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L’Europa rinuncia a bloccare pesticidi vietati negli alimenti importati

 

Pan Europe, la principale Ong europea impegnata per un’agricoltura e per un’alimentazione libere da pesticidi, denuncia l’inerzia del Consiglio dell’Unione europea che di fatto continua a tollerare la presenza di fitofarmaci vietati in Europa ma presenti nei cibi importati da paesi extracomunitari.

“Il Consiglio della Ue – composto dai ministri competenti degli Stati membri, ndr – non sta rispettando la promessa di eliminare le tolleranze di residui di pesticidi vietati da noi ma presenti nei cibi importati da paesi extracomunitari”, ha denunciato in una nota Salomé Roynel attivista di Pan Europe.

Secondo un’indagine svolta dalla Ong nel 2020, ben 74 pesticidi, il cui uso è stato vietato nell’Unione europea a causa di problemi di salute e ambientali, sono stati trovati come residui in 5.811 campioni di alimenti. E l’anno scorso la Commisione europea aveva dichiarato di impegnarsi per eliminare le tolleranze di residui nei cibi importati. In questi giorni invece è arrivata la doccia gelata del Consiglio della Ue, ovvero degli Stati membri che hanno rifiutato di dare seguito alle aperture della Commissione.

“Condanniamo fermamente questo passo indietro del Consiglio, che non può essere giustificato da alcun motivo valido, inclusa la conformità dell’Omc (l’Organizzazione comune dei mercati, ndr). Questo è tanto più inaccettabile in quanto nessuno Stato membro si era finora opposto a questa revisione delle tolleranze all’importazione durante le discussioni del Consiglio durante la presidenza tedesca”, ha puntualizzato Roynel.

“Abbiamo analizzato i singoli commenti degli Stati membri su questo punto grazie a una richiesta di accesso ai documenti – ha proseguito – ed è emerso che nessuno Stato membro ha espresso in passato opposizione esplicita alla revisione di queste tolleranze all’importazione. Alcuni hanno sostenuto questo approccio apertamente (Austria, Danimarca, Francia, Paesi Bassi e Svezia), mentre altri non hanno commentato affatto”. La Ong chiede pertanto alla presidenza di turno – il Portogallo – di fare chiarezza su questo dietrofront che penalizzata i consumatori e l’ambiente europeo.

fonte: ilsalvagente.it


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Il divieto di importare plastica in Cina ci riempirà di rifiuti

Gli scienziati calcolano l'impatto del divieto cinese sulle importazioni di rifiuti di plastica. Grossi problemi per l’Ue, colossali per gli Usa, ma Trump se ne frega



















Mentre il riciclo è spesso considerato la soluzione alla produzione su larga scala di rifiuti di plastica, al contempo si tratta di operazioni che a quanto pare amiamo veder concretizzare non nel nostro giardino: ad oggi più della metà dei rifiuti di plastica destinati al riciclaggio viene esportata dai Paesi a più alto reddito verso altri Paesi, con la Cina che storicamente ne importava la quota maggiore. Ma nel 2017, la Cina ha approvato la politica  della “National Sword” che, a partire dallo scorso gennaio, vieta in maniera permanentemente l’importazione di molti rifiuti plastici.

Ora, lo studio studio “The Chinese import ban and its impact on global plastic waste trade” pubblicato su Science Advances  da Amy Brooks, Shunli Wang e Jenna Jambeck del College of Engineering, New Materials Institute dell’Università della Georgia, ha calcolato il potenziale impatto globale del bando cinese sull’importazione dei rifiuti plastici, e come questo potrebbe influenzare gli sforzi per ridurre la quantità di rifiuti di plastica che entrano nelle discariche o – molto peggio – nell’ambiente naturale in tutto il  mondo.

La Jambeck spiega: «Dai nostri studi precedenti, sappiamo che solo il 9% di tutta la plastica prodotta è stata riciclata, e la maggior parte finisce nelle discariche o nell’ambiente naturale. A causa del divieto di importazione, nel 2030 circa 111 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica finiranno da un’altra parte, quindi, se vogliamo trattare questa spazzatura responsabilmente, dovremo sviluppare programmi di riciclaggio più robusti a livello nazionale e ripensare l’utilizzo e la progettazione di prodotti in plastica».

Dal 1993 le importazioni e le esportazioni annuali globali di rifiuti di plastica sono salite alle stelle, con una crescita di circa l’800% al 2016. All’Università della Georgia sottolineano che «da quando è iniziato il reporting nel 1992, la Cina ha accettato circa 106 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, che rappresentano quasi la metà delle importazioni mondiali di rifiuti di plastica. La Cina e Hong Kong hanno importato più del 72% di tutti i rifiuti di plastica, ma la maggior parte dei rifiuti che entra a Hong Kong – circa il 63% – viene esportata in Cina. I Paesi ad alto reddito dell’Europa, dell’Asia e delle Americhe rappresentano oltre l’85% di tutte le esportazioni mondiali di rifiuti di plastica. Considerata collettivamente, l’Unione europea è il principale esportatore».

La Brooks, principale autrice dello studio, ricorda che «i rifiuti di plastica una volta erano un business abbastanza redditizio per la Cina, perché poteva usare o rivendere i rifiuti una volta riciclati. Ma molta della plastica che la Cina ha ricevuto negli ultimi anni era di scarsa qualità  ed è diventato difficile ricavarne un profitto. La Cina produce anche più rifiuti di plastica a livello nazionale, quindi non può fare affidamento sulle altre nazioni per i rifiuti. Per gli esportatori, la lavorazione a buon mercato in Cina voleva dire che esportare rifiuti all’estero era meno costoso rispetto al trasporto nazionale dei materiali via camion o ferrovia».

La Jambeck  aggiunge: «E’ difficile prevedere cosa accadrà ai rifiuti di plastica che un tempo erano destinati agli impianti di lavorazione cinesi. Alcuni potrebbero essere dirottati verso altri Paesi, ma la maggior parte non ha le infrastrutture per gestire i propri rifiuti e tanto meno i rifiuti prodotti dal resto del mondo». Insomma, il divieto cinese potrebbe far saltare l’intera filiera mondiale di raccolta e riciclo delle plastiche, e rendere davvero difficili mantenere gli impegni a ridurre l’impatto dei rifiuti in plastica sull’ambiente, in particolare su quello marino che soffre particolarmente proprio per la già inefficace gestione dei rifiuti a terra.

A pagare il prezzo più alto potrebbero essere proprio gli Usa di Donald Trump che hanno dichiarato guerra commerciale alla Cina (e all’Europa, al Canada e al Messico…). Stati come il Massachusetts e l’Oregon potrebbero vedersi costretti a togliere il divieto di scaricare plastica nelle discariche, e in molte città statunitensi i programmi di riciclaggio potrebbero andare in tilt, Come ha detto a WaPo Ben Harvey, presidente di EL Harvey Sons Recycling Services a Westborough, Massachussets: «Se non c’è posto per questa roba, qual è il senso di differenziarla? Riguarderemo i programmi e dovremo dire perché la stiamo raccogliendo, non è più una merce. E’ una cosa enorme. E’ una cosa spaventosa».

Il divieto cinese riguarda la plastica potenzialmente contaminata, come vasetti di maionese non lavati o bottiglie di plastica non più integre, ma la Cina consente ancora di importare balle di plastica con meno dello 0,5% di contaminazione per avviarle a riciclo. Per esempio, la compagnia che si occupa dei rifiuti di plastica di San Francisco ha rallentato la linea di selezione del suo impianto per abbassare il livello di contaminazione da circa il 5% a meno dell’1%, consentendo alla metropoli californiana di continuare a inviare le sue bottiglie oltreoceano. Ma, come fa notare Ellen Airhart su  Wired «non tutti i gestori locali di rifiuti hanno la capacità o il denaro per ridurre i loro livelli di contaminazione».

E la Jambeck conferma che non ci sono nemmeno alternative ragionevoli per esportare la spazzatura di plastica: «Non c’è davvero un altro grande hub principale in cui possa andare il materiale. Alcune nazioni come Vietnam, Thailandia e Malaysia riciclano la plastica, ma non hanno le infrastrutture necessarie per sostenere il carico precedente della Cina. Non esiste un altro Paese che abbia la capacità che aveva la Cina per poter prendere il materiale».

La National Recycling Coalition Usa ha dichiarato che «l’industria deve cambiare radicalmente il modo in cui comunica con l’opinione pubblica e come raccoglie e tratta i materiali riciclabili». La direttrice della coalizione,  Marjorie Griek ha detto: «Dobbiamo guardare ai nuovi utilizzi di questi materiali. E a come fare in modo che i produttori progettino un prodotto che sia più facilmente riciclabile».

La Brooks ha detto alla Airhart di sperare che la comunità internazionale presti attenzione allo studio dell’Università della Georgia: «Il mio sogno sarebbe che questo sia un campanello di allarme abbastanza forte da portare ad accordi internazionali per regolamentare le materie plastiche usa e getta».

Secondo lo Smithsonian Magazine, ci sono alcuni segnali che le nazioni di tutto il mondo stanno iniziando a prendere in considerazione gli impatti della plastica monouso: recentemente, l’India ha annunciato un piano per vietare la plastica monouso entro il 2022 e un recente rapporto Onu dimostra che 50 nazioni in tutto il mondo stanno facendo sforzi per vietare sacchetti di plastica, il polistirolo e altri oggetti non biodegradabili. Anche la Gran Bretagna ha recentemente annunciato un divieto per la plastica monouso e probabilmente nel 2019 eliminerà cose come cannucce di plastica e cotton fioc.

Ma ancora una volta sono il Paese sviluppato che produce ed esporta più plastica – e che probabilmente la gestisce peggio –, ovvero gli  Stati Uniti, continua a non assumere il ruolo guida che gli spetterebbe e, come succede per le emissioni di gas serra e le politiche climatiche, ancora una volta sono le città a sostituirsi all’inerzia del governo federale: in molte a hanno vietato o tassato i sacchetti di plastica, alcune stanno pensando di vietare le cannucce. E mentre Trump e il suo governo di eco-scettici se ne fregano, l’opinione pubblica sta diventando così sensibile al tema che anche un gigante del fast food come McDonald’s ha deciso di testare le alternative alle cannucce di plastica entro la fine dell’anno, anche se i suoi azionisti non sono molto entusiasti dell’idea.

La strada in teoria appara dunque tracciata: demonizzare la plastica non è utile, occorre piuttosto limitarne drasticamente gli usi impropri – ad esempio nel dilagante impiego di imballaggi monouso – e realizzare nel territorio di ogni Paese (secondo logica di sostenibilità e prossimità) i necessari impianti di riciclo per gestire i rimanenti flussi di materia, incoraggiando poi la diffusione sul mercato delle relative materie prime seconde attraverso adeguati incentivi economici. Peccato che tra il dire e il fare la strada appaia ancora molto, molto lunga.

fonte: www.greenreport.it

La Cina blocca le importazioni di plastica da riciclare, siamo ufficialmente nei guai













Si sapeva da un pezzo, ma la cosa è venuta fuori sui giornali solo adesso. L’anno scorso, a luglio, la Cina aveva detto chiaramente che avrebbe bloccato l’importazione di plastica da rifiuti dall’Europa a partire dal 2018. Lo ha detto e lo ha fatto. Ufficiosamente, si sa che l’Unione europea ha cercato in tutti i modi di convincere i cinesi a rimangiarsi la loro decisione. Si sa anche che i cinesi hanno risposto gentilmente che andassero a stendere. In effetti, non si vede perché i cinesi dovrebbero prendersi all’anima di gestire i rifiuti dell’Europa. Hanno già i loro che gli danno abbastanza problemi. Se avete un momento, guardatevi il trailer di Plastic China e capirete cosa intendo dire per “problemi” (incidentalmente, questo vale non solo per la plastica, ma per tanti altri tipi di rifiuti dove la Cina si sta muovendo per cessare di essere la pattumiera del mondooccidentale).

Così, siamo ufficialmente alla crisi: la plastica di scarto si accumula e non sappiamo cosa farne. E’ un problema che viene fuori in tutta Europa. In Italia, ci siamo spesso vantati della nostra capacità di fare raccolta differenziata, per certi versi superiore a quella di altri paesi europei. Ma quando si parla di raccolta differenziata, ci si dimentica quasi sempre di dire che non è la stessa cosa di riciclo dei rifiuti. Se il differenziato non va a un impianto che lo rimette in circolo come “materia seconda” allora siamo soltanto a dare una spennellatura di verde a una cosa che verde non è. E, putroppo, mandare i rifiuti in Cina non è la stessa cosa di riciclarli: se ne ricicla, si, una frazione, ma non tutto e la grande massa viene bruciata o buttata in discarica producendo problemi ambientali spaventosi.

E ora? Siamo all’emergenza. L’Europa cerca disperatamente di correre ai ripari con una serie di misure. Trovate i dettagli al comunicato stampa dell’Unione europea. Si parla di misure restrittive per le plastiche usa-e-getta, di misure contro l’”iperimballaggio”, obbligo di usare plastiche biodegradabili e altre cose. Sono misure complessivamente intelligenti, ma con diversi problemi. Il principale è che arrivano ora, quando il disastro è ormai in pieno sviluppo. E’ una “direttiva” dell’Unione europea che dovrà poi essere trasferita nelle legislazioni nazionali, e questo richiederà tempo. Poi, non sono veramente misure drastiche – ci voleva qualcosa di più, per esempio una seria tassa sugli imballaggi. Ma si è visto recentemente che queste misure sono quasi impossibili in certi paesi dove la gente vuole allo stesso tempo l’aria pulita e i sacchetti di plastica gratis.
In ogni caso, se vogliamo vedere la cosa in modo positivo, è una buona occasione per fare delle pulizie molto necessarie a casa nostra. E’ anche una buona occasione per smetterla con misure cosmetiche che servono soltanto a metterci in grado di farci reciproche congratulazioni per quanto siamo bravi: la raccolta differenziata da sola non basta. Ma se vogliamo fare qualcosa di serio per andare verso l’economia circolare, qualcuno dovrà anche dire pubblicamente che è una direzione che implica dei costi. Non si va in nessun posto se non si riducono drasticamente i consumi di plastica e nemmeno se si fa un caso nazionale di una tassa di 2 centesimi al sacchetto.
Se vogliamo vedere la cosa in modo negativo, invece, ci sarà senza dubbio qualcuno che utilizzerà questa disgraziata vicenda come una buona scusa per spingere di nuovo sugli inceneritori e al diavolo la salute della popolazione e la necessità di riciclare e risparmiare sulle materie prime. Aspettatevelo a breve scadenza. E così vanno le cose in un mondo in cui non si riesce a fare nulla se non sotto la spinta delle emergenze.
Ugo Bardi
fonte: www.ilfattoquotidiano.it