Piena ed intera esecuzione è data
all’Accordo di Parigi, a decorrere dalla data della sua entrata in
vigore (4 novembre 2016). Con queste poche parole si introducono nel
nostro ordinamento gli obiettivi, gli strumenti e la mobilitazione
generalizzata sanciti dall’Accordo sul clima. Innanzitutto un obiettivo
di temperatura: “molto al di sotto dei due gradi”, ben più ambizioso di
quanto fino a non molto tempo fa era l’obiettivo europeo dei due gradi,
in continuità con quanto stabilito a Copenhagen nel 2009. Questo nuovo
obiettivo è vincolante e viene raggiunto tramite un processo permanente
di incrementi frequenti dei “Contributi determinati a livello
nazionale”. Nel 2015 l’Ue ha
presentato il proprio, a nome di tutti i Paesi membri, e lo ha per il
momento quantificato come taglio del 40% delle emissioni nel 2030, cui
ha corrisposto un contributo italiano del 33% rispetto al 2005 nei settori non europeizzati (grandi impianti).
La legge
ha fatto la scelta di delegare all’Unione europea quale sia il
contributo del nostro Paese. Questo rischia di renderlo meno condiviso
dagli stakeholders e la società civile e di riprodurre una dinamica
“alla Kyoto” dove l’obiettivo numerico è dato dall’esterno, invece che
derivare da un processo autonomo di consapevolezza dei danni climatici,
delle opportunità sociali e tecnologiche per la mitigazione e delle
sinergie che si possono mettere in campo con altri Paesi.
Ma se l’Europa tiene alta la barra e
punta davvero, come dichiara, ad essere leader mondiale delle tecnologie
pulite e del rispetto dall’ambiente, forse questa delega, se resa
trasparente rispetto al modo con cui l’Italia negozia in tale sede, può
essere accettabile.
Ormai piani nazionali, settoriali,
regionali, comunali (e di fatto anche aziendali) devono prevedere, in
applicazione della legge, almeno un -33% al 2030, sapendo che questo
taglio andrà sicuramente rivisto al rialzo, già a valle del “Dialogo
facilitativo” del 2018, che prenderà le mosse dai risultati contenuti in
un Rapporto speciale dell’IPCC, la fonte scientifica per eccellenza in
questo campo, dedicato all’obiettivo di 1,5 gradi (cioè di una
mitigazione molto più radicale, anche motivata dal tentativo di
allontare “tipping points” e fenomeni pericolosissimi – in Italia ad
esempio l’allungamento dei periodi senza pioggia nelle città in preda a
PM10 e ondate di calore).
La COP22 che sta per aprirsi a Marrakech
(Marocco) conterrà il nuovo “parlamento” di chi ha ratificato per tempo
l’Accordo (non l’Italia). Esso è totalmente sovrano su tutta una serie
di temi. Ad esempio sulle linee guida per il rilancio (fissando una
percentuale minima di incremento dell’ambizione o un obiettivo medio per
tutti). Ma più complessivamente, dopo che l’Accordo ha superato ogni
record di numero di firme il primo giorno d’apertura ed è entrato in
vigore pochi mesi dopo essere stato redatto, la COP22 sta per
accelerarne l’implementazione ad un ritmo che può spiazzare qualcuno ma è
il benvenuto dalla grande maggioranza.
*Valentino Piana è economista e consulente internazionale, direttore dell’Economics Web Institute (economicswebinstitute.org) e curatore della pagina accordodiparigi.it
fonte: www.altraeconomia.it