Gli impatti ambientali dell’attività mineraria raccontati dall’Ispra

L'audizione in Commissione Ecomafia ha permesso ai ricercatori dell'Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale di fare chiarezza su un tema poco affrontato. In Italia dal 1870 ad oggi sono stati in attività 3.015 siti minerari, interessando tutte le Regioni, 93 province e 889 Comuni





Si è tenuta nei giorni scorsi in Commissione Ecomafia alla Camera dei deputati un’audizione sugli impatti ambientali dell’attività mineraria alla quale ha partecipato il direttore generale dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), Alessandro Bratti, e l’esperto Fiorenzo Fumanti, del dipartimento per il Servizio geologico d’Italia dell’ISPRA.

L’obiettivo era quello di fornire un quadro completo degli impatti ambientali dell’attività mineraria, di cui spesso si sono presi in considerazione gli aspetti economici più di quelli ecologici. Per capire come questo è stato monitorato – e soprattutto gestito – fino ad oggi.

Secondo le evidenze mostrate nel rapporto, il grande problema per l’ambiente è rappresentato dai siti abbandonati e dalle discariche minerarie. I dati ci dicono infatti che “le criticità ambientali sono connesse all’operatività delle miniere, ma ancor più alle centinaia di siti minerari abbandonati”.

Tanti siti e poca attenzione

In Italia dal 1870 ad oggi sono stati in attività 3.015 siti minerari, interessando tutte le Regioni, 93 province e 889 Comuni. Nel 2018, a fronte di 120 concessioni di miniera ancora in vigore, 69 risultavano realmente in produzione, soprattutto in Sardegna, Piemonte e Toscana.

Le miniere attualmente operanti sul territorio nazionale sono solo di minerali non metalliferi, la cui estrazione è meno impattante rispetto a quelli metalliferi. Tali siti sono soggetti ai controlli di polizia mineraria effettuati dalle Regioni, avvalendosi delle Arpa competenti relativamente ai controlli ambientali.

Riguardo ai siti oggi non più produttivi invece, il rapporto spiega che gran parte di essi sono stati gestiti con “scarsa attenzione alla prevenzione e al contenimento dell’impatto ambientale”. Nello specifico, spiega Fumanti, sono abbandonati “elevati quantitativi di metalli pesanti e sostanze tossiche sono contenuti nei bacini di decantazione dei fanghi di laveria, impianti in cui il materiale estratto veniva frantumato, macinato e flottato in acqua: tali bacini costituiscono potenziali sorgenti di danno ambientale per il possibile rilascio dei fanghi contaminati a causa di perdite o crollo delle strutture di contenimento”.

Ecco perché, secondo l’Ispra, i bacini di decantazione devono essere messi subito in sicurezza ed essere oggetto di continuo controllo. E qui c’è il secondo problema.
Chi se ne occupa?

Come ricorda lo stesso Fumanti infatti, “nel 2012 la proprietà delle miniere è stata trasferita dallo Stato alle Regioni, già competenti dal 1998 per la gestione amministrativa dei permessi di ricerca e le concessioni di coltivazione”. Questi cambiamenti, secondo quanto riferito, “essendo avvenuti in assenza di un quadro normativo aggiornato e di indirizzo delle attività, hanno generato sia sistemi di pianificazione, autorizzazione e controllo diversificati che sistemi di raccolta e gestione delle informazioni eterogenei”.

Da questo dipende l’abbandono di ingenti quantitativi di scarti minerari. E il forte impatto ambientale al quale occorre porre rimedio. I dati parlano chiaro: con il decreto legislativo117/2008 l’Italia ha recepito l’apposita direttiva europea relativa alla gestione dei rifiuti delle industrie estrattive e istituito l’Inventario nazionale delle strutture di deposito dei rifiuti estrattivi, gestito da Ispra. E nel 2017, “erano presenti in Italia 321 strutture di deposito con rischio ecologico-sanitario da medio-alto ad alto”. È il momento di intervenire.

fonte: economiacircolare.com


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