Se la produzione italiana dei rifiuti mantenesse le dinamiche attuali
-ovvero in calo costante- e la raccolta differenziata raggiungesse il
65% -come il nostro Paese si era impegnato a fare entro il 2012-, la
capacità di incenerimento già installata sarebbe già in eccesso. Eppure
il Governo ha individuato un “fabbisogno” ulteriore, gonfiato del 68% in
più rispetto alla realtà
Nel 2015, l'inceneritore di Brescia (A2a) ha bruciato 686mila tonnellate di rifiuti
L’Italia non ha bisogno di altri forni inceneritori per gestire i
rifiuti urbani. In prospettiva, potrebbe addirittura farne anche a meno.
Eppure, nonostante gli ultimi dati pubblicati a fine 2016 nel “Rapporto Rifiuti Urbani” dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA, www.isprambiente.gov.it),
un decreto dell’agosto scorso dell’allora presidente del Consiglio
Matteo Renzi individua una capacità potenziale di incenerimento che
rischia di rivelarsi decisamente sovrastimata.
Partiamo dal principio. Nel 2015, dati ISPRA alla mano, il nostro
Paese ha prodotto 29,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani. Ogni
cittadino ha portato in dote 486,7 chilogrammi. Rispetto al 2011,
l’andamento è lievemente positivo in termini di riduzione dei rifiuti
(-5,9%), e la raccolta differenziata ha raggiunto il risultato del 47,5%
(+2,3% rispetto al 2014). Il traguardo non è felice visto che il nostro
Paese si è impegnato oltre dieci anni fa a raggiungere il 65% entro il
2012.
Percentuali di raccolta differenziata dei rifiuti urbani per Regione, anni 2014 – 2015
In questo contesto, crolla lo smaltimento dei rifiuti non
differenziati in discarica -7,8 milioni di tonnellate, in discesa
del 16% rispetto a un anno prima- mentre cresce la quantità di materia
avviata ai 41 inceneritori attivi nel Paese. I rifiuti urbani destinati
ai forni hanno sfiorato infatti quota 5,6 milioni di tonnellate (nel
2011, quando gli impianti erano 50, furono circa 5,3 milioni), per il
70% dei casi bruciati al Nord.
Il fatto che la discarica “perda” materia deriva dal fatto che
l’inceneritore tende a sostituirla. Ma è qui che si apre il problema
delle “dimensioni” immaginate dal Governo per i prossimi anni.
Incenerimento in relazione alla produzione di rifiuti urbani (1.000 tonnellate), anni 2005 – 2015
Stando al “decreto Renzi” pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
nell’ottobre 2016, infatti, il nostro Paese detiene già una “capacità
nazionale di trattamento dei rifiuti urbani e assimilati” pari a 5,9
milioni di tonnellate annue. Cui si possono aggiungere virtualmente
quelle autorizzate ma “non in esercizio”, che pesano per altre 665.650
tonnellate. Arrotondando si ottiene quindi una capacità esistente di
circa 6,5 milioni di tonnellate. Per l’esecutivo, però, non è
abbastanza. Ed è per questo che ha stimato un “fabbisogno impiantistico
da realizzare” per altre 1,8 milioni di tonnellate (solo la Sicilia ne
ospiterebbe 690mila). Totale: quasi 8,4 milioni di tonnellate.
La bolla degli inceneritori inizia qui. Immaginando -contrariamente a
quanto sta già accadendo- che la produzione dei rifiuti resti costante
nei prossimi anni (29 milioni di tonnellate) e che la differenziata,
lentamente, raggiunga il sofferto traguardo del 65%, i rifiuti
indifferenziati da gestire si ridurrebbero a poco più di 10 milioni di
tonnellate. Se gli inceneritori continuassero ad erodere la quota
destinata alla discarica (oggi al 58% contro il 42% dei forni), vorrebbe
dire che la capacità necessaria non supererebbe quota 5 milioni di
tonnellate, ben distanti dalle 8,4 immaginate dal Governo. Un
sovradimensionamento non necessario del 68%.
Una scommessa che rischia di rallentare una gestione virtuosa dei
rifiuti. L’ISPRA, però, nega che l’incenerimento possa “disincentivare”
la raccolta differenziata. A sostegno della sua tesi cita “alcune
regioni quali Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Campania
e Sardegna”. Nonostante si bruci (e molto) “la raccolta differenziata
raggiunge valori elevati”. C’è un problema nell’analisi dell’ISPRA.
Questa è relativa infatti alle Regioni nella loro interezza e non invece
alla scala provinciale, dove cioè insistono i forni. Alcuni dati
territoriali aiutano a capire meglio.
A Brescia c’è uno tra i più grandi forni d’Italia: 981mila tonnellate annue autorizzate in capo alla multiutility
A2a. La provincia di Brescia è quella con il tasso di produzione
pro-capite di rifiuti più alto della Lombardia (517,1 chilogrammi) e
registra una percentuale di raccolta differenziata sotto la media
regionale (58,1% contro 58,7). Anche Trieste, unica provincia friulana
con un forno sul territorio (del Gruppo Hera), differenzia appena il
34,9% contro il 63% circa regionale. O Napoli, contesto in cui ricade
l’impianto di Acerra (600mila tonnellate annue, A2a), che è la provincia
campana in cui si producono più rifiuti pro-capite (470 chilogrammi
circa contro la media di 438) e la raccolta differenziata è ferma al
43,2% (Benevento è al 69,3%).
Ma i forni devono sopravvivere a tutti i costi. A Lecco, prima
provincia italiana a superare quota 50% di differenziata nel 2002 e oggi
al 60,5%, la società pubblica partecipata dai Comuni che gestisce il
forno inceneritore nel comune di Valmadrera, Silea Spa, si appresta a
realizzare una rete di teleriscaldamento allacciata all’impianto. Una
“prescrizione” contenuta nell’Autorizzazione integrata ambientale (AIA)
del settembre 2014 di Regione Lombardia a partire dalla quale potrebbero
essere investiti quasi 60 milioni di euro. Poco importa che nel 2015
(dati ISPRA) l’impianto abbia bruciato 97.100 tonnellate in una
provincia che produce assai meno indifferenziato (53mila tonnellate). E
che l’AIA abbia invece consentito alla società di raggiungere il massimo
carico termico (163.020 MJ/h), pari a 123.000 tonnellate.
Il “Coordinamento lecchese Rifiuti zero” ha proposto ai Comuni di
condurre un’indagine epidemiologica sugli effetti dell’impianto prima di
effettuare l’investimento e legarsi per altri lustri al forno attivo
dagli anni 80. La società ha sposato solo in parte la proposta,
commissionando all’Università di Torino un’analisi dai tempi più lunghi
che dovrebbe prevedere la stesura del report definitivo non prima del
dicembre 2018 (per un valore di 120mila euro). Intanto, però, i lavori
partiranno. Con un dettaglio in più. Ad occuparsi della “identificazione
del modello di ricaduta delle emissioni indispensabile per la
definizione delle aree di esposizione e non esposizione all’impianto”
-come si legge nel protocollo dell’indagine- sarà la società milanese
d’ingegneria “Tecnohabitat Spa”, incaricata direttamente da Silea senza
gara. La stessa società, però, figura tra le imprese responsabili del
progetto definitivo/esecutivo del teleriscaldamento. “Non c’è alcun
conflitto di interessi -ha spiegato ad Altreconomia Vittorio
Addis, presidente del cda di Tecnohabitat- il nostro ruolo nell’indagine
è meramente tecnico”. Sui tempi delle indagini, poi, aggiunge che “per
avere un risultato significativo occorrono tra i cinque e i dieci anni”.
Se l’indagine epidemiologica dovesse fotografare un impatto forte del
forno sul territorio circostante a quale destino andrebbe incontro
l’impianto? “Se ci fosse un impatto assolutamente negativo dell’indagine
epidemiologica si porrebbe un grande punto interrogativo su Silea
-spiega Addis- e si porrebbe su molti termovalorizzatori del territorio
lombardo e sull’80% degli impianti italiani. È un’ipotesi che metterebbe
in discussione tante cose. Ma basare una valutazione oggi su
un’indagine epidemiologica secondo me non ha molto senso”.
fonte: https://altreconomia.it/