Ci vuole un Recovery Planet

A fine aprile il governo Draghi dovrà consegnare la propria versione del Recovery Plan. Per uscire dalla crisi post-Covid serve però una strategia complessiva che cambi il modo in cui viviamo. La rete della Società della cura ha elaborato una proposta che ha messo insieme più di mille persone, suddivise in 13 tavoli tematici



L'antidoto a un esecutivo chiuso nelle sue stanze, con portatori di interesse ed esperti dei soliti affari e con scarsa attenzione alla dura realtà dei cambiamenti climatici?

Quelle minacce che, solo a volercisi adattare con soluzioni di mercato, costerebbero al mondo tra 130 e 300 miliardi di dollari l’anno fino al 2030, e tra 280 e 500 miliardi fino al 2050, mentre a novembre 2020 il Green Climate Fund istituito per sostenere l’Accordo di Parigi ne ha approvati 7,2 e davvero sborsati 1,4?

Non basta un Recovery Plan, pur a volerlo fare bene: serve un Recovery Planet. Una strategia complessiva che cambi il modo in cui produciamo, coltiviamo, distribuiamo, ci nutriamo, ci finanziamo, lavoriamo e affrontiamo la prospettiva digitale, operando scelte nette a partire da un cambio di paradigma complessivo che metta la pratica ecofemminista della cura al centro del sistema al posto del profitto.

Recovery Planet è il risultato del lavoro di oltre mille mani che per cinque settimane si sono incontrate regolarmente in modo virtuale pescando competenze e pensieri tra oltre 1400 tra realtà organizzate e persone che si riconoscono nel processo di convergenza verso una Società della Cura.

La Società della Cura nasce in un pomeriggio di mezza estate, quando a Roma, nella distopica cornice di Villa Pamphilj, l’ex premier italiano Giuseppe Conte accoglie alcune realtà della società civile e sindacali per provare a mitigare l’effetto-choc provocato dalla lettura del Piano Colao che indicava per l’uscita del Paese dalla crisi post-Covid le stesse scelte mercatiste che ci avevano portato alla crisi sociale e ambientale, insieme alla stagnazione economica, ben prima dello scoppio della pandemia. 



Nasce così un appello spontaneo a radunarsi fuori dalla cornice dorata, in un pic-nic, per ragionare insieme su quale dovesse essere, invece, una cornice di senso e un piano d’azione innovativo che consentisse all’Italia, ma non solo, di non sprecare le lezioni della pandemia, affrontare il collasso climatico e l’ingiustizia sociale per costruire la società della cura di sé, degli altri, del pianeta.

Da quel centinaio tra persone e realtà nasce un percorso di confronto che, dopo meno di un anno di lavoro insieme e due mobilitazioni – il 21 novembre e il 22 dicembre – con azioni simboliche da Aosta a Catania, che hanno lanciato un Manifesto comune e un “Dono” per reindirizzare 175 miliardi dell’ultima Legge di bilancio verso un cambiamento radicale di direzione delle politiche locali e nazionali per non lasciare nessun@ indietro.

Il 10 aprile torneremo a mobilitarci per presentare a istituzioni e territori il nostro Recovery Planet: un Piano nazionale di transizione verso la società della cura, la nostra alternativa al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza del governo, elaborato con un metodo partecipato da centinaia di persone organizzate in 13 tavoli tematici. Il documento si apre con una lettura critica femminista delle iniziative da intraprendere, e si accompagna a un testo più di dettaglio prodotto dal tavolo tematico “Ecologia e ambiente” cui hanno lavorato attivist@ dei Fridays for future, dei movimenti per l’acqua pubblica, No Tav, No Triv, dell’associazione Laudato Sì e di molti altri comitati e realtà ambientaliste, contadine e animaliste.

Il superamento del modello di economia lineare verso una circolarità multidimensionale dell’organizzazione dei mercati è uno dei pilastri della vera transizione, ma da solo non basta, perché per contenere all’origine i virus patogeni la cui diffusione è accelerata dalla degradazione dell’ambiente che abbiamo provocato, bisogna ispirare ogni intervento alla cura del patrimonio naturale, alla rigenerazione dei servizi ecosistemici che sorreggono la rete della vita e tra i viventi. 



È in questa chiave che si integrano con coerenza l’esigenza di ripubblicizzare i servizi pubblici locali a partire dall’acqua, a dieci anni dal referendum popolare che lo ha chiesto, riscrivere la Strategia nazionale della biodiversità, il Piano nazionale integrato per energia e clima, la Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile tagliando le emissioni almeno del 7,6% l’anno come chiedono le Nazioni Unite, abolendo i sussidi ambientalmente dannosi ma introducendo anche tassazioni penalizzanti dei prodotti più inquinanti che gravino sui profitti degli azionisti.

Più importante, però, è colmare il deficit democratico e di partecipazione alle scelte strategiche del Paese che si va approfondendo, prevedendo un percorso per l’inserimento in Costituzione della salvaguardia dei diritti della natura e del vivente svelatisi con la pandemia così deboli ma determinanti per la nostra stessa sopravvivenza. Non sono solo pagine o critiche, la difesa di un diritto o di un bene comune, ma la sfida per un’alternativa di società, che contrapponga il prendersi cura alla predazione, la cooperazione solidale alla solitudine competitiva, il “noi” dell’eguaglianza e delle differenze all’“io” del dominio e dell’omologazione.

fonte: comune-info.net


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