Greenpeace
pubblica i dati mai diffusi dal Ministero sugli inquinanti dispersi
dalle trivelle in mare. Per raccoglierli, l’ISPRA avrebbe preso soldi
dall’ENI
Per la prima volta, sono stati resi pubblici da Greenpeace i dati mai diffusi dal Ministero dell’Ambiente relativi all’inquinamento generato da oltre trenta trivelle che bucano il fondo dei nostri mari. L’associazione ambientalista ha lanciato oggi il suo nuovo rapporto,
intitolato “Trivelle fuorilegge”, in cui dichiara che i sedimenti nei
pressi delle piattaforme sono spesso avvelenati da sostanze inquinanti
oltre i limiti fissati dalle norme comunitarie per almeno una sostanza
pericolosa. Il Ministero ha fornito soltanto i dati di monitoraggio di
34 impianti, relativi agli anni 2012-2014, presso le coste di Emilia Romagna, Marche e Abruzzo. Nel Mediterraneo operano almeno altre 100 piattaforme, ma di queste non si sa nulla.
Analizzando i dati ottenuti, «ci sono contaminazioni preoccupanti da idrocarburi policiclici aromatici e metalli pesanti
– spiega Greenpeace in una nota – Molte di queste sostanze sono in
grado di risalire la catena alimentare fino a raggiungere gli esseri
umani. Nei pressi delle piattaforme monitorate si trovano abitualmente
sostanze associate a numerose patologie gravi, tra cui il cancro».
Da dove viene l’inquinamento delle trivelle
Durante
le fasi di coltivazione degli idrocarburi, descrive il rapporto,
«insieme al gas o al greggio vengono estratti grandi volumi di acqua
presente nel pozzo, comunemente indicati con il nome di “acqua di
formazione”». Si tratta di acque che per migliaia di anni sono state a
contatto con gli idrocarburi nei giacimenti, e sono dense di sostanze
inquinanti.
«Inoltre, per aumentare la pressione del
giacimento e favorire la risalita del combustibile in superficie,
durante la fase di estrazione viene utilizzata dell’acqua aggiuntiva,
comunemente indicata come “acqua di processo”».
Insieme alle acque di formazione, quelle di processo compongono le acque di produzione. Da essi vengono recuperati quasi tutti gli idrocarburi, più densi, che galleggiano nella soluzione acquosa. Quasi tutti. Il resto viene smaltito nuovamente in mare, contaminando – in barba ai piani di monitoraggio – l’ambiente circostante.
La connivenza delle istituzioni
Tuttavia, critica il rapporto, nonostante tra i pilastri delle piattaforme petrolifere si annidino veleni mortali, nessuna licenza sarebbe stata ritirata per queste ragioni
alle compagnie che operano nel Mediterraneo. Né il Ministero avrebbe
mai preso iniziative per proteggere il mare. La domanda è perché, se i
dati erano detenuti proprio dal governo?
Ma soprattutto perché i monitoraggi sono
stati compiuti dall’ISPRA su commissione di ENI? Questo, denuncia
l’associazione ambientalista, è inaccettabile: «In pratica, l’organo
istituzionale (ISPRA) chiamato a valutare i risultati del monitoraggio
sul mare che circonda le piattaforme offshore – e di conseguenza
verificare la non sussistenza di pericoli per l’ambiente e gli
ecosistemi marini – opera su committenza della società che possiede le
piattaforme oggetto d’indagine (ENI), cosicché il controllore è a libro paga del controllato».
Di fronte allo scandalo delle trivelle
fuorilegge, Greenpeace ha chiesto che il Ministero dell’Ambiente ritiri
le concessioni a chi continua a inquinare il mare con sostanze
cancerogene. Non solo, ma che il «doppio gioco dell’ISPRA» cessi immediatamente.
Presto toccherà anche ai cittadini italiani esprimersi tramite referendum sulle trivellazioni in mare.
Forse questo rapporto contribuirà ad aumentare la preoccupazione
pubblica su una consultazione che, complice il silenzio dei media
pubblici, non è stato adeguatamente messo in agenda.
fonte: www.rinnovabili.it