Sull’inceneritore di Copenaghen i dati raccontano un’altra storia

 


L’impianto con pista da sci di Amager Bakke è moderno e dotato di tecnologie all’avanguardia, ma condanna la Danimarca a importare rifiuti dall’estero per alimentarlo. Così il governo fa retromarcia e annuncia: entro il 2030 capacità di incenerimento ridotta del 30 per cento e stop all’import

Piuttosto che all’inceneritore “con pista da sci” di Copenaghen, si dovrebbe guardare alla Danimarca per ciò che è successo nella piccola isola di Bornholm. Qui era necessario rimodernare il vecchio inceneritore ma, invece di cominciare i lavori, nel 2019 il Comune ha scelto la strada di avviarne la dismissione entro il 2032 per accelerare le politiche verso l’obiettivo “rifiuti zero”. Non si può certo paragonare un’isola con un’area di 589 chilometri quadrati e 40mila abitanti con una capitale europea dove vivono oltre 600mila persone in 180 chilometri quadrati, né il più piccolo dei 23 inceneritori danesi si può confrontare con l’enorme struttura di Amager Bakke: 41mila metri quadrati di estensione, alto 123 metri, l’ormai celebre impianto inaugurato nel 2017 a pochi chilometri dal Ponte di Øresund tratta 560mila tonnellate di rifiuti ogni anno.

La chiusura del piccolo inceneritore di Bornholm, però, si inserisce in un contesto più ampio di riflessione del Paese sulle sue politiche energetiche e soprattutto climatiche. Già da alcuni anni, a leggere le notizie dei quotidiani danesi sull’inceneritore di Amager Bakke, la scelta di puntare sull’incenerimento non si è rivelata così vincente come viene da più parti raccontata. Anche senza scomodare la rispondenza con la gerarchia europea dei rifiuti, ci sono dei problemi oggettivi.

E se forse è eccessivo parlare di “fiasco” come fa Zero Waste Europe, non siamo neppure di fronte a un esempio virtuoso da imitare. Anzi, l’impianto di incenerimento con recupero di energia e pista da sci da quasi 10 milioni di euro può offrire alcune lezioni utili, visto che il quantitativo di rifiuti trattati annualmente è simile a quello che il sindaco Roberto Gualtieri vuole realizzare a Roma. Dove, è vero, vivono molte più persone, ma si tratta di oltre un terzo dei rifiuti urbani prodotti ogni anno nella Capitale. E la raccolta differenziata fatica comunque a decollare.

L’inceneritore di Copenaghen? Il Comune lo voleva più piccolo

Tanto per cominciare, la progettazione stessa dell’inceneritore di Copenaghen è stata abbastanza controversa. Perché si tratta di un impianto troppo grande. A rendersene conto era stato lo stesso comune di Copenaghen, che dapprima nel 2012 rifiutò il prestito da 534 milioni di euro per la costruzione e poi chiese un aggiornamento del progetto per un impianto più piccolo. Il timore era di dare un segnale poco virtuoso alla cittadinanza: bruciare invece di riciclare.

Ma erano in ballo investimenti milionari e la società che si occupava del progetto si oppose alla modifica. Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, a sbloccare l’impasse fu l’intervento del governo. Sebbene venisse confermata la capacità di trattare 560mila tonnellate di rifiuti, l’accordo che diede il via ai lavori prevedeva il divieto per Amare Bakke di importare rifiuti aggiuntivi a quelli prodotti dalla capitale danese. Nel 2016, però, prima ancora dell’inaugurazione, quel limite è stato rimosso. Attualmente l’inceneritore di Copenaghen brucia anche biomasse in un impianto aggiunto in corso d’opera alle due linee inizialmente previste. Amager Bakke, si legge del rapporto consuntivo del 2020 del gestore ARC, nell’anno in esame ha utilizzato circa 599mila tonnellate di rifiuti come combustibile. Di queste, circa 160mila tonnellate sono biomasse, 57mila tonnellate sono rifiuti importati dall’estero (principalmente il Regno Unito: nel 2018 erano quasi la metà, 30mila tonnellate) e ottomila da altri comuni della Danimarca.

Senza queste “integrazioni” i conti della proprietà non tornerebbero e Amager Bakke rischierebbe il fallimento. Un problema che riguarda almeno un terzo degli impianti di incenerimento danesi, che devono reperire rifiuti fuori dal territorio di riferimento. Il fenomeno si è esteso al punto che nel periodo estivo l’inceneritore di Copenaghen non può lavorare al massimo della sua capacità per non sottrarre combustibile agli altri impianti.

Importare rifiuti per far quadrare i conti

L’importazione di rifiuti da incenerire è una costante degli ultimi anni. E Amager Bakke lo fa dal suo primo anno di funzionamento a regime. Nel 2017 sono state bruciate nei forni dell’inceneritore 354mila tonnellate di rifiuti e 3mila tonnellate di biomasse. Nel 2018 rispettivamente 404mila e 39mila tonnellate (totale: 443mila). Nel 2019 le biomasse sono quasi raddoppiate arrivando a 74mila tonnellate, mentre i rifiuti sono rimasti stabili a 403mila (totale: 477mila tonnellate). Per arrivare alle 439mila tonnellate di rifiuti e 160mila di biomasse e un totale di 599mila tonnellate nel 2020. Il flusso, in media, è di circa 250-300 camion che entrano ogni giorno nell’impianto carichi di rifiuti.

Fonte: Elaborazione EconomiaCircolare.com su dati Rapporto rifiuti 2019 – Danimarca

La progressione dell’import dà man forte agli ambientalisti nell’affermare che, una volta avviati, gli inceneritori hanno un bisogno crescente di rifiuti, fino ad arrivare alla massima capacità di trattamento. E la ragione, come è accennato, è la necessità di massimizzare il rientro degli elevati investimenti iniziali e dei costi di gestione altrettanto sostenuti. Quella che appariva come una situazione “win-win” – utilizzare i rifiuti urbani di Copenaghen non differenziati per fornire energia a 90mila appartamenti e 80mila famiglie (i dati sono sul sito di Amager Bakke, non si capisce come mai ovunque su riviste italiane si trovi il doppio, 150mila) – rischia di trasformarsi per in un patto faustiano. Più energia in cambio di più rifiuti.

Una tendenza, dicevamo, confermata anche a livello nazionale. Nella contea della Selandia Occidentale, a Ovest della Capitale, l’azienda che si occupa della gestione dei rifiuti, la AffaldPlus, ha registrato dal 2014 un balzo nell’import. Nel 2014 erano 10mila tonnellate, sono 57mila quelle previste nel 2022: 21 navi da 2.300 tonnellate di rifiuti, in arrivo da Regno Unito e, in misura minore, Germania.

In tutta la Danimarca, le 364mila tonnellate importate nel 2016 sono diventate un milione e duecentomila nel 2019, anno in cui sono disponibili gli ultimi dati ufficiali. E la metà va a finire nel recupero energetico. Parte di questi rifiuti arriva anche dall’Italia, sebbene il trend negli anni si sia invertito: nel 2015 erano il 18% dell’import totale danese, nel 2019 sono  scesi al 5.


Fonte: Elaborazione EconomiaCircolare.com su dati Rapporto rifiuti 2019 – Danimarca

Troppi rifiuti

La china è pericolosa e il governo danese ne è consapevole. “La Danimarca – ammette il governo – è tra le nazioni europee a produrre più immondizia per abitante: circa 800 chili di rifiuti urbani all’anno, ben al di sopra della media europea di 490 chili”. E se è vero che il ricorso alla discarica è limitato al 3%, il tasso di riciclo è ancora al 44%. Con gli inceneritori nel mezzo a risolvere, per così dire, un problema, ma creandone contemporaneamente un altro: quello del grande contributo di emissioni di gas serra che questi impianti danno al bilancio nazionale.

Attualmente il Paese brucia il 29% dei rifiuti domestici prodotti in Danimarca, e questo dà un contributo significativo al suo sforamento dei target europei di emissioni. La sovracapacità degli inceneritori danesi è stimata intorno alle 700mila tonnellate, ragion per cui tra le misure contenute nel Piano Climatico 2020 della Danimarca c’è “una riduzione entro il 2030 del 30% della capacità di incenerimento”, che arriva all’80% per la plastica.

Fonte: Elaborazione EconomiaCircolare.com su dati Piano climatico 2020 – Danimarca


Il primo passo sarà, ovviamente, ridurre il flusso dei rifiuti provenienti dall’estero. AffaldPlus ha individuato il 2024 come data per lo stop, ma fino a quel momento le importazioni aumenteranno. E intanto la società che gestisce l’inceneritore di Copenaghen, nel suo rapporto annuale, ha addirittura affermato che il piano del governo causerà “maggior incertezza per l’economia dei termovalorizzatori e quindi per i Comuni proprietari dell’investimento”. Pressioni che hanno il sapore del ricatto: chi ha finanziato l’impianto e finora si è assicurato di massimizzare i profitti arrivando anche a importare i rifiuti ora teme una drastica flessione degli affari.

La moderna tecnologia non è esente da guasti

C’era da aspettarselo, anche perché oltre agli investimenti da centinaia di milioni di euro e agli altissimi costi di gestione ordinaria, questi impianti devono fare letteralmente i conti anche con guasti e imprevisti. Che non sono così rari come ci si aspetterebbe da un inceneritore di ultima generazione, con le migliori tecnologie a disposizione. Perché a livello tecnico Amager Bakke è tra i più moderni in circolazione, su questo non c’è dubbio.

L’inceneritore, spiega il Centro Studi MatER del Politecnico di Milano, ha due caldaie a grata, ciascuna di capacità pari a 35 Tonnellate l’ora e carico termico nominale di 112 Megawatt, due linee di depurazione fumi a umido con condensazione del vapore acqueo e una turbina da 67 Megawatt elettrici. È capace di utilizzare più del 99% dell’energia dei rifiuti che lo alimentano, anche grazie a un sistema di recupero del calore di condensazione del vapore dei fumi. Per ogni tonnellata di rifiuti, Amager Bakke produce 2,7 Megawattora (MWh) di teleriscaldamento e 0,8 MWh di elettricità.

Eppure, una delle due linee del forno a fine aprile è andata fuori uso per lo scoppio di un incendio nella sala dei pistoni idraulici che spingono i rifiuti nella stufa. L’incidente costerà tra gli 8 e i 10 milioni di euro e purtroppo vanta dei precedenti. Nel 2017 l’inceneritore è stato spento per quattordici giorni dopo la scoperta di un errore di progettazione che impediva di gestire i cambi di temperatura durante il processo di combustione. Anche in quel caso, ritardi e perdite per milioni di euro.

Fortunatamente gli incidenti non hanno causato danni alla popolazione, come è accaduto nella vicina Olanda, quando nel 2015 un guasto nell’altrettanto moderno inceneritore di Harlingen ha sprigionato una nube di fumo nero. In quell’occasione, i rilievi compiuti da Toxico Watch e Zero Waste Europe riscontrarono nei dintorni tracce maggiori di diossine nelle uova delle galline. Le due associazioni ambientaliste hanno realizzato studi simili su uova, muschi e aghi di pino anche vicino ad alcuni inceneritori di ultima generazione in Francia, Repubblica Ceca, Spagna e Lituania. Con gli stessi risultati. Se non è una pistola fumante, sicuramente è uno stimolo alla riflessione.

Cosa sappiamo delle emissioni dell’inceneritore di Copenaghen

Per il trattamento dei gas emessi, l’inceneritore di Copenaghen ha un filtro elettrostatico a 270°C, un sistema SCR (Selective Catalyst Reduction) front-end e low-dust con catalizzatore triplo per abbattere le emissioni inquinanti NOx (i famigerati ossidi di azoto prodotti dalla combustione), uno scrubber (cioè una sorta di torre di lavaggio dei fumi per abbattere polveri e inquinanti) e un sistema di condensazione del vapore acqueo. Sistemi di filtraggio come questi dovrebbero essere efficaci. Tuttavia, secondo le associazioni ambientaliste, sono le norme a essere troppo permissive e a non considerare tutte le tipologie di particelle e diossine emesse. In media, secondo il “Libro bianco” redatto dal gruppo di lavoro dei Politecnici di Milano e Torino, negli impianti di recente concezione, sono lo 0,03% di Pm10, lo 0,007% di idrocarburi policiclici aromatici e lo 0,2% di diossine e furani.

Concentrazioni molto più basse rispetto alle combustioni commerciali e residenziali, ma non si può tuttavia affermare che “dagli impianti di Amager Bakke escono solo vapori”, come sostiene il gestore ARC. E se consideriamo tutte le emissioni di CO2 legate al trattamento dei rifiuti, sono il 4,9 per cento delle emissioni totali della Danimarca e “la maggior parte provengono dall’incenerimento, nella misura di 1 milione e trecentomila tonnellate di CO2 all’anno”, ammette il governo nel già citato Piano climatico.

Le scorie

C’è, infine, da considerare il tema delle scorie e ceneri prodotte dagli inceneritori: il 17-20% dei rifiuti bruciati, spiega la stessa ditta ARC, è composto da ceneri, ghiaia, sabbia, metalli e altri materiali che non possono bruciare. Le scorie sono raccolte e con un sistema all’avanguardia si riesce a recuperare fino al 90% dei metalli. Per ogni 200 chilogrammo di scorie, possono essere riciclati 10-15 kg di metallo. Una volta estratti i metalli, ciò che rimane è la frazione non recuperabile delle ceneri pesanti e dei residui di depurazione dei fumi.

Una parte delle ceneri può essere utilizzata come componente per il manto stradale o per altri usi nel campo delle costruzioni. La Danimarca riesce a riutilizzare gran parte delle ceneri, mentre secondo alcune ricerche si potrebbe fare meglio con quelle volanti che restano intrappolate nei filtri. Tuttavia, appare quantomeno generoso sostenere sia una forma di economia circolare partire da materiali spesso riciclabili per arrivare a polveri da mescolare nei manti stradali.

economiacircolare.com


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