Nel mondo crescono i conflitti ambientali e le minacce agli attivisti. L’Italia “paese dei Fuochi”

Sono 212 le persone morte nel 2019 per difendere la loro terra dall’inquinamento o dalla speculazione, secondo l’ultimo rapporto dell’ong Global Witness. Quattordici omicidi a settimana, la maggior parte in Colombia, Filippine e Brasile. In Italia e in Europa non si spara, ma le vertenze ambientali sono più di 150.




Ogni anno si spera che sia migliore del precedente. Invece, per i difensori della terra e dell’ambiente, si conferma il peggiore, registrando di volta in volta un aumento delle vittime assassinate per aver difeso il luogo in cui vivono. Sono 212 gli attivisti uccisi nel 2019. Lo rivela l’ultimo rapporto pubblicato dall’ong Global Witness, fondata nel 1993 e operativa su scala mondiale con sede a Londra, Washington e Bruxelles. Mediamente da dicembre 2015, ovvero da quando c’è stata la conferenza di Parigi sul clima (COP21) che ha portato al primo accordo universale e giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici, si calcolano quattro omicidi a settimana. Più della metà rilevata lo scorso anno riguarda la Colombia e le Filippine, dove sono morte rispettivamente 64 e 43 persone per essersi opposte allo sfruttamento del proprio territorio. A generare conflitti sociali si conferma al primo posto il business dell’industria mineraria. Per aver espresso dissenso contro questo settore nel 2019 sono state uccise 50 persone. Seguono poi l’industria dei combustibili fossili, ovvero petrolio, gas e carbone, e l’agricoltura superintensiva soprattutto di olio di palma e zucchero. Il tasso di omicidi in quest’ambito è aumentato rispetto al 2018 del 60%.

“Proprio in questo momento, in cui abbiamo bisogno più di prima di ascoltare queste voci, i governi di tutto il mondo hanno adottato una serie di misure per ridurre lo spazio della protesta pacifica”, scrivono gli autori del rapporto Difendere il domani. Crisi climatica e minacce contro i difensori della terra e dell’ambiente. “Stanno utilizzando tattiche – spiegano – che vanno dalle campagne di screditamento alle false accuse penali per silenziare coloro che si battono per il clima e la sopravvivenza dell’umanità”. Il 40% degli attivisti uccisi appartengono alle comunità indigene, le cui conoscenze ancestrali nella gestione delle risorse naturali sono indispensabili per combattere la crisi climatica e la perdita di biodiversità sul Pianeta. Più di un terzo degli omicidi è avvenuto in America Latina. Dopo le Filippine, per tasso di mortalità, si colloca il Brasile, in cui si registrano 24 morti di cui il 90% in Amazzonia, seguito da Messico (18) e Honduras (14). Quest’ultimo è considerato il più pericoloso al mondo per numero di assassinii pro capite. In media più di una vittima su 10 è donna. Dei 212 difensori uccisi 19 erano funzionari statali e guardaparchi. La piramide della violenza inizia sempre da strategie di ostracismo, attraverso cui si dipingono agli occhi dell’opinione pubblica gli attivisti come privi di cultura, contrari al progresso, fino all’accusa di terrorismo e criminalità organizzata.

Dal rapporto emerge che il continente europeo si conferma come il meno interessato dall’aumento degli omicidi, sebbene in Romania nel 2019 ne siano stati registrati due tra i guardaparchi impegnati contro il disboscamento illegale. “Se è vero che il numero degli assassinii in Europa è basso, è anche vero che i difensori della terra in questa regione subiscono campagne di screditamento e criminalizzazione a causa del loro attivismo”. L’Italia non è esente da questo tipo di strategie ai danni dei cittadini. Lo segnala dal 2007 il Centro documentazione conflitti ambientali (CDCA), nato da un progetto dell’associazione A Sud, che si occupa di aggiornare l’Atlante italiano. Si tratta di una piattaforma web georeferenziata che raccoglie le emergenze ambientali nel nostro paese e le esperienze di cittadinanza attiva in difesa del territorio e del diritto alla salute. Sono 150 le schede di conflitti ambientali finora redatte, classificate in 10 diverse categorie, a seconda del settore produttivo che le comunità contestano. Una sorta di geografia della resistenza che mappa le proteste contro “enormi interessi di soggetti privati impegnati in attività estrattive, produttive, di smaltimento, miniere, centrali per la produzione di energia, siti di stoccaggio dei rifiuti e mega infrastrutture” (qui il report). Secondo i ricercatori “il quadro che emerge rappresenta la drammatica diffusione a livello nazionale di emergenze ambientali e di istanze di difesa popolare, la cui portata in termini di contaminazione va ben oltre le tragiche e note vicende della Terra dei Fuochi”. L’Italia tutta viene descritta come “un Paese dei Fuochi, da nord a sud, isole comprese”.

fonte: www.ilfattoquotidiano.it


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