Rigenerare e riutilizzare: i modi migliori per gestire i rifiuti (evitando che diventino tali)

Due dei principali problemi dell'economia lineare sono la scarsità di risorse e la produzione di rifiuti. Azioni circolari come la riparazione, la rigenerazione e la preparazione al riutilizzo di materiali arrivati a fine vita possono essere la soluzione. Ma serve un'organizzazione migliore della filiera e un cambio di approccio



Se si considera che ogni cittadino europeo consuma in media 15 tonnellate di materie prime all’anno e produce circa 4,5 tonnellate di rifiuti, un’economia in grado di massimizzare attività come la preparazione al riutilizzo e il riutilizzo potrebbe abbattere contemporaneamente sia lo spreco di risorse sia la produzione di rifiuti. E cosa c’è di più “circolare” di azioni come la riparazione, la rigenerazione e la preparazione al riutilizzo di materiali arrivati a fine vita? Capace di evitare la produzione di scarti non recuperabili e quindi destinati alla distruzione e alla discarica? E che, infine, è in grado di generare vantaggi economici e ambientali?

La risposta a queste domande (retoriche) è che – ad oggi – non vi è nulla. Scegliere riuso e preparazione al riutilizzo come vie per gestire i rifiuti significa creare le condizioni per:
ridurre la produzione e la movimentazione dei rifiuti, con benefici netti sull’intero ciclo di vita dei prodotti;
incentivare l’innovazione, contribuendo a ridurre l’uso di materie prime vergini, con annessi problemi di accesso ai materiali considerati strategici (si pensi alle cosiddette terre rare);
contribuire ad allungare l’utilità economica dei prodotti e dei servizi;
generare occupazione e di riposizionare competenze e know-how verso produzioni alternative, rimediando almeno in parte agli esiti della delocalizzazione produttiva, in quanto attività labor intensive.

Eppure, benché al vertice della cosiddetta “gerarchia dei rifiuti” (e dunque tra le opzioni preferibili), riuso e preparazione al riutilizzo non hanno goduto di grande considerazione. Collocandosi in una sorta di “terra di mezzo” tra il mondo dei rifiuti e quello dei non rifiuti, hanno sofferto la mancanza di regole chiare, carenza di capacità organizzative e imprenditoriali, per finire relegate a un ruolo di comprimarie.

Non solo. Rispetto alle altre opzioni, queste due attività richiedono qualcosa in più: un vero cambio di approccio, dove l’attenzione si sposta su tutto il ciclo di vita del bene, dalla progettazione fino alla possibilità che attraverso processi di riparazione, rigenerazione, upgrading, disassemblaggio, il prodotto o parti del prodotto possano continuare a svolgere la stessa funzione o funzioni differenti all’interno di un nuovo prodotto.

“Prodotto” o “rifiuto”?

Ma vi è una differenza tra riutilizzo e preparazione per il riutilizzo? Sì e riguarda quel confine che distingue un “prodotto” da un “rifiuto”.

Infatti, se il riutilizzo riguarda un prodotto o una componente che non è rifiuto e si colloca, dunque, nell’ambito della prevenzione, la preparazione per il riutilizzo si riferisce a un prodotto o a una componente diventata rifiuto. E solo quest’ultima può essere considerata a rigore una delle forme di recupero, necessitando quindi di un’autorizzazione al trattamento ai sensi del Testo Unico Ambientale (TUA, Parte IV).

Diverso è il caso delle attività quali la riparazione e il remanufacturing (rigenerazione), che rientrano nell’insieme delle attività di prevenzione rispetto alla produzione di rifiuti, e che non sono codificate nel TUA. Si tratta di operazioni che, come il riutilizzo, riguardano a tutti gli effetti dei prodotti, non dei rifiuti, e che pertanto potrebbero essere collocate nel “gradone” più alto della piramide che configura l’ordine gerarchico nella gestione dei rifiuti (quindi la prevenzione tout court di rifiuti).

Se fino ad ora un vero e proprio cambio di approccio sembra non aver preso piede, le premesse per una prossima diffusione delle pratiche di prevenzione e dei modelli del riutilizzo nel nostro Paese sembrano esserci, e di conseguenza si potrebbe innescare anche un percorso di crescita economica del comparto. In questo senso, il d.lgs. 116 del 2020 ne ha compreso almeno in parte l’importanza e ha provato a disciplinarne meglio alcuni aspetti, anche tramite l’armonizzazione con i diversi modelli organizzativi, tra cui quello della cosiddetta Responsabilità Estesa del Produttore.

Le principali leve che potrebbero favorire la diffusione della prevenzione e del riutilizzo in Italia sono tre:
il nuovo Piano d’Azione per l’Economia Circolare, promosso dalla Commissione UE e approvato dal Parlamento
il nuovo Programma Nazionale di Prevenzione dei Rifiuti, che il Ministero per la Transizione Ecologica dovrà redigere
la regolazione ARERA nel settore dei rifiuti urbani.

Ciascuno dei tre attori, a livello comunitario e nazionale, potrà giocare un ruolo chiave nel tentativo di arrivare all’auspicato sganciamento tra sviluppo economico e produzione di rifiuti/consumo di risorse naturali. Se il Piano d’Azione rappresenta la strategia UE che dovrà indirizzare l’industria verso l’immissione al consumo di prodotti durevoli e più facilmente riutilizzabili e/o riparabili, il Programma di Prevenzione e la regolazione ARERA potranno incentivare la diffusione di buone pratiche a livello regionale e locale, dal punto di vista del cittadino e delle imprese.

Infine, anche misure nazionali di politica fiscale e di incentivazione economica possono svolgere un ruolo trainante sul vertice della gerarchia dei rifiuti, così come i processi di integrazione orizzontale e verticale tra gli operatori coinvolti nella filiera del riuso, in particolare tra i soggetti gestori responsabili della raccolta dei rifiuti urbani e gli operatori professionali attivi sul mercato. La sfida consiste nel trovare l’equilibrio affinché, nel rispetto dei singoli ruoli, i beni possano essere valorizzati, da una parte eliminando i costi di transazione, dall’altra senza scaricare i costi sul sistema tariffario, quindi in bolletta.

Qual è la situazione oggi in Italia? Osservando da un punto di vista della logistica, il limite principale riguarda il mancato input alla costruzione di filiere organizzate del riuso in grado di integrare il lavoro dei soggetti gestori con gli operatori professionali del riuso al fine dell’estrazione del massimo possibile di valore. Intercettare flussi di beni mobili durevoli e in generale potenzialmente riparabili/riutilizzabili rappresenta solo il primo passo, che dovrebbe essere seguito da una catena del valore in cui i diversi attori possano integrarsi al fine di trasformare i mercati dell’usato in mercati davvero competitivi, pienamente regolari e meglio distribuiti territorialmente. E ciò avviene facendo rientrare la professionalità degli operatori dell’usato all’interno del servizio di raccolta e di selezione.

Una recente indagine di ISPRA ha messo in luce come nel 24% dei Comuni oggetto della ricerca vi siano presenti mercatini dell’usato, punti di scambio e/o centri per il riuso. Una quota esigua e fortemente disomogenea, se si considera che 59 Comuni sui 79 nei quali sono presenti tali strutture si trovano in Emilia-Romagna o in Lombardia (tra cui Bologna, Parma, Rimini, Forlì e Milano). Allo stesso modo, i Comuni nei quali sono presenti centri di riparazione e/o preparazione per il riutilizzo sono 22 (6,8% del campione) e quelli dotati di centri di raccolta con appositi spazi finalizzati allo scambio tra privati di beni usati sono il 3,1% del campione.

“Come nuovo”: l’economia del riutilizzo e del remanufacturing

In termini economici, la compravendita di oggetti usati o di “seconda mano” ha raggiunto nel 2019 quota 24 miliardi di euro (l’1,3% del PIL), di cui 10,5 attraverso l’online. Riguardo ai benefici ambientali, secondo i calcoli dell’Istituto Svedese di Ricerca Ambientale (IVL) i soli acquisti effettuati su Subito.it nel 2017 hanno consentito di evitare 4,5 milioni di tonnellate di CO2.

Buoni risultati che, purtroppo, devono fare i conti con un approccio fino ad oggi caratterizzato per mancanza di visione, con i due segmenti preparazione e riutilizzo relegati a una dimensione marginale e con l’aspetto economico ancora troppo sullo sfondo. La sfida da vincere, invece, è quella di trasformare un settore ancora caratterizzato dall’economia informale in una gestione professionale, capace di produrre valore economico e sociale.

Alcuni numeri del fenomeno. Secondo il Rapporto Nazionale sul Riutilizzo 2018, le attività di preparazione e riutilizzo interessano annualmente tra le 600 e le 700mila tonnellate di rifiuti, circa il 2% della produzione di rifiuti urbani e che potrebbero essere sottratti al trattamento e allo smaltimento. Da dati forniti dalla Rete degli operatori nazionali dell’usato, il mercato dell’usato in conto terzi muove circa 850 milioni di euro l’anno e riguarda circa 3mila iniziative stabili, mentre il segmento che impiega più persone è quello dell’ambulantato. Si tratta di un settore economico difficile da censire, sia nella sua parte emersa sia in quella sommersa, che spazia dall’informalità delle strade all’hobbismo e che riguarda, in gran parte, operatori professionali che non trovano spazio nella formalità. Complessivamente ne sono coinvolte circa 50mila micro-attività, con una stima di 80mila addetti.

Una tendenza in forte crescita, che parzialmente rimpiazzerà i mercati “fisici”, è rappresentata dai mercatini per l’usato online. Oltre ad alcuni colossi dell’e-commerce come eBay, che già a metà degli anni Novanta aveva intuito il potenziale della compravendita online di prodotti nuovi e usati, e a Facebook, che dal 2016 ha introdotto un marketplace che coinvolge gli utenti del social network, si moltiplicano le aziende che consentono di vendere e acquistare prodotti usati sul web. La tecnologia ha favorito negli anni lo sviluppo di questo segmento, consentendo attraverso app mobile di semplificare l’incontro tra domanda e offerta. Fra queste rientra Shpock (“Shop in your pocket”), che consente attraverso la geolocalizzazione di trovare prodotti usati in vendita entro un raggio chilometrico impostato dagli utenti. Si pensi a piattaforme come Depop e Vinted, fondati rispettivamente nel 2011 e nel 2012, che stanno suscitando grande curiosità e interesse, soprattutto fra le nuove generazioni.

Alle forme più tradizionali della second hand economy, che riguardano principalmente beni usati pronti per il riuso, si affiancano nuove tendenze e forme di riutilizzo legate in particolar modo al segmento dell’elettronica. Tra queste vi è il remanufacturing, ovvero de-asseamblare un prodotto o un componente già utilizzato, rigenerarlo e reimmetterlo sul mercato. Un’attività che consente di prolungare il ciclo di vita dei beni estendendolo con la riparazione, e spostando quote di valore dall’uso di materie prime alla manodopera, prevalentemente specializzata.

Con la rigenerazione si creano benefici economici su tre fronti. Primo, per i produttori, che ottengono risparmi sui costi di produzione, potendo erogare servizi ai clienti nelle fasi post-vendita e migliorando la fidelizzazione. Secondo, per i consumatori finali, visti i costi inferiori di un bene rigenerato rispetto al nuovo e, terzo per l’occupazione in generale, considerato che il remanufacturing è ancora una attività ad elevato tasso di manodopera, che può permettere di recuperare parte della disoccupazione originata dalla delocalizzazione produttiva e dall’automazione.

Secondo gli scenari ricostruiti dallo European Remanufacturing Network (ERN), il remanufacturing alimenta un mercato che in Europa vale circa 30 miliardi e che potrebbe crescere fino a 100 miliardi entro il 2030, un volume già raggiunto negli USA, dove pare avere trovato radici solide. In termini di settori, l’automotive e il settore della costruzione di macchine industriali rappresentano, ciascuno, circa il 30% del mercato del remanufacturing, il resto si ripartisce per un 27% agli apparecchi elettrici ed elettronici, per un 7% alla componentistica per automezzi pesanti e fuoristrada e un 3% sia all’aerospazio che alle forniture tecnologiche in genere. Lo stesso ERN stima che la rigenerazione consente di risparmiare tra il 60 e l’80% del valore dei prodotti nuovi, soprattutto in termini di minori costi di materie prime, energia, trasporto, distribuzione, etc. Si parla infatti di “substitution strategy”, proprio per indicare la scelta strategica di lavorare su una base più avanzata (non solo tecnologicamente) rispetto ai rifiuti.

La spinta verso la rigenerazione dei beni richiede di irrobustire l’osmosi industriale, mettendo a sistema la cura dei prodotti anche dopo la fase della vendita. Ciò ha particolare valore in Italia, secondo paese manifatturiero d’Europa, attraverso l’impulso verso la dematerializzazione della produzione e affidando maggiore spazio alla connettività e all’elaborazione dei dati. Un modo per provare ad arginare le delocalizzazioni produttive di cui è stata vittima la manifattura italiana.

La via del remanufacturing appare dunque propizia, sia a causa delle difficoltà (non solo economiche) per l’approvvigionamento delle materie prime (insieme al contestuale livellamento su scala internazionale del costo del lavoro) sia per le periodiche crisi geopolitiche, soprattutto per l’accesso alle terre rare e/o a materiali considerati strategici, come il litio, il berillio, etc.

Un primo passo avanti nel nostro Paese è stato fatto, nell’ambito di Industria 4.0. Il 28 maggio 2020 è stato deliberato dal MISE il decreto attuativo del Piano Transizione 4.0, che destina un credito di imposta del 10% alle attività oggetto di innovazione tecnologica finalizzate al raggiungimento di obiettivi di transizione ecologica.
Questo approfondimento è stato scritto da Donato Berardi, Antonio Pergolizzi e Nicolò Valle, componenti del Laboratorio Ref Ricerche

fonte: economiacircolare.com



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