Nelle scorse puntate greenreport (qui e qui)
ha cercato di approfondire il problema della crisi della filiera
post-consumo della plastica italiana, che si è trovata a gestire più
rifiuti da raccolta differenziata del previsto, e soprattutto di una
qualità peggiore rispetto al passato. Abbiamo cercato di mostrare i
punti deboli del sistema, disvelare le cause e proporre soluzioni: prima
di tutto quella di una progettazione più sostenibile degli imballaggi
(prevenzione), poi di un sistema di incentivazione fiscale al riciclo e
di una presa di coscienza da parte della pubblica amministrazione, che
smetta di guardare solo al dato quantitativo della raccolta
differenziata e cominci a pensare anche alla qualità, al successivo
riciclo e infine al ri-acquisto dei prodotti riciclati: la spesa in
acquisti di beni e servizi da parte della Pubblica amministrazione
italiane vale oggi 284 miliardi di euro
– circa il 17% del Pil – , e avrebbe quindi tutta la forza per
riorientare l’economia in senso ecologico, se solo lo si volesse.
Detto
tutto ciò non possiamo però esimerci di allargare lo sguardo anche al
di fuori dei nostri confini. Perché se il problema è venuto a galla oggi
e non magari fra qualche anno, dipende da una superpotenza globale come
la Cina. Eh sì. La Cina. Perché la Cina non è così diversa da noi:
pochi giorni fa il governo cinese ha notificato
all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che smetterà di
accettare spedizioni di 24 tipi di rifiuti e il lancio di una campagna
contro la “spazzatura straniera”. La Cina non è così diversa da noi,
perché il governo ha semplicemente annunciato una cosa che il mercato
aveva già deciso: nel 2016 infatti si è toccato la punta record di 7,3
milioni di tonnellate di rifiuti plastici importati dal gigante
asiatico, ma a partire proprio dagli ultimi mesi dello scorso anno
questa tendenza si è interrotta. La Cina infatti aveva già iniziato a
ridurre le importazioni di certi rifiuti da diversi paesi che per anni
se ne sono approfittati, mandando laggiù materiali di pessima qualità (e
badate bene, parliamo solo di traffici legali, controllati e
certificati).
Per
un po’ il giochino è continuato, magari utilizzando triangolazioni con
paesi da cui venivano fatti transitare i rifiuti e che non erano stati
ancora messi nella ‘lista nera’; poi, alla fine anche queste sponde sono
venute meno e nel frattempo i cinesi si sono costruiti gli impianti.
Tanti impianti e di ogni genere, così da evitare l’import: per
selezionare e riciclare i rifiuti prodotti da loro stessi secondo la
logica di prossimità (che poi, ambientalmente, è cosa razionale e
sostenibile). Una tendenza cui dovremmo – velocemente – abituarci, dato
che non riguarda “solo” la Cina: anche la Germania, che finora si è
sobbarcata (profusamente pagata) la gestione dei rifiuti contenenti
amianto italiani che l’Italia non vuole, presto ci lascerà con il cerino in mano.
Tornando
alla filiera dei rifiuti plastici, la conseguenza della nuova politica
cinese è chiara: i riciclatori europei hanno improvvisamente avuto a
loro disposizione molta più scelta di materiali, e a prezzi molto più
convenienti. Il risultato è che chi aveva raccolte differenziate e
selezioni di qualità (la Germania) è riuscita comunque a vendere, magari
a prezzi molto ridotti, i propri rifiuti riciclabili. Mentre i paesi
che avevano un materiale di qualità inferiore non sanno più a chi darlo.
Tra questi anche l’Italia, con la richiesta di Corepla di riservare una quota di termovalorizzazione anche alle plastiche più difficili da riciclare.
fonte: www.greenreport.it