La Commissione parlamentare d’inchiesta sui
rifiuti al lavoro su una pdl in grado di sostenere «il riacquisto di
beni realizzati con materiale riciclato»
È inutile scorrere le oltre 400 pagine del primo Catalogo dei sussidi ambientali
pubblicato dal ministero dell’Ambiente in cerca di incentivi nazionali
al riciclo: in Italia non esistono. Mentre le conferenze sull’economia
circolare si moltiplicano a ritmo incalzante, tra le pieghe degli
(almeno) 15,7 miliardi di euro che lo Stato spende ogni anno in sussidi
favorevoli all’ambiente – a loro volta affiancati da (almeno) 16,1
miliardi di euro in sussidi dannosi – nemmeno un euro è stanziato a
favore del riciclo. Nel lungo elenco figurano gli incentivi rivolti al
mondo dell’agricoltura, a quello dell’energia o a quello dei trasporti,
le aliquote Iva agevolate. Per una qualche paradossale logica in Italia
si incentiva la raccolta differenziata come anche la
termovalorizzazione, ma non quanto d’importante sta nel mezzo: il
riciclo.
Una prospettiva che dopo anni d’ignavia potrebbe presto registrare un
sussulto. Ieri il ministro dell’Ambiente è arrivato in Toscana, a
Pontedera: da una parte per celebrare l’inizio dei lavori necessari a
realizzare un importante impianto di trattamento dell’organico
(20 milioni di euro finanziati dall’azienda locale Geofor, 44.000 le
tonnellate/anno di rifiuti organici che potrà gestire), dall’altra per
visitare un’eccellenza di livello internazionale in fatto di economia
circolare, Revet.
Proprio in questi giorni – comunicano dall’azienda – il ministero
dell’Ambiente ha deciso di portare l’esperienza di Revet in Cina, per
rappresentare l’economia circolare made in Italy all’International expo
di Shanghai, dove Revet è presente con un proprio stand e con i propri
vertici aziendali all’interno del padiglione italiano. Ieri, a fare gli
onori di casa con il ministro ci hanno pensato il direttore dello
stabilimento Massimo Rossi insieme al presidente e all’amministratore
delegato di Alia Spa – l’azienda nata dalla fusione dei gestori dell’Ato Centro, che ora rappresenta il principale azionista di Revet – rispettivamente Paolo Regini e Livio Giannotti (nella foto).
Qui 170 dipendenti si occupano ogni anno di 160mila tonnellate di
rifiuti, ovvero le raccolte differenziate di plastica, vetro alluminio,
acciaio e tetrapak provenienti dall’80% della Toscana, che Revet
valorizza e avvia a riciclo. Il fiore all’occhiello dell’azienda è
l’attività di riciclo del plasmix, operata nell’impianto di Revet
Recycling, dove quegli imballaggi di plastica “difficili” (che non sono
né bottiglie né flaconi) vengono riciclati e trasformati in granuli con i
quali si stampano nuovi oggetti di plastica. Un riciclo a km zero che
rappresenta ormai un punto di riferimento in Italia e un modello di
buone pratiche nell’ambito del ciclo integrato dei rifiuti: già nel 2013
lo stabilimento di Pontedera era stato visitato dall’allora ministro
dell’Ambiente Andrea Orlando, mentre nel febbraio scorso ha ospitato la Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti
che adesso «sta lavorando – hanno anticipato ieri in Revet – a una
proposta di legge per incentivare il riciclo e soprattutto il riacquisto
di beni realizzati con materiale riciclato».
Un grande merito per la Commissione, anche se tutto dipenderà da
quali saranno gli strumenti messi in campo nella proposta di legge. Le
opportunità che meriterebbero di essere esplorate non mancano:
detrazioni fiscali per mezzo del credito di imposta sull’acquisto di
prodotti e arredi in materiale riciclato post consumo sono un esempio,
ma un grande passo in avanti sarebbe anche solo rendere effettiva la
legge vigente. Dal 2002 la Pubblica amministrazione avrebbe l’obbligo di compiere per almeno il 30% acquisti verdi (Gpp), obbligo rincarato nel 2015 con il Collegato ambientale approvato dall’attuale governo, ma i controlli e le conseguenti sanzioni non ci sono. E gli acquisti verdi rimangono al palo, con conseguenze fortemente limitanti soprattutto su quei rifiuti – come il plasmix, che da solo arriva a rappresentare oltre il 50% di tutti gli imballaggi in plastica raccolti in modo differenziato
– che comportano costi industriali maggiori rispetto alla lavorazione
della materia vergine per essere riciclati, oltre a un mercato di sbocco
ancora embrionale che frena le possibili economia di scala.
Come ormai dovrebbe insegnare la più che decennale esperienza con le
energie rinnovabili, perché anche la materia possa diventare rinnovabile
è indispensabile una politica industriale coerente e di largo respiro
(il che significa non esaminare soltanto la coda del problema, i
rifiuti, ma l’intera catena produttiva a partire dalla miniera dove
vengono estratte le materie prime), con risorse economiche dedicate. A
guadagnarci non sarebbe “solo” l’ambiente in cui tutti viviamo, ma la
competitività di tutto il sistema socio-economico italiano: quello di un
forte Paese manifatturiero, senza però materie prime.
fonte: www.greenreport.it