Riserve
insignificanti nei nostri mari e crisi endemica del settore. Ecco
perché il referendum sulle trivelle non minaccia l’occupazione
L’Italia infatti ha una produzione risibile e in calo. Le 135 piattaforme nei mari italiani hanno prodotto, nel 2015 (dati del Ministero dello Sviluppo economico), circa 4,5 milioni di tonnellate di gas e 750 mila di greggio. Nel 2014
erano, rispettivamente, 4,8 milioni e 754 mila. Le riserve certe di
idrocarburi offshore, del resto, non lasciano molto margine agli
ottimisti: con 29,4 milioni di tonnellate di gas e 7,6 di petrolio, i numeri parlano da soli.
Le zone più ricche si trovano
nell’Adriatico settentrionale per quel che riguarda il gas, e al largo
della Basilicata per quanto concerne il petrolio. Gli altri giacimenti
non sono abbastanza grandi da contribuire in maniera significativa alla
riduzione della dipendenza energetica del nostro Paese. Senza contare
che il crollo del prezzo del barile rende l’estrazione in mare sempre più antieconomica.
Inoltre, una piattaforma petrolifera non impiega un esercito di operai.
Il maxi-progetto Ombrina mare, se fosse stato portato a termine,
avrebbe creato appena 24 posti di lavoro. Senza contare che il 90-93% degli idrocarburi estratti può essere portato via e venduto altrove dalle compagnie, oppure rivenduto allo Stato italiano che ha regalato la concessione alle aziende.
Per il Coordinamento nazionale No Triv,
dunque, «è illusorio ritenere che il prolungamento delle attività
estrattive fino ad esaurimento del giacimento, per 36 concessioni
produttive entro il limite delle 12 miglia marine (di cui 5 riguardano
il petrolio), possa essere decisivo per i destini delle aziende
dell’indotto e garantire continuità alla produzione nazionale di gas».
La realtà, infatti, è che la crisi del
petrolio travalica i confini della consultazione italiana, investendo le
imprese di tutto il mondo. Secondo l’ultimo rapporto della società di
consulenza Deloitte, il 35% delle compagnie sarebbe ad alto rischio di fallimento nel 2016.
Nonostante il governi seguitino a foraggiare l’industria fossile con
oltre 5 mila miliardi di dollari l’anno, nonostante l’Italia abbia
destinato a carbone, gas e petrolio una quota di finanziamenti pubblici 42 volte superiore a quelli accantonati per l’azione climatica,
le prospettive per il mercato del lavoro nel settore non sono
incoraggianti. In questo quadro, difficile dare la colpa del salasso
occupazionale al referendum No Triv.
Piuttosto, i trend globali stanno
lentamente virando verso le energie rinnovabili, in un processo di
transizione lento ma costante. Uno studio di gennaio prodotto dalla
Solar Foundation, sostiene che nel 2015, per la prima volta, gli
occupati del settore fotovoltaico statunitense hanno superato quelli impiegati nell’oil&gas.
La metamorfosi dello scenario energetico
è già in atto. Resta da vedere se le istituzioni italiane riusciranno a
liberarsi dalle pastoie delle lobby. In quest’ottica, il referendum No
Triv può rappresentare lo stimolo che manca ad un governo privo, ancora
oggi, di una strategia energetica per la nazione.
fonte: www.rinnovabili.it