Il divieto di importare plastica in Cina ci riempirà di rifiuti
Gli scienziati calcolano l'impatto del divieto cinese sulle importazioni
di rifiuti di plastica. Grossi problemi per l’Ue, colossali per gli
Usa, ma Trump se ne frega
Mentre il riciclo è spesso considerato la soluzione alla produzione su
larga scala di rifiuti di plastica, al contempo si tratta di operazioni
che a quanto pare amiamo veder concretizzare non nel nostro giardino: ad
oggi più della metà dei rifiuti di plastica destinati al riciclaggio
viene esportata dai Paesi a più alto reddito verso altri Paesi, con la
Cina che storicamente ne importava la quota maggiore. Ma nel 2017, la
Cina ha approvato la politica della “National Sword” che, a partire
dallo scorso gennaio, vieta in maniera permanentemente l’importazione di
molti rifiuti plastici.
Ora,
lo studio studio “The Chinese import ban and its impact on global
plastic waste trade” pubblicato su Science Advances da Amy Brooks,
Shunli Wang e Jenna Jambeck del College of Engineering, New Materials
Institute dell’Università della Georgia, ha calcolato il potenziale
impatto globale del bando cinese sull’importazione dei rifiuti plastici,
e come questo potrebbe influenzare gli sforzi per ridurre la quantità
di rifiuti di plastica che entrano nelle discariche o – molto peggio –
nell’ambiente naturale in tutto il mondo.
La
Jambeck spiega: «Dai nostri studi precedenti, sappiamo che solo il 9%
di tutta la plastica prodotta è stata riciclata, e la maggior parte
finisce nelle discariche o nell’ambiente naturale. A causa del divieto
di importazione, nel 2030 circa 111 milioni di tonnellate di rifiuti di
plastica finiranno da un’altra parte, quindi, se vogliamo trattare
questa spazzatura responsabilmente, dovremo sviluppare programmi di
riciclaggio più robusti a livello nazionale e ripensare l’utilizzo e la
progettazione di prodotti in plastica».
Dal
1993 le importazioni e le esportazioni annuali globali di rifiuti di
plastica sono salite alle stelle, con una crescita di circa l’800% al
2016. All’Università della Georgia sottolineano che «da quando è
iniziato il reporting nel 1992, la Cina ha accettato circa 106 milioni
di tonnellate di rifiuti di plastica, che rappresentano quasi la metà
delle importazioni mondiali di rifiuti di plastica. La Cina e Hong Kong
hanno importato più del 72% di tutti i rifiuti di plastica, ma la
maggior parte dei rifiuti che entra a Hong Kong – circa il 63% – viene
esportata in Cina. I Paesi ad alto reddito dell’Europa, dell’Asia e
delle Americhe rappresentano oltre l’85% di tutte le esportazioni
mondiali di rifiuti di plastica. Considerata collettivamente, l’Unione
europea è il principale esportatore».
La
Brooks, principale autrice dello studio, ricorda che «i rifiuti di
plastica una volta erano un business abbastanza redditizio per la Cina,
perché poteva usare o rivendere i rifiuti una volta riciclati. Ma molta
della plastica che la Cina ha ricevuto negli ultimi anni era di scarsa
qualità ed è diventato difficile ricavarne un profitto. La Cina produce
anche più rifiuti di plastica a livello nazionale, quindi non può fare
affidamento sulle altre nazioni per i rifiuti. Per gli esportatori, la
lavorazione a buon mercato in Cina voleva dire che esportare rifiuti
all’estero era meno costoso rispetto al trasporto nazionale dei
materiali via camion o ferrovia».
La
Jambeck aggiunge: «E’ difficile prevedere cosa accadrà ai rifiuti di
plastica che un tempo erano destinati agli impianti di lavorazione
cinesi. Alcuni potrebbero essere dirottati verso altri Paesi, ma la
maggior parte non ha le infrastrutture per gestire i propri rifiuti e
tanto meno i rifiuti prodotti dal resto del mondo». Insomma, il divieto
cinese potrebbe far saltare l’intera filiera mondiale di raccolta e
riciclo delle plastiche, e rendere davvero difficili mantenere gli
impegni a ridurre l’impatto dei rifiuti in plastica sull’ambiente, in
particolare su quello marino che soffre particolarmente proprio per la
già inefficace gestione dei rifiuti a terra.
A
pagare il prezzo più alto potrebbero essere proprio gli Usa di Donald
Trump che hanno dichiarato guerra commerciale alla Cina (e all’Europa,
al Canada e al Messico…). Stati come il Massachusetts e l’Oregon
potrebbero vedersi costretti a togliere il divieto di scaricare plastica
nelle discariche, e in molte città statunitensi i programmi di
riciclaggio potrebbero andare in tilt, Come ha detto a WaPo Ben Harvey,
presidente di EL Harvey Sons Recycling Services a Westborough,
Massachussets: «Se non c’è posto per questa roba, qual è il senso di
differenziarla? Riguarderemo i programmi e dovremo dire perché la stiamo
raccogliendo, non è più una merce. E’ una cosa enorme. E’ una cosa
spaventosa».
Il
divieto cinese riguarda la plastica potenzialmente contaminata, come
vasetti di maionese non lavati o bottiglie di plastica non più integre,
ma la Cina consente ancora di importare balle di plastica con meno dello
0,5% di contaminazione per avviarle a riciclo. Per esempio, la
compagnia che si occupa dei rifiuti di plastica di San Francisco ha
rallentato la linea di selezione del suo impianto per abbassare il
livello di contaminazione da circa il 5% a meno dell’1%, consentendo
alla metropoli californiana di continuare a inviare le sue bottiglie
oltreoceano. Ma, come fa notare Ellen Airhart su Wired «non tutti i
gestori locali di rifiuti hanno la capacità o il denaro per ridurre i
loro livelli di contaminazione».
E
la Jambeck conferma che non ci sono nemmeno alternative ragionevoli per
esportare la spazzatura di plastica: «Non c’è davvero un altro grande
hub principale in cui possa andare il materiale. Alcune nazioni come
Vietnam, Thailandia e Malaysia riciclano la plastica, ma non hanno le
infrastrutture necessarie per sostenere il carico precedente della Cina.
Non esiste un altro Paese che abbia la capacità che aveva la Cina per
poter prendere il materiale».
La
National Recycling Coalition Usa ha dichiarato che «l’industria deve
cambiare radicalmente il modo in cui comunica con l’opinione pubblica e
come raccoglie e tratta i materiali riciclabili». La direttrice della
coalizione, Marjorie Griek ha detto: «Dobbiamo guardare ai nuovi
utilizzi di questi materiali. E a come fare in modo che i produttori
progettino un prodotto che sia più facilmente riciclabile».
La
Brooks ha detto alla Airhart di sperare che la comunità internazionale
presti attenzione allo studio dell’Università della Georgia: «Il mio
sogno sarebbe che questo sia un campanello di allarme abbastanza forte
da portare ad accordi internazionali per regolamentare le materie
plastiche usa e getta».
Secondo
lo Smithsonian Magazine, ci sono alcuni segnali che le nazioni di tutto
il mondo stanno iniziando a prendere in considerazione gli impatti
della plastica monouso: recentemente, l’India ha annunciato un piano per
vietare la plastica monouso entro il 2022 e un recente rapporto Onu
dimostra che 50 nazioni in tutto il mondo stanno facendo sforzi per
vietare sacchetti di plastica, il polistirolo e altri oggetti non
biodegradabili. Anche la Gran Bretagna ha recentemente annunciato un
divieto per la plastica monouso e probabilmente nel 2019 eliminerà cose
come cannucce di plastica e cotton fioc.
Ma
ancora una volta sono il Paese sviluppato che produce ed esporta più
plastica – e che probabilmente la gestisce peggio –, ovvero gli Stati
Uniti, continua a non assumere il ruolo guida che gli spetterebbe e,
come succede per le emissioni di gas serra e le politiche climatiche,
ancora una volta sono le città a sostituirsi all’inerzia del governo
federale: in molte a hanno vietato o tassato i sacchetti di plastica,
alcune stanno pensando di vietare le cannucce. E mentre Trump e il suo
governo di eco-scettici se ne fregano, l’opinione pubblica sta
diventando così sensibile al tema che anche un gigante del fast food
come McDonald’s ha deciso di testare le alternative alle cannucce di
plastica entro la fine dell’anno, anche se i suoi azionisti non sono
molto entusiasti dell’idea.
La
strada in teoria appara dunque tracciata: demonizzare la plastica non è
utile, occorre piuttosto limitarne drasticamente gli usi impropri – ad
esempio nel dilagante impiego di imballaggi monouso – e realizzare nel
territorio di ogni Paese (secondo logica di sostenibilità e prossimità) i
necessari impianti di riciclo per gestire i rimanenti flussi di
materia, incoraggiando poi la diffusione sul mercato delle relative
materie prime seconde attraverso adeguati incentivi economici. Peccato
che tra il dire e il fare la strada appaia ancora molto, molto lunga.
fonte: www.greenreport.it