Siamo sicuri che anche il circuito più virtuoso dei processi economici, rappresentato oggi dall’economia circolare, tenga conto della necessità di ridare agli oggetti un’anima? Don Tonino Bello colse l’occasione di un incontro con i giovani ad Assisi nel lontano 1987 sul tema “gratuità e condivisione nella società usa e getta” per intavolare una straordinaria riflessione dal tono colloquiale con San Giuseppe. Sono pagine di un grande splendore e di una straordinaria attualità. “Ormai non si ripara più nulla” evidenzia don Tonino. Oppure: “Altro che usa e getta, valicando davvero ogni limite, avete invertito la fase in ‘getta e usa’”.
La bottega delle carezze. Usare gli oggetti, non consumarli
Il colloquio immaginario avviene nella bottega dello sposo di Maria ed è centrato, inizialmente, sul valore del tempo che negli oggetti costruiti dall’artigiano rimane “imprigionato nella materia come l’anima nel corpo”.
Oltre al valore del tempo che fa parte della costruzione di un oggetto c’è poi quello della “carezza”. Giuseppe che accarezza il manufatto appena realizzato (manufatto, quindi costruito con le proprie mani), che ne sente gli spigoli smussati dallo scalpello e “ne leviga le asprezze con il medesimo amore con cui la pecora madre asciuga con la lingua l’agnello appena nato”.
In questo modo l’artigiano donava un’anima alla sua creatura e spesso lo faceva in una bottega che diventava anche il luogo del chiacchiericcio scanzonato, del pettegolezzo spesso innocente sui personaggi del paesello o del piccolo quartiere.
L’oggetto uscito dalla bottega veniva trasferito all’utilizzatore finale che più che consumarla lo usava fino al saluto estremo, anch’esso con una sorta di carezza che ne conservava l’anima.
Nel suo recente libro “Le non cose”, il filosofo Byung Chul Han dedica una digressione al juke –box. “In passato – scrive l’autore – i giapponesi si separavano dalle cose che avevano posseduto a lungo, come un paio d’occhiali o un pennello calligrafico, con un apposito cerimoniale. Ormai non esistono più cose alle quali saremmo disposti a concedere un addio dignitoso. Le cose nascono, per così dire, morte. Non vengono usate, bensì consumate. Solo un lungo utilizzo dà loro un’anima. Solo le cose del cuore sono animate. Flaubert voleva essere sepolto insieme al suo calamaio. Il juke-box è troppo grosso per portarmelo nella tomba. Credo che abbia la mia stessa età, ma mi sopravviverà di sicuro. Un pensiero grossomodo confortante”.
Oggetti realizzati per durare. E con consapevolezza
Byung Chul Han ci dice che solo un lungo utilizzo dona agli oggetti un’anima, ma quelli costruiti con amore la possiedono già dal concepimento.
La culla che San Giuseppe realizza è permeata delle sue carezze, del suo sguardo attento e di quella manualità magistrale che smussa ogni angolo. Una culla che ha interiorizzato il tempo rituale della realizzazione amorosa capace di trasmettere un’anima dal costruttore all’utilizzatore.
Osservazione ovvia a questa lirica del prodotto artigianale è che è impossibile applicarla ai prodotti industriali e che quindi anche nel processo virtuoso dell’economia circolare non si possono immaginare oggetti d’uso che abbiano una loro anima. La questione di fondo è che gli oggetti industriali non sono quasi mai finalizzati all’uso ma al consumo, con la differenza sostanziale che caratterizza un ciclo di vita chiuso dal tempo lungo dell’invecchiamento, rispetto a quello altrettanto chiuso ma nei tempi corti dell’obsolescenza programmata.
È proprio dentro la ciclicità che si gioca la partita del futuro. Una società che vuole provare a riscoprire la dimensione umana dell’economia deve sganciarsi da una dipendenza assoluta verso i processi iper-tecnologici senz’anima che continuano ad alienare le persone nelle filiere produttive e nell’ingordigia di oggetti che ci allontano dal mondo reale. È ovvio che il problema di fondo allora si sposta di nuovo sulla produzione di beni che oltre ad essere totalmente inseribili nei processi dell’economia circolare, devono tornare ad essere beni d’uso duraturi con un ciclo di vita lungo di cui le persone devono avere piena consapevolezza.
Non possiamo pretendere che un qualsiasi oggetto industriale porti con sé il valore del tempo necessario alla sua produzione o che siano le carezze a modellarlo come faceva Giuseppe nella bottega artigiana.
Il valore fondamentale dell’apporto umano
Possiamo però pretendere che ogni oggetto porti con sé il valore fondamentale dell’apporto umano e su quello costruire una nuova cultura della cura degli stessi. Un processo produttivo umanizzante, ad esempio è quello che ridà un ruolo centrale alle persone nel ciclo di vita del prodotto dall’estrazione delle materie prime fino alle 4 (e più) “R” dell’economia circolare.
Aver cura di un oggetto non è rischio di un possesso maniacale ma riscoperta profonda del “valore d’uso” che solo può generare, anche attraverso gli oggetti, una nuova dimensione umana. Dimensione che è propedeutica all’economia circolare altrimenti esistente solo nella sfera tecnocratica, che per quanto possa essere virtuosa nulla cambia rispetto alla necessità improrogabile di rimettere al centro le persone. Se questa sembrerà folle utopia allora vorrà dire che abbiamo perso per sempre. Per me non è così.
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