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Sovvenzioni alle fonti fossili, Bruxelles ha sprecato 440 milioni nel gas

Il rapporto dell’ong Global Witness passa al setaccio tutti i 41 progetti definiti di interesse comunitario che dal 2014 hanno ricevuto sostegno da parte dell’UE




Bruxelles ha sprecato almeno 440 milioni di euro in gasdotti inutili. Negli ultimi 10 anni è questa la somma che l’Unione Europea ha investito in progetti infrastrutturali sulle fonti fossili che o sono stati bloccati o è probabile che riceveranno presto lo stop definitivo. Lo rivela in un dossier pubblicato oggi la ong Global Witness, che ha fatto le pulci agli oltre 5 miliardi di investimenti spesi dal 2013 su 41 progetti, tra gasdotti e terminal, tutti legati all’industria del gas.

“Per gran parte dell’ultimo decennio, l’UE è stata uno sportello automatico per le società del gas europee”, scrive Global Witness. L’ong punta il dito contro la facilità con cui queste società avrebbero accesso ai piani alti di Bruxelles, convincendo i funzionari a garantire finanziamenti. Ma anche a rimodulare leggi e regolamenti in modo tale da favorire, o non ostacolare, queste fossili. Global Witness mette sotto la lente soprattutto il regolamento TEN-E (Trans-European Networks-Energy), in base al quale progetti come i gasdotti riescono a rientrare tra i progetti di interesse comunitario – i PIC – e ricevere abbondanti sovvenzioni.

In tutto sono 7 i progetti inutili. Il principale, che pesa per 430 milioni, è il gasdotto BRUA in cantiere dal 2014. Avrebbe dovuto portare in Austria il gas offshore della Romania, passando anche per Bulgaria e Ungheria. A novembre 2020 ne è stato completato solo un piccolo tratto, tutto in Romania, che non arriva nemmeno ai pozzi. Gli investitori stanno fuggendo, primo tra tutto Exxon, e così il progetto si avvia al naufragio.

Altri progetti che hanno contribuito allo sperpero di denaro pubblico, rileva Global Witness, sono la terza interconnessione gasiera tra Spagna e Portogallo e il gasdotto Midcat tra Francia e Spagna, entrambi cancellati. Poi l’interconnessione tra Polonia e Repubblica Ceca, congelata. Il gasdotto Pince-Lendava-Kidričevo non ha fatto passi avanti dal 2014 (cioè subito dopo aver ricevuto le sovvenzioni UE). Stop anche all’interconnettore tra Praga e Vienna, mentre rinviato sine die il progetto Eastring che doveva collegare la Slovacchia al confine tra Bulgaria e turchia attraverso Romania e Ungheria.

“Questo può cambiare ed è responsabilità dell’UE assicurarsi che lo faccia”, scrive l’ong. “La Commissione dovrebbe eliminare tutti i progetti sul gas dal quinto elenco dei PIC e impedire loro di ricevere sovvenzioni aggiuntive, reindirizzando i fondi verso progetti di energia rinnovabile”. L’UE sta raccogliendo fino all’8 aprile i pareri sulla lista dei prossimi progetti di interesse comunitario da approvare e sovvenzionare.

fonte: www.rinnovabili.it


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Conflitti di interessi all’ombra del Green Deal

L’Ong ricostruisce in un rapporto appena pubblicato tutti i legami, più o meno espliciti, tra l’industria fossile e due commissarie UE (Kyriakides per Salute e Sicurezza alimentare, Vălean per i Trasporti) e il rappresentante per la politica estera Borrell





Josep Borrell, Stella Kyriakides e Adina Vălean hanno in comune due cose. La prima è che sono esponenti di punta della Commissione von der Leyen. Borrell è l’Alto rappresentante per la politica estera europea, in pratica il ministro degli Esteri di Bruxelles. Kyriakides e Vălean sono rispettivamente commissarie alla Salute e alla Sicurezza alimentare, e ai Trasporti. La seconda caratteristica in comune è che hanno tutti e 3 stretti legami con l’industria fossile. Non una credenziale da sbandierare, per riuscire a trovare un posto nell’esecutivo incardinato sul Green Deal e sulla transizione energetica del continente.

Lo ha rivelato l’ong Global Witness dopo aver scavato nelle loro Declaration of interests, la dichiarazione con cui attestano che non esistono conflitti di interessi con gli incarichi che ricoprono. Ma Global Witness fa notare che queste dichiarazioni sono per lo meno avventate.

Secondo Global Witness, questi rapporti con l’industria fossile “sollevano seri interrogativi sulla capacità dell’attuale Commissione di affrontare la questione politica più urgente del nostro tempo”, la crisi climatica. E passa in rassegna frequentazioni, incarichi e sfera familiare dei tre funzionari europei.

Chi rema contro il Green Deal

Stella Kyriakides – La commissaria cipriota è legata all’industria fossile tramite il marito, che è direttore di Motor Oil Holdings Ltd e Petroventure Holdings Limited, due compagnie di Cipro che controllano il 40% di Motor Oil Hellas, azienda greca che si occupa di raffinazione e commercio di greggio. Lo fa tramite la Corinth Refinery, che sforna quasi 190mila barili di petrolio al giorno e circa la metà di altri prodotti derivati. Global Witness fa i conti e stima che queste operazioni, da sole, sono responsabili per 1/3 delle emissioni annuali di tutta la Grecia.

Adina Vălean – La commissaria romena ha dei legami più sfumati, meno lineari ma non meno significativi. Esperienze lavorative precedenti la collegano allo zar del petrolio romeno. Ma Vălean è più vicina ancra agli interessi delle compagnie del gas. Alla COP24 era la prima delegata UE, solo 6 mesi prima era conferenziera per il ritrovo annuale della Gas Industry Europe. Nel 2017 aveva organizzato eventi per il gruppo Gasnaturally, ripetuti anche nel 2019 e anche pochi giorni prima della sua audizione per conferma nel ruolo di commissaria nell’euroesecutivo del Green Deal. Tutte queste realtà industriali del gas ricevono fondi dal CEF, la Connecting Europe Facility europea creata – proprio da Vălean – per supportare l’industria fossile.


Josep Borrell – Il capo della diplomazia UE ha una carriera tutta nell’oil&gas, con dei profili di possibile incompatibilità con l’attuale incarico. Ha lavorato per 10 anni come ingegnere per Cepsa, la compagnia petrolifera statale spagnola. Poi a libro paga di Abengoa, un’azienda energetica spagnola. Affiliazione che ha tenuto nascosta per un po’ e che, quando è diventata pubblica, gli è costata la presidenza dell’European University Institute da cui si è dovuto dimettere nel 2012. Nel 2018 è stato addirittura multato dall’autorità spagnola di controllo per insider trading: aveva fatto vendere dei pacchetti azionari grazie a informazioni riservate di cui era in possesso in quanto membro del board di Abengoa. Il cui business è, tra le altre cose, promuovere le centrali termoelettriche a ciclo combinato, impianti a gas che vengono presentati come opzione plausibile per mantenere il gas come energia di transizione in Europa (e quindi continuare a ricevere sovvenzioni).

fonte: www.rinnovabili.it


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Nel mondo crescono i conflitti ambientali e le minacce agli attivisti. L’Italia “paese dei Fuochi”

Sono 212 le persone morte nel 2019 per difendere la loro terra dall’inquinamento o dalla speculazione, secondo l’ultimo rapporto dell’ong Global Witness. Quattordici omicidi a settimana, la maggior parte in Colombia, Filippine e Brasile. In Italia e in Europa non si spara, ma le vertenze ambientali sono più di 150.




Ogni anno si spera che sia migliore del precedente. Invece, per i difensori della terra e dell’ambiente, si conferma il peggiore, registrando di volta in volta un aumento delle vittime assassinate per aver difeso il luogo in cui vivono. Sono 212 gli attivisti uccisi nel 2019. Lo rivela l’ultimo rapporto pubblicato dall’ong Global Witness, fondata nel 1993 e operativa su scala mondiale con sede a Londra, Washington e Bruxelles. Mediamente da dicembre 2015, ovvero da quando c’è stata la conferenza di Parigi sul clima (COP21) che ha portato al primo accordo universale e giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici, si calcolano quattro omicidi a settimana. Più della metà rilevata lo scorso anno riguarda la Colombia e le Filippine, dove sono morte rispettivamente 64 e 43 persone per essersi opposte allo sfruttamento del proprio territorio. A generare conflitti sociali si conferma al primo posto il business dell’industria mineraria. Per aver espresso dissenso contro questo settore nel 2019 sono state uccise 50 persone. Seguono poi l’industria dei combustibili fossili, ovvero petrolio, gas e carbone, e l’agricoltura superintensiva soprattutto di olio di palma e zucchero. Il tasso di omicidi in quest’ambito è aumentato rispetto al 2018 del 60%.

“Proprio in questo momento, in cui abbiamo bisogno più di prima di ascoltare queste voci, i governi di tutto il mondo hanno adottato una serie di misure per ridurre lo spazio della protesta pacifica”, scrivono gli autori del rapporto Difendere il domani. Crisi climatica e minacce contro i difensori della terra e dell’ambiente. “Stanno utilizzando tattiche – spiegano – che vanno dalle campagne di screditamento alle false accuse penali per silenziare coloro che si battono per il clima e la sopravvivenza dell’umanità”. Il 40% degli attivisti uccisi appartengono alle comunità indigene, le cui conoscenze ancestrali nella gestione delle risorse naturali sono indispensabili per combattere la crisi climatica e la perdita di biodiversità sul Pianeta. Più di un terzo degli omicidi è avvenuto in America Latina. Dopo le Filippine, per tasso di mortalità, si colloca il Brasile, in cui si registrano 24 morti di cui il 90% in Amazzonia, seguito da Messico (18) e Honduras (14). Quest’ultimo è considerato il più pericoloso al mondo per numero di assassinii pro capite. In media più di una vittima su 10 è donna. Dei 212 difensori uccisi 19 erano funzionari statali e guardaparchi. La piramide della violenza inizia sempre da strategie di ostracismo, attraverso cui si dipingono agli occhi dell’opinione pubblica gli attivisti come privi di cultura, contrari al progresso, fino all’accusa di terrorismo e criminalità organizzata.

Dal rapporto emerge che il continente europeo si conferma come il meno interessato dall’aumento degli omicidi, sebbene in Romania nel 2019 ne siano stati registrati due tra i guardaparchi impegnati contro il disboscamento illegale. “Se è vero che il numero degli assassinii in Europa è basso, è anche vero che i difensori della terra in questa regione subiscono campagne di screditamento e criminalizzazione a causa del loro attivismo”. L’Italia non è esente da questo tipo di strategie ai danni dei cittadini. Lo segnala dal 2007 il Centro documentazione conflitti ambientali (CDCA), nato da un progetto dell’associazione A Sud, che si occupa di aggiornare l’Atlante italiano. Si tratta di una piattaforma web georeferenziata che raccoglie le emergenze ambientali nel nostro paese e le esperienze di cittadinanza attiva in difesa del territorio e del diritto alla salute. Sono 150 le schede di conflitti ambientali finora redatte, classificate in 10 diverse categorie, a seconda del settore produttivo che le comunità contestano. Una sorta di geografia della resistenza che mappa le proteste contro “enormi interessi di soggetti privati impegnati in attività estrattive, produttive, di smaltimento, miniere, centrali per la produzione di energia, siti di stoccaggio dei rifiuti e mega infrastrutture” (qui il report). Secondo i ricercatori “il quadro che emerge rappresenta la drammatica diffusione a livello nazionale di emergenze ambientali e di istanze di difesa popolare, la cui portata in termini di contaminazione va ben oltre le tragiche e note vicende della Terra dei Fuochi”. L’Italia tutta viene descritta come “un Paese dei Fuochi, da nord a sud, isole comprese”.

fonte: www.ilfattoquotidiano.it


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