Una primavera, quella di trent’anni fa, segnata da un
gran numero di guai che, se non altro, servirono, se così si può dire, a
migliorare le leggi e i controlli sulla salute e sull’ambiente. L’anno
era cominciato con la pubblicazione dell’elenco delle industrie “a
rischio” di incidenti; una direttiva della Comunità Europea aveva
stabilito che tutti i paesi membri avrebbero dovuto fare un inventario
delle industrie in cui avrebbero potuto verificarsi incidenti rilevanti,
come quelli di Meda/Seveso in Lombardia, di Manfredonia in Puglia, di
Bhopal in India.
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Erano definite “a
rischio” le fabbriche che al loro interno contenevano sostanze tossiche o
esplosive in quantità superiori a certi limiti; un
primo elenco delle industrie a rischio italiane fu redatto all’inizio di
quel 1986 e, benché il governo lo avesse tenuto segreto, divenne presto
pubblico e mostrò che l’Italia era piena di fabbriche pericolose di cui
le popolazioni non sapevano niente. Cominciò allora una battaglia
perché le autorità sanitarie e ambientali (era stato da poco istituito
il primo ministero dell’ambiente) provvedessero a imporre procedure e controlli per una maggiore sicurezza e informazione dei lavoratori e degli abitanti del territorio circostante.
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Nel marzo dello stesso anno fu scoperta una frode del vino che costò la vita a molte persone.
Nel vino, come tutti sanno, è presente, in concentrazione fra 8 e 15
percento, alcol etilico che si forma dagli zuccheri dell’uva durante la
fermentazione, quel delicato processo che assicura la qualità del vino
il cui prezzo dipende, fra l’altro, proprio dalla quantità di alcol
presente. Una delle frodi consisteva nel
sottoporre a fermentazione uve scadenti aumentando artificialmente la
gradazione alcolica o per aggiunta di zucchero al mosto o per aggiunta
di alcol etilico.
Nel passato era stata anche praticata la frode di aggiungere al vino alcol
metilico sintetico, una sostanza simile all’alcol etilico, ma tossica, e
il cui prezzo era inferiore a quello dell’alcol etilico;
per evitare questa frode, sull’alcol metilico era applicata una imposta
che ne faceva aumentare il prezzo. Per qualche motivo tale imposta era
stata annullata nel 1984 e un produttore di vino pensò di approfittarne
facendo aumentare fraudolentemente la gradazione alcolico del suo vino
con l’aggiunta del velenoso alcol metilico. Alcuni consumatori morirono,
altri divennero ciechi. La frode
ebbe grande effetto sull’opinione pubblica che si rese conto delle
sofisticazioni a cui era esposta e pretese nuove più severe leggi e più
diffusi controlli merceologici.
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Proprio negli stessi giorni fu scoperto un diffuso inquinamento delle acque sotterranee che finiva per interessare anche l’acqua potabile distribuita dagli acquedotti. In
varie città dell’Italia settentrionale i laboratori di analisi
rilevarono che l’acqua che arrivava nelle case era contaminata da
rifiuti industriali tossici provenienti da fusti presenti nel
sottosuolo; i fusti col tempo si erano corrosi e il contenuto si era
disperso nel terreno fino a raggiungere le falde idriche sotterranee. L’opinione
pubblica cominciò a chiedersi quante altre discariche abusive
esistessero in Italia, quali pericoli ci fossero bevendo l’acqua che
usciva dal rubinetto e ci si accorse che effettivamente
era pratica abbastanza diffusa disfarsi dei rifiuti tossici e pericolosi
seppellendoli nel terreno; era appena l’inizio della scoperta delle
discariche abusive di rifiuti tossici di cui ancora adesso stiamo
verificando la diffusione e la pericolosità.
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Era
anche un periodo in cui il diserbo del mais era praticato su larga
scala con vari erbicidi fra cui l’atrazina e quello del riso con
bentazone, molto efficaci ma tossici; queste sostanze,
dopo essere state sparse nei campi, finivano nel sottosuolo e
raggiungevano e inquinavano i pozzi da cui veniva prelevata l’acqua
potabile. In quel marzo 1986 una direttiva della Comunità Europea sulla
qualità dell’acqua potabile aveva stabilito che la concentrazione degli
erbicidi nell’acqua non avrebbe dovuto superare 0,1 microgrammi per
litro; se la concentrazione fosse stata superiore, l’acqua non avrebbe
potuto essere distribuita dagli acquedotti. Finalmente
i laboratori addetti ai controlli ambientali in tutta Italia
cominciarono ad analizzare nelle acque anche sostanze che fino allora
erano state trascurate.
Ma il peggio stava per arrivare: mentre
era vivace la contestazione dei programmi governativi di costruzione di
centrali nucleari nel Mantovano, in Puglia, in Piemonte, nel Lazio,
il 26 aprile 1986 in un reattore nucleare di uno sconosciuto paese
dell’Ucraina (allora parte dell’Unione Sovietica), chiamato Chernobyl,
si verificò un incidente che provocò un incendio e poi un’esplosione. Il
reattore si scoperchiò e ne uscì una nube che disperse nell’atmosfera
una grande quantità di elementi radioattivi, con una radioattività
equivalente a quella di mezzo milione di chilogrammi di radio, che
ricaddero nelle zone vicine e in parte, trascinati dal vento,
raggiunsero la Germania e l’Italia settentrionale. Le autorità
persero la testa: occorreva o no vietare l’uso di verdure, latticini e
carne ottenuti in zone su cui erano ricadute le sostanze radioattive ?
Ancora più disorientata l’opinione pubblica: come faceva una massaia a
sapere che cosa poteva o non doveva comprare per non essere contaminata
dai misteriosi atomi provenienti da migliaia di chilometri di distanza ?
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Vale la pena ricordare gli
eventi di quei lontani anni perché fecero aumentare la consapevolezza
nei confronti dell’ambiente e della salute, due beni che possono essere
difesi soltanto migliorando le strutture pubbliche di controllo ma
soprattutto la conoscenza, da parte dei cittadini, di quello che succede
intorno a loro.
Giorgio Nebbia
fonte: http://comune-info.net