
Dal 18 marzo 1968 sappiamo che il Pil “misura tutto eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta”. Da quando, cioè, Robert Kennedy lo affermò nel celebre discorso alla Kansas University, pochi mesi prima di essere ammazzato. Ma la successiva, lunga restaurazione liberista aveva chiuso l’argomento.
Il Prodotto interno lordo, la sua crescita, è stato l’incontrastato totem della religione economica attorno a cui hanno danzato fino allo sfinimento moderni sciamani: economisti, opinionisti, politici. A rimettere in discussione il Pil c’è voluta la crisi. Da qualche tempo alcuni studiosi e premi Nobel (Joseph Stiglitz, Amartya Sen, La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il Pil non basta più per valutare benessere e progresso sociale, Etas 2010) consigliano gli istituti di statistica di trovare il modo di “disaccoppiare” la ricchezza misurata in termini monetari (sempre più difficile da perseguire) dal “benessere qualitativo” delle persone. Può ridursi ad essere un gioco di prestigio statistico, oppure l’inizio di un cambio di paradigma epocale. Di questa seconda opinione è Giulio Marcon, deputato indipendente di Sel, tra i fondatori del think tank Sbilanciamoci, attivo nel mondo dell’economia solidale che è riuscito a far inserire nella riforma della legge di Bilancio (la vecchia legge di Stabilità, in dirittura d’arrivo al Senato) l’obbligo del governo di usare la metodologia del Bes (l’indice di Benessere Equo e Sostenibile, elaborato da alcuni anni dall’Istat e dal Cnel, leggi anche La nuova stagione degli indicatori di benessere) come strumento di valutazione degli esiti attesi delle politiche di bilancio dello Stato. Concretamente significa che già a febbraio, allegata al Documento di economia e finanza, il governo dovrà presentare una relazione indicante quali progressi sono stati raggiunti in termini di benessere sociale e ambientale.
Un comitato di cinque esperti nominati
dall’Istat, dal ministero dell’economia, dalla Banca d’Italia e dalle
università selezionerà alcuni tra i centoventi indicatori che l’Istat
già monitora. Sicuramente ci saranno quelli sull’occupazione, sulla
condizione della donna (bilancio di genere), sull’accesso ai servizi
sociali individuali e collettivi, sulla scolarizzazione e la salute,
sulle emissioni di inquinanti, sulla sicurezza del territorio, sul
consumo di materie prime e molti altri. Poiché gli indicatori che le politiche di sviluppo economico scelgono di prendere in considerazione non sono mai neutri,
ma orientano le azioni, è evidente che la decisione di affiancare al
Pil altre misure non monetarie potrebbe far cambiare molte cose.
Paolo Cacciari
fonte: http://comune-info.net