Smetterla con lo shopping compulsivo

Ci sono nuove dipendenze su cui vale la pena ragionare. Quale impatto ambientale ha lo shopping compulsivo di abiti, scarpe, borse e accessori? Che relazione esiste tra multinazionali, media, pubblicità, velocità di consumo? Come possiamo dare senso a relazioni e territori fuori dagli ipermercati del fashion? “Dobbiamo cambiare il modo in cui consumiamo, abiti compresi – scrive Alessandra Magliaro – Cambiare abitudini di consumo, stili di vita non più sostenibili e cercare la felicità in luoghi diversi dai centri commerciali…”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’acquisto compulsivo di abiti, stortura dell’occidente benestante, oltre ad essere una vera e propria dipendenza (più o meno lieve, comunque non la peggiore) ha altri due risvolti negativi: un impatto ambientale non indifferente e dopo l’emozione dell’acquisto non rende affatto felici. Sono le conclusioni di un report commissionato da Greenpeace in Cina, Hong Kong, Taiwan, Italia e Germania tra il dicembre 2016 e il marzo 2017 in occasione del Copenhagen Fashion Summit, il principale forum mondiale dell’industria per la moda sostenibile. Qui il dossier integrale.
“I nostri sondaggi mostrano che lo shopping binge è seguito da una sbornia emotiva, fatta di vuoto, di colpa e di vergogna. Le persone cominciano a rendersi conto di essere intrappolate in un ciclo insoddisfacente di moda, dell’ossessione di seguire i nuovi effimeri trends e che infine la sovrabbondanza di abiti che posseggono non porta a una felicità duratura. Le marche di abbigliamento dovrebbero cambiare radicalmente il proprio modello di business spostando l’attenzione dalla produzione dalla quantità verso la qualità e la durata”, afferma Kirsten Brodde, protagonista della campagna Detox my Fashion.

Il numero di vestiti prodotti ogni anno ha raggiunto cifre da capogiro (circa cento miliardi) e aziende del fast fashion come H&M, Zara, Primark e Uniqlo hanno contribuito a raddoppiare la produzione mondiale negli ultimi quindici anni. Le collezioni presenti nei negozi di questi marchi si rinnovano ogni settimana e, spinti dalla novità, noi acquistiamo molti più vestiti e li buttiamo via molto più velocemente, andando ad aumentare i miliardi di rifiuti già presenti nelle discariche.
Gli acquirenti compulsivi di moda accumulano vestiti su vestiti, nonostante sappiano di non essere in grado di utilizzarli, il giorno dopo spesso l’eccitazione si trasforma in colpa. È un fenomeno internazionale alimentato dal fast fashion di abiti, scarpe, borse e accessori. Particolarmente colpiti Cina e Hong Kong, ma diffusi anche in Europa. La maggioranza ammette di possedere più vestiti di quelli necessari (60 per cento Cina, 60 per cento Germania, 51 per cento Italia, 68 per cento Hong Kong e 54 per cento Taiwan). Molti restano non indossati e persino con l’etichetta ancora attaccata (51 per cento Cina, 41 per cento Germania, 53 per cento Hong Kong, 46 per cento Italia, 40 per cento Taiwan).
Perché si compra troppo? Non perché si ha bisogno di qualcosa, ma soprattutto per motivi sociali ed emotivi come il sollievo dello stress, aumentare la fiducia in se stessi, ottenere riconoscimento dagli altri di essere alla moda. I ‘consumatori eccessivi’ acquistano più di quanto possano permettersi (46 per cento Cina, 24 per cento Germania e Italia, 42 per cento Hong Kong, 29 per cento Taiwan). Un terzo si sentono vuoti, annoiati o persi quando non stanno facendo shopping, inoltre circa la metà dei consumatori ammette che a volte nasconde gli acquisti agli altri per paura delle reazioni negative o per non essere giudicati. Gli acquisti via web hanno peggiorato la patologia. Quanto dura la soddisfazione? Tutti gli intervistati concordano che è assai breve, dura anche solo un giorno (48 per cento Cina, 65 per cento Germania, 59 per cento Hong Kong, 65 per cento Italia, 55 per cento Taiwan). ”Nell’odierno sistema di moda – spiega Kirsten Brodde – le aziende spendono miliardi di dollari per venderci falsi sogni di felicità, di bellezza e di suggestione legata ai prodotti da acquistare. Ma saremmo molto più felici se le etichette di moda facessero vestiti di alta qualità e di lunga durata e offrissero ai clienti assistenza, e riparazione dei vestiti. Noi e il pianeta non meritiamo niente di meno”.
Dobbiamo cambiare il modo in cui consumiamo, abiti compresi. Cambiare abitudini di consumo, stili di vita non più sostenibili e cercare la felicità in luoghi diversi dai centri commerciali. La campagna Detox my fashion di Greenpeace, impegnata per un settore tessile più pulito, prevede il coinvolgimento di settantanove marche mondiali di tessuti e fornitori per impedire entro il 2020 l’uso di sostanze chimiche pericolose nella loro catena di approvvigionamento entro il 2020.

Alessandra Magliaro

fonte: http://comune-info.net