La nuova corsa all’oro dell’industria estrattiva

 

È il deep sea mining: minare materiali chiave per l'industria high tech dai fondali marini. L’industria la considera un ponte verso la transizione energetica, la comunità scientifica avverte riguardo alle conseguenze

Sul fondo dell’Oceano
Pacifico, a migliaia di chilometri di profondità, l’oscurità più assoluta inghiotte una risorsa su cui si sta giocando una partita chiave per il futuro del Pianeta. Simili a patate dal colore nero, i noduli polimetallici formano un lungo tappeto che si estende per migliaia di chilometri. Giacciono lì indisturbati dopo essere stati plasmati nel corso di milioni di anni dall’accumulo di depositi minerali. Al loro interno i noduli custodiscono un tesoro: rame, nichel, manganese e cobalto in alte concentrazioni. Quei metalli che fanno sempre più gola all’industria high-tech, perché ad oggi necessari per costruire le batterie – componente chiave della transizione energetica.

Intorno ai noduli si sta scatenando una nuova “corsa all’oro” globale. Un terreno dove gli appetiti commerciali di chi i minerali li vuole estrarre a tutti i costi si scontrano con la forte paura di comunità scientifica e attivisti per una nuova devastazione ambientale. Il messaggio di allarme di quest’ultimi è chiaro: le conseguenze dell’attività mineraria sugli ecosistemi marini rischiano di essere gravi e difficilmente rimediabili.

Tuttavia, la frontiera del deep sea mining, così si chiama tecnicamente questa tecnica estrattiva, appare sempre più vicina. Oggi non sembra più questione di se, ma di quando e come. Ad avere in mano il pallino del gioco è un’organizzazione per lo più oscura ai non addetti ai lavori: l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini (nota come ISA, dall’abbreviazione del nome inglese). Un ente nato per salvaguardare i fondali marini in acque internazionali come bene per l’umanità, ma che oggi deve i fare i conti con accuse crescenti di inadeguatezza e conflitti di interesse.

È lì che le delegazioni dei Paesi membri stanno definendo in questo momento i codici che governeranno il futuro dell’estrazione mineraria. Dal regime di concessioni, al meccanismo di calcolo delle royalties (la percentuale del valore della produzione di idrocarburi pagate dalle compagnie allo Stato), alle considerazioni ambientali. Un processo delicato in cui anche l’Italia – che siede nel Consiglio dell’ISA – vanta un ruolo di peso. Optando per un approccio conservativo, finora il nostro Paese non ha avuto interessi commerciali diretti nel deep sea mining. Ma la paura di rimanere tagliati fuori sta spingendo due giganti dell’industria di Stato, come Saipem e Fincantieri, a tuffarsi in questo mare promettente quanto burrascoso.

Cinquemila leghe sotto i mari

Situata a cavallo tra Hawaii e Messico, in acque internazionali, la faglia di Clarion-Clipperton Zone (CCZ) si estende per 4,5 milioni di chilometri quadrati con profondità che vanno dai 4.000 ai 5.500 metri. Si tratta di una piana abissale che presenta condizioni estreme: quasi totale assenza di luce, temperature vicino allo zero, e una pressione atmosferica 500 volte superiore a quella sulla superficie terrestre.



Un esemplare di Relicanthus sp., specie marina scoperta nel 2013 a 4.100 metri di profondità nella Clarion-Clipperton Zone | Foto: Craig Smith e Diva Amon, ABYSSLINE Project

Un esemplare di “scoiattolo gommato” osservato a 5.100 metri di profondità nella Clarion-Clipperton Zone | Foto: DeepCCZ expedition

Un tempo si pensava che questi fattori rendessero proibitiva l’esistenza di esseri viventi a certe profondità. Ma, una spedizione dopo l’altra, i ricercatori hanno fatto crollare questa credenza. Da una vasta gamma di vermi e anemoni, a crostacei giganti e, persino, curiosi “scoiattoli gommati”, sono numerose le specie che abitano negli abissi. Circa il 90% delle specie animali osservate nel corso di ogni esplorazione nell’area sono inedite.

Infatti, la Clarion-Clipperton Zone – come la maggior parte dei fondali oceanici – rimane uno dei luoghi di cui si ha una conoscenza più limitata sulla Terra. «Tutto quello che sappiamo di questi ambienti corrisponde a una piccolissima porzione di area campionata», spiega a IrpiMedia il professor Roberto Danovaro, presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli e tra i massimi esperti mondiali nella ricerca oceanografica. «Su milioni di chilometri quadrati ad oggi è stato analizzato l’equivalente di due campi di calcio, siamo nell’ordine dello 0,0001%».

Fin dalle spedizioni pionieristiche degli anni ‘70, l’esplorazione dei fondali oceanici corre su un filo delicato dove interessi apparentemente opposti cercano di trovare un punto di equilibrio. Mentre gli scienziati sono intenti a catalogare flora e fauna, le compagnie private e alcuni degli Stati che facilitano questi viaggi sottomarini puntano lo sguardo altrove: sulla distesa di noduli polimetallici che ricoprono i fondali. Le pepite nere imbottite di rame, nichel, manganese e numerosi altri metalli preziosi. Il loro obiettivo è quello di raccoglierle in maniera sistematica, portarle in superficie e dare, quindi, il via a una nuova costola dell’industria estrattiva.

Deep sea mining: opportunità o catastrofe?

Ad oggi questa ambizione non è ancora realtà, ma l’era del deep sea mining sembra avvicinarsi a un ritmo inarrestabile. A spingere forte sull’acceleratore sono startup sorrette da lauti finanziamenti di venture capital, colossi del vecchio settore energetico in cerca di riconversione e alcuni Paesi – come Cina, Giappone e Corea del Sud – che credono di aver fiutato l’affare.

Per i paladini del deep sea mining il discorso è semplice. La transizione energetica richiede enormi quantità di metalli come rame, cobalto, nichel necessari per la produzione di batterie e altre numerose componenti tecnologiche. L’estrazione dalle miniere sulla terraferma causa una serie di problemi, tra cui deforestazioni, emissioni nocive e – come nei giacimenti di cobalto in Congo – lavoro minorile. La raccolta dei noduli dagli oceani – dicono loro – permetterebbe di evitare queste piaghe, garantendo un approvvigionamento di metalli persino superiore. Le aziende citano frequentemente uno studio redatto nel 2012 dalla US Geological Survey, nel quale si stimava che i noduli nell’Oceano Pacifico contengono quantità di nichel, cobalto e manganese maggiori rispetto alla somma di tutte le riserve terrestri di questi metalli.

«La realtà è che il passaggio all’utilizzo di energia pulita non è possibile senza estrarre miliardi di tonnellate di metalli dal pianeta», sostiene Gerard Barron, AD di DeepGreen Metals, tra le aziende private in prima linea sulla frontiera del deep sea mining. «I noduli sottomarini offrono un modo per ridurre sensibilmente il costo ambientale di questa estrazione».

Le tecnologie necessarie per questa attività sono ancora in fase di sperimentazione, ma, a grandi linee, il deep sea mining dovrebbe seguire questo schema. Una flotta di robot controllati a distanza percorre in modo sistematico il fondo dell’Oceano, dragando lo strato superficiale della crosta terrestre e raccogliendo i noduli polimetallici che trova sulla sua strada. Le pepite vengono poi risucchiate da un lunghissimo tubo idraulico (in gergo, riser pipe) collegato direttamente a una nave di supporto in superficie. I macchinari a bordo dell’imbarcazione effettuano le prime operazioni di filtraggio, separando i metalli preziosi dai sedimenti residui. Quest’ultimi vengono infine pompati nuovamente in mare.

Un’animazione del MIT illustra le fasi di un’ipotetica attività di deep sea mining



Per la comunità scientifica il costo ambientale dell’estrazione sarebbe altissimo. Le operazioni di dragaggio provocherebbero un erosione dei fondali tale da annientare qualsiasi forma vivente lì presente. Numerosi organismi costruiscono infatti il proprio habitat intorno ai noduli polimetallici stessi. L’utilizzo di macchinari invasivi andrebbe inoltre a generare livelli di rumore e vibrazione mai visti prima in luoghi normalmente bui e silenziosi.

A destare una preoccupazione persino maggiore sono gli effetti secondari. Primo su tutti, la formazione di “nuvole di sedimenti” sprigionate sia dal lavoro di estrazione che dalla reimmissione dei materiali di scarto nell’oceano. Secondo studi dell’Università delle Hawaii, i residui potrebbero essere trasportati anche a diverse decine o centinaia di chilometri di distanza dal luogo di estrazione, causando effetti simili a quelli dell’inquinamento atmosferico sulla terraferma. Il rilascio di pulviscolo di metalli rischierebbe inoltre di alterare la composizione chimica dell’acqua.

Per gli esperti, come il professor Roberto Danovaro, quella che si configura oggi è «un’attività intrinsecamente distruttiva»

Per gli esperti, come il professor Roberto Danovaro, quella che si configura oggi è «un’attività intrinsecamente distruttiva». «Qualcuno – dice Danovaro – mi deve ancora dimostrare come si possa fare in modo eco-compatibile. Teoricamente – specifica il professore – si dovrebbero raccogliere le pepite una ad una e lasciando una quantità tale di sedimenti da garantire agli organismi un minimo di habitat. Passando con dei bulldozer questo non può esistere».

Un’ulteriore preoccupazione nasce poi dalla forte difficoltà a ripristinare gli ecosistemi marini al termine delle attività estrattive. Le tracce lasciate da alcuni test di dragaggio effettuati nella Clarion-Clipperton Zone nel 1978 erano ancora chiaramente visibili 37 anni più tardi, quando i ricercatori hanno perlustrato nuovamente l’area.

«I meccanismi di compensazione, come il restauro ecologico, hanno dei costi che sono pari o superiori al guadagno previsto dallo sfruttamento dei noduli», aggiunge Danovaro. «Inoltre, anche spendendo queste somme non c’è la certezza di poter recuperare quanto distrutto».

fonte: irpimedia.irpi.eu


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