Tutti gli occhi sono puntati sulla Cina, per la contemporanea evoluzione di tre eventi potenzialmente dirompenti: il crollo azionario, un rallentamento del Pil e il calo dell’uso del carbone e delle relative emissioni di CO2.
Notizie che, a parte il segnale incoraggiante per il futuro del clima,
destano forte preoccupazione per le possibili ripercussioni per
l’economica mondiale, considerato che la Cina ha contribuito per il 38%
alla crescita globale nel 2014.
In realtà, a un’analisi più attenta i fenomeni risultano collegati tra loro,
ma in modo inverso rispetto a quanto ci si aspetterebbe. Anzi le
emissioni in calo non fanno che registrare il positivo cambiamento in
atto della stessa struttura economica cinese.
Ma andiamo con ordine. Intanto, separiamo dall’analisi l’andamento delle Borse che
registra il necessario assestamento di un mercato iper-gonfiato che
aveva visto un aumento del 150% dei valori delle azioni nei 12 mesi
precedenti il giugno 2015. Per quanto riguarda invece l’economia reale, siamo certamente in presenza di un frenata della crescita che dura da diversi anni e
che dovrebbe portare ad un aumento del del Pil del 6,8% nel 2015
secondo le ultime valutazioni del FMI, ma che potrebbe anche assestarsi
su valori inferiori. Questo rallentamento è legato in buona parte alla riduzione delle attività dai comparti industriali e delle costruzioni
a favore dei settori dei servizi che ormai rappresentano la quota
maggioritaria del Pil (48,2%). Si tratta di una dinamica favorita dal
governo perchè garantisce maggiore occupazione (30% di occupati in più
per unità di valore aggiunto) e consente di ridurre fortemente gli
impatti ambientali.
La fabbrica del
mondo guarderà più al proprio interno, per soddisfare una domanda che
cresce con l’urbanizzazione, e questo dato dovrebbe smorzare le
preoccupazioni del resto del mondo sugli impatti globali del
rallentamento in atto. Anzi, potrebbe crearsi una nuova domanda dalla Cina.
Si tratta della transizione verso la “nuova normalità”, secondo l’analisi fatta da Nicolas Stern
in un recente rapporto della London School of Economics, che dovrebbe
portare ad una crescita più equilibrata, con più innovazione, meno
diseguaglianze sociali e una maggiore sostenibilità ambientale. Vedremo
se e quanto le linee ispiratrici del 13° Piano quinquennale, che sarà
reso pubblico in ottobre, sanciranno questo cambiamento. Naturalmente il
ribilanciamento in atto non è un processo indolore. Comporta forti
resistenze interne e, se il processo non verrà gestito con attenzione,
potrà impattare negativamente sulle dinamiche economiche.
E veniamo alle conseguenze ambientali e climatiche di questa trasformazione, elemento importantissimo considerando che le emissioni di gas serra della Cina superano quelle di Usa e Europa messe insieme.
Abbiamo visto che l’uso del carbone si è ridotto nel 2014.
Un fatto sorprendente considerando che nel primo decennio del secolo
l’aumento annuo era del 9-10%. Che non sia stata un’anomalia, ma il
risultato di un cambiamento strutturale, è dimostrato dall’ulteriore
calo nella prima parte del 2015 che ha portato ad una riduzione
dell’impiego nelle centrali elettriche che in dodici mesi ha raggiunto
il 6%.
Questa
inversione (è probabile che nei prossimi anni il consumo di carbone si
stabilizzerà) è legata a forti motivazioni ambientali, oltre al già
citato spostamento strutturale verso i servizi. L’inquinamento
atmosferico comporta infatti 1,6 milioni di morti l’anno e danni ingentissimi all’economia.
Una situazione non più tollerabile che ha indotto il governo a chiudere
una serie di centrali a carbone, in particolare nei pressi dei centri
urbani e a spingere sulle rinnovabili con investimenti che lo scorso anno hanno raggiunto la cifra di 83 miliardi $, un terzo del totale mondiale.
Anche
il comparto industriale, sul quale si erano riversati enormi
investimenti che hanno portato ad una sovraccapacità, sta rallentando.
La Cina nel 2013 ha prodotto la metà dell’acciaio e il 60% del cemento
mondiale. Entrambi questi settori, che sono responsabili del 60% delle
emissioni climalteranti industriali cinesi, nel 2015 hanno visto un calo
della produzione.
Le implicazioni di
questi cambiamenti strutturali sulla diplomazia del clima sono enormi.
Come è noto, la Cina si è impegnata a raggiungere un picco delle
emissioni entro il 2030, ma è possibile che la CO2 inizi a
calare ben prima. Secondo il rapporto della London School of Economics,
le emissioni climalteranti potrebbero raggiungere il loro massimo tra il 2020 e il 2025
su valori pari a 12,5-14 miliardi di tonnellate, un valore di poco
superiore agli attuali livelli di 12,5 miliardi di tonnellate CO2eq. Se
questa valutazione fosse corretta, saremmo ancora in tempo ad evitare
che l’incremento della temperature del pianeta oltrepassi la soglia
critica dei 2 °C.
fonte: www.qualenergia.it