza, vengano esportati e
bruciati altrove. La resistenza al cambiamento, quindi, verrebbe principalmente dai potentissimi settori minerari e industriali australiani, legati all’esportazione di carbone e altri combustibili fossili.
Ma forse, l’idea di questi ricercatori australiani, è soprattutto quella di dimostrare che, se vogliamo, il cambiamento radicale del sistema energetico è tecnologicamente e finanziariamente possibile.
In Australia questa “rivoluzione energetica” sarebbe particolarmente a
portata di mano, per le peculiari caratteristiche del paese, ma, con
diversi tempi di applicazione e con diversi mix di fonti e soluzioni
tecnologiche, probabilmente ogni paese del mondo potrebbe trovare la sua
strada verso la sostenibilità. Se quindi continueremo sulla strada dei
combustibili fossili, e finiremo per rendere questo pianeta invivibile e
dilaniato da guerre per accaparrarsi le ultime riserve di gas o
petrolio, non potremo giustificarci con la scusa del «non avevamo alternative»: il cambiamento è possibile, dice questa ricerca australiana, basta volerlo sul serio.
Lo studio integrale (pdf)fonte: qualenergia.it