8 modi per salvare gli oceani, secondo chi dedica la sua vita a proteggerli

Salvare gli oceani non è una missione disperata. Servono tempo, risorse e sacrifici, ma esistono ben otto strade da seguire. A partire da adesso.





I nostri oceani, fondamentali per la salute del nostro pianeta, soffrono. Soffrono perché sono diventati un’immensa discarica di rifiuti di ogni tipo. Primi fra tutti, quelli di plastica: ne finiscono in oceano 8 milioni di tonnellate l’anno (l’equivalente del peso di tutta la popolazione spagnola messa insieme), che diventeranno 60 tonnellate al minuto nel 2050, se non faremo qualcosa per cambiare rotta. Secondo il primo studio sistemico su questo tema, condotto dalla University of Queensland e dalla Wildlife Conservation Society, in questo momento soltanto il 13 per cento degli oceani può dirsi intoccato. Si tratta soprattutto di aree molto remote nel Pacifico e nei pressi dei poli. Tutto il resto della superficie oceanica è stato danneggiato dall’uomo.

Di fronte a uno scenario così compromesso, è normale farsi prendere dallo sconforto e pensare che ormai non ci sia più niente da fare. Ma la realtà dei fatti è diversa. Salvare gli oceani è possibile, però bisogna agire insieme. E subito.
La missione di Nina Jensen e Rev Ocean

Un lungo articolo pubblicato dal World Economic Forum propone otto azioni concrete per salvare gli oceani dalla plastica. La firma è quella di Nina Jensen, che per la sua storia professionale ha maturato una conoscenza più che approfondita di questo tema. Biologa marina con competenze anche in materia di comunicazione e marketing, Jensen ha lavorato per quindici anni per Wwf Norvegia, per poi dedicarsi a tempo pieno a Rev Ocean, di cui è amministratore delegato.

Rev, acronimo di research expedition vessel, è un progetto ambizioso e già avviato. In questo momento è in fase di costruzione una nave che solcherà gli oceani per studiare i problemi che li affliggono (dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, alla plastica, fino alla pesca intensiva) e trovare delle soluzioni. La nave, il cui varo è previsto per il 2020, sarà la più grande al mondo — e la più avanzata a livello tecnologico — a occuparsi di questo compito. È progettata in modo tale da riuscire a navigare anche in acque molto remote e “difficili” per lunghi periodi, senza bisogno di alcun supporto esterno. Scienziati, esperti e ricercatori di tutto il mondo avranno accesso all’imbarcazione e alle sue tecnologie per portare avanti i loro studi.

Tra i progetti di Rev c’è anche quello di dare vita al World Ocean Headquarter con sede a Fornebu, una località pochi chilometri a ovest di Oslo, che sarà il punto di ritrovo di ong, autorità, scienziati e chiunque altro possa dare un contributo concreto per salvare gli oceani. Da questo lavoro nascerà la World Ocean Data Platform, il più grande database aperto dedicato agli oceani.
Le otto azioni concrete per salvare gli oceani

Secondo Jensen, sono otto le strade che abbiamo a disposizione per salvare gli oceani. Richiedono sacrifici, tempo e una ferrea volontà da parte di tutti, ma sono percorribili e reali.
Smettere di essere così dipendenti dalla plastica

Cannucce, sacchetti, bicchieri, bottiglie: gli oggetti di plastica usa e getta che fanno parte integrante della nostra vita quotidiana sono veramente troppi. Diverse amministrazioni stanno cercando di porre un freno a tutto questo. La Commissione europea a fine maggio ha presentato una direttiva per bandire (o regolamentare in modo ferreo) la plastica monouso, l’India la vuole vietare entro il 2022, Seattle è stata la prima città americana a proibire l’uso di cannucce di plastica.

Queste regolamentazioni d’ora in poi non devono essere più l’eccezione, ma la regola. In tutto il mondo. In attesa che ciò accada, i consumatori devono prestare più attenzione ai prodotti che scelgono in casa, in ufficio o al bar.





Responsabilizzare le aziende

Negli ultimi cinquant’anni la produzione globale di plastica è raddoppiata. Nel 1974 il consumo medio pro capite era pari a 2 chili, ora è a quota 43. Secondo i piani delle maggiori imprese del settore, la produzione crescerà di un terzo nell’arco dei prossimi cinque anni.

Questi dati dimostrano in modo inequivocabile che l’industria deve virare verso lo sviluppo di alternative alla plastica. Servono normative e accordi che identifichino le aziende responsabili di un grande consumo di plastica e le mettano di fronte alle loro responsabilità, ad esempio con un impegno formale a gestire lo smaltimento in modo più rispettoso dell’ambiente.
Imporre una tassa sulla plastica

Ad oggi, la maggior parte della plastica usata nel mondo è realizzata a partire dal petrolio, risultando particolarmente dannosa per il Pianeta tanto a monte, con la sua stessa produzione, quanto a valle, nella fase di smaltimento. Questa situazione difficilmente cambierà a meno che la plastica riciclata non diventi più conveniente a livello economico rispetto a quella realizzata con il petrolio. Che fare? Secondo Jensen, è necessario imporre una vera e propria tassa.
Migliorare la gestione dei rifiuti proprio dove risulta più problematica

Nei paesi in via di sviluppo la crescita demografica è forte, si allarga il perimetro della classe media e, parallelamente alla crescita dei consumi, anche l’uso di plastica usa e getta si diffonde in modo molto più rapido rispetto agli impianti e alle strutture che servirebbero per riciclarla. Si rende necessario così un programma di cooperazione internazionale volto a costruire infrastrutture per il riciclo e la gestione ottimale dei rifiuti.
Far sì che l’obiettivo “zero plastica in mare” diventi concreto

Nel mese di dicembre 2017, l’Assemblea per l’ambiente delle Nazioni Unite (Un Environment Assembly) ha dichiarato, tramite un documento ufficiale, che bisogna firmare l’afflusso di plastica in mare. Dopo questo primo passo serve un accordo internazionale che sancisca con precisione obiettivi e tempistiche, mappando la provenienza dei rifiuti, identificando le responsabilità e migliorando la loro gestione su scala globale.
Puntare sul monitoraggio, sullo studio e sulla ricerca

Del problema della plastica in mare ultimamente si discute tanto, ma basta scavare un po’ più a fondo per rendersi conto di quanti sono gli aspetti che ad oggi ancora non conosciamo. Secondo alcune ricerche, per esempio, il 70 per cento della plastica finisce sui fondali, dove nel tempo si smembra in tante minuscole particelle. A quel punto non siamo più in grado di sapere cosa succede né come possiamo sbarazzarci di quei rifiuti. Questo problema si può affrontare solamente sostenendo la ricerca, per arrivare a un sistema di monitoraggio molto più accurato.
Fare in modo che i rifiuti di plastica non finiscano in mare

L’80 per cento dei rifiuti di plastica negli oceani viene da terra. Chiunquepuò provare nel suo piccolo a porre un freno a questa catastrofe ambientale, partecipando in prima persona alle operazioni di raccolta, evitando di usare la plastica o semplicemente facendo in modo di non disperdere rifiuti.




Incrementare i fondi per le operazioni di clean-up

Bisogna intensificare i meccanismi per ripulire mari e oceani dalla plastica, come Ocean Cleanup di Boyan Slat o i seabin progettati da Pete Ceglinski, che da poco sono stati adottati anche in Italia. E bisogna farlo soprattutto nelle aree che risultano più problematiche. Spesso il problema principale sta nella difficoltà di reperire risorse finanziarie per queste operazioni che possono risultare anche parecchio costose. Servirebbe un Fondo globale per gli oceani, sul modello del Fondo verde per il clima.

fonte: www.lifegate.it