Visualizzazione post con etichetta #DifesaDelTerritorio. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta #DifesaDelTerritorio. Mostra tutti i post

Nel mondo crescono i conflitti ambientali e le minacce agli attivisti. L’Italia “paese dei Fuochi”

Sono 212 le persone morte nel 2019 per difendere la loro terra dall’inquinamento o dalla speculazione, secondo l’ultimo rapporto dell’ong Global Witness. Quattordici omicidi a settimana, la maggior parte in Colombia, Filippine e Brasile. In Italia e in Europa non si spara, ma le vertenze ambientali sono più di 150.




Ogni anno si spera che sia migliore del precedente. Invece, per i difensori della terra e dell’ambiente, si conferma il peggiore, registrando di volta in volta un aumento delle vittime assassinate per aver difeso il luogo in cui vivono. Sono 212 gli attivisti uccisi nel 2019. Lo rivela l’ultimo rapporto pubblicato dall’ong Global Witness, fondata nel 1993 e operativa su scala mondiale con sede a Londra, Washington e Bruxelles. Mediamente da dicembre 2015, ovvero da quando c’è stata la conferenza di Parigi sul clima (COP21) che ha portato al primo accordo universale e giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici, si calcolano quattro omicidi a settimana. Più della metà rilevata lo scorso anno riguarda la Colombia e le Filippine, dove sono morte rispettivamente 64 e 43 persone per essersi opposte allo sfruttamento del proprio territorio. A generare conflitti sociali si conferma al primo posto il business dell’industria mineraria. Per aver espresso dissenso contro questo settore nel 2019 sono state uccise 50 persone. Seguono poi l’industria dei combustibili fossili, ovvero petrolio, gas e carbone, e l’agricoltura superintensiva soprattutto di olio di palma e zucchero. Il tasso di omicidi in quest’ambito è aumentato rispetto al 2018 del 60%.

“Proprio in questo momento, in cui abbiamo bisogno più di prima di ascoltare queste voci, i governi di tutto il mondo hanno adottato una serie di misure per ridurre lo spazio della protesta pacifica”, scrivono gli autori del rapporto Difendere il domani. Crisi climatica e minacce contro i difensori della terra e dell’ambiente. “Stanno utilizzando tattiche – spiegano – che vanno dalle campagne di screditamento alle false accuse penali per silenziare coloro che si battono per il clima e la sopravvivenza dell’umanità”. Il 40% degli attivisti uccisi appartengono alle comunità indigene, le cui conoscenze ancestrali nella gestione delle risorse naturali sono indispensabili per combattere la crisi climatica e la perdita di biodiversità sul Pianeta. Più di un terzo degli omicidi è avvenuto in America Latina. Dopo le Filippine, per tasso di mortalità, si colloca il Brasile, in cui si registrano 24 morti di cui il 90% in Amazzonia, seguito da Messico (18) e Honduras (14). Quest’ultimo è considerato il più pericoloso al mondo per numero di assassinii pro capite. In media più di una vittima su 10 è donna. Dei 212 difensori uccisi 19 erano funzionari statali e guardaparchi. La piramide della violenza inizia sempre da strategie di ostracismo, attraverso cui si dipingono agli occhi dell’opinione pubblica gli attivisti come privi di cultura, contrari al progresso, fino all’accusa di terrorismo e criminalità organizzata.

Dal rapporto emerge che il continente europeo si conferma come il meno interessato dall’aumento degli omicidi, sebbene in Romania nel 2019 ne siano stati registrati due tra i guardaparchi impegnati contro il disboscamento illegale. “Se è vero che il numero degli assassinii in Europa è basso, è anche vero che i difensori della terra in questa regione subiscono campagne di screditamento e criminalizzazione a causa del loro attivismo”. L’Italia non è esente da questo tipo di strategie ai danni dei cittadini. Lo segnala dal 2007 il Centro documentazione conflitti ambientali (CDCA), nato da un progetto dell’associazione A Sud, che si occupa di aggiornare l’Atlante italiano. Si tratta di una piattaforma web georeferenziata che raccoglie le emergenze ambientali nel nostro paese e le esperienze di cittadinanza attiva in difesa del territorio e del diritto alla salute. Sono 150 le schede di conflitti ambientali finora redatte, classificate in 10 diverse categorie, a seconda del settore produttivo che le comunità contestano. Una sorta di geografia della resistenza che mappa le proteste contro “enormi interessi di soggetti privati impegnati in attività estrattive, produttive, di smaltimento, miniere, centrali per la produzione di energia, siti di stoccaggio dei rifiuti e mega infrastrutture” (qui il report). Secondo i ricercatori “il quadro che emerge rappresenta la drammatica diffusione a livello nazionale di emergenze ambientali e di istanze di difesa popolare, la cui portata in termini di contaminazione va ben oltre le tragiche e note vicende della Terra dei Fuochi”. L’Italia tutta viene descritta come “un Paese dei Fuochi, da nord a sud, isole comprese”.

fonte: www.ilfattoquotidiano.it


RifiutiZeroUmbria - #DONA IL #TUO 5 X 1000 A CRURZ - Cod.Fis. 94157660542

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz 
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria

Il Wwf Perugia chiede piu’ tutela del percorso naturalistico lungo il fiume Chiascio


Il percorso naturalistico del fiume Chiascio, nel tratto laddove il fiume, passata la frazione di Torchiagina, scorre proprio sotto l’antico borgo di Sterpeto, fino al centro del paese di Petrignano, è uno degli ultimi lembi naturali ben conservati, di notevole valore paesaggistico e naturalistico, che dovrebbe essere valorizzato dal punto di vista ambientale e messo in sicurezza.


A fronte del recente, disordinato e, a tratti incompiuto, sviluppo urbanistico del paese di Petrignano, il percorso naturalistico del Chiascio rimane l’ultima possibilità che gli abitanti della zona hanno di poter stare a contatto con la natura.


In questi giorni di domiciliazione forzata, dovuta all’emergenza causata dal COVID 19, non è infrequente imbattersi in persone che, nel rispetto delle norme sanitarie, praticano attività sportiva o fanno una semplice passeggiata, proprio lungo la riva del fiume.


Una ragione per cui l’area è degna di particolare attenzione, da valorizzare e da tutelare dal punto di vista naturalistico, è dovuta al fatto che le acque sono ricche di rari molluschi bivalve di acqua dolce e gamberi di fiume, di insetti acquatici e di pesci, tra cui le trote, la cui presenza è chiaro indicatore della purezza delle acque, pesci solitamente presenti in acque catalogate di classe A, che, in questo tratto di fiume, trovano il loro habitat ideale per deporre le uova, di ciprinidi tra cui barbi, carpe e tinche; l'area è inoltre ideale per la sosta e la nidificazione di una avifauna alquanto varia.


Si possono riconoscere uccelli in parte sedentari, molti di loro sono migratori. Negli ultimi anni si è  incrementata notevolmente la biodiversità del sito, come registrato dai naturalisti che nel corso di numerosi monitoraggi hanno censito la presenza di numerose specie di avifauna, tra cui, per citarne solo alcune,  l’airone cinerino che vi nidifica ogni anno, germani reali, alzavole, limicoli e il martin pescatore, di cui, recentemente, sono stati avvistati alcuni esemplari nelle zone di scoglio affiorante e nella amena spiaggia di ciottoli e sabbia presente  nell’ansa del fiume sottostante il paese di Sterpeto
In considerazione di tutto questo, chiediamo agli amministratori locali di farsi parte attiva affinché questo habitat naturalistico, unico nella zona, venga conservato e mantenuto effettivamente fruibile ai cittadini, mettendo in sicurezza il percorso naturalistico esistente, nell’assoluta e prioritaria  salvaguardia e valorizzazione del patrimonio naturale presente, evitando ogni attività che possa mettere a repentaglio tale ecosistema, come impongono in merito le norme nazionali e comunitarie.

A tal fine, WWF Perugia, in data odierna, ha presentato un’istanza di accesso atti al Servizio della Regione Risorse Idriche e Rischio Idraulico, al Sindaco di Assisi Stefania Proietti, ai Carabinieri Forestali, per avere gli atti relativi ai lavori di ampliamento della cava di Torchiagina, che sarebbero previsti proprio in quel tratto del fiume.

WWF PERUGIA

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz 
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria

Guido Viale: Il tempo è adesso

foto pxhere.com


Amazzonia, Siberia, Groenlandia, Artico e Antartico, India…Gli effetti devastanti dei cambiamenti del clima si scatenano ovunque. Perfino da queste parti, a scala certo minore, non mancano, è soprattutto l’agricoltura che comincia a risentirne: 14 miliardi di danni, secondo la Coldiretti, negli ultimi dieci anni. Certo, in queste “drammatiche” settimane d’agosto, media e parlamento italiano avevano ben altro a cui pensare. Eppure, piuttosto lontano dai riflettori, c’è un gran numero di persone che ha compreso bene la gravità della minaccia e si muove di conseguenza. Sono quelli della rete Extinction Rebellion, ad esempio, e poi i ragazzi di Fridays for future, i movimenti contadini e, naturalmente, i popoli indigeni dell’Amazzonia e di quasi ogni altra zona del pianeta. Dovranno rafforzare i legami con chi è già impegnato, da diverse prospettive, a cambiare in profondità la rotta autodistruttiva del sistema dominante: chi si batte contro il patriarcato, per la libertà di migrare, la difesa dei beni comuni e dei territori, l’affermazione della dignità di ogni persona ed essere vivente. Dalla capacità di affrontare qui e ora la questione della crisi climatica dipende, in fondo, anche la possibilità di ricondurre la politica al suo significato originario, che è quello di autogoverno. Cosa che non potrà mai realizzare una manovra chiusa nel quadro dell’attuale sistema politico, tutto legato al mito fasullo e ormai palesemente devastante della “crescita”, magari con qualche ipocrita postilla sullo sviluppo “sostenibile”. Il tempo per agire è ora, quello delle promesse è scaduto

L’Amazzonia brucia, liberando milioni di tonnellate di CO2. La Siberia brucia, emettendo altro CO2 e immense quantità di metano. I ghiacci della Groenlandia si sciolgono a ritmo vertiginoso e così anche la banchisa polare, le calotte glaciali dell’Artico e dell’Antartico e tutti i ghiacciai del mondo. In India, in preda alla siccità, muoiono di sete migliaia di persone e in tutto il mondo, Mediterraneo e Italia compresi, si moltiplicano i fenomeni metereologici estremi: ondate di calore, tempeste tropicali, gelate fuori stagione. Sono tutti effetti della crisi climatica in corso e al tempo stesso cause del suo rapido aggravamento.

Di tutto questo non c’é alcun riflesso nel Parlamento italiano né nelle manovre per formare un nuovo governo. Le istituzioni del nostro paese non si sono solo allontanate dai cittadini (e viceversa). Sono ormai lontane mille miglia dalla realtà (come lo sono i media che si occupano delle loro vicende). Ma è così anche in quasi tutto il resto del mondo.

C’è però in Italia e in tutto il mondo un “popolo” che quei fatti li ha messi al centro dell’attenzione, delle sue preoccupazioni e della sua iniziativa: i giovani di Fridays for future, che è un movimento mondiale la cui crescita non si fermerà più; la rete di Extinction Rebellion; i tanti movimenti contadini che difendono un’agricoltura sostenibile come Via campesina che riunisce 400 milioni di agricoltori; i popoli indigeni in lotta contro la devastazione dei loro habitat, in particolare l’Amazzonia, oggi sotto attacco, ma che sarà al centro di un sinodo voluto da Papa Francesco.

È statisticamente quasi impossibile che tra i mille parlamentari italiani non ce ne sia nemmeno uno che non si renda conto di quanto sia criminale ignorare la crisi climatica. Se anche in pochi, approfittando della visibilità che avrebbero in questo momento, formassero un raggruppamento interpartitico, non per “mettersi alla testa” dei movimenti già attivi in questo campo, magari con mire egemoniche (non ne avrebbero alcun titolo), ma per porre la crisi climatica e ambientale al centro delle loro preoccupazioni, potrebbero gettare un pesante masso nello stagno delle trattative per la formazione del nuovo governo e tutto il quadro politico potrebbe venirne scompaginato anche nel caso di 
eventuali elezioni.

Foto: Divulgação/Ibama

Si tratterebbe di mettere all’ordine del giorno, non solo del Parlamento, che su questo tema per ora è sordo, ma del pubblico più vasto possibile, non l’inserzione dell’ambiente come una postilla in programmi inconcludenti e di facciata, ma la necessità inderogabile di una svolta radicale: abbandonare al più presto i progetti, le attività e i consumi responsabili delle maggiori emissioni climalteranti per promuovere ovunque impianti, sistemi e consumi a emissioni basse o nulle. Molte misure da assumere sono impopolari e per molti inaccettabili. Ma, di fronte all’evidenza dei fatti, questi atteggiamenti non dureranno a lungo anche perché i movimenti in campo per esigere un cambiamento radicale delle politiche cresceranno mano a mano che la crisi climatica farà sentire i suoi effetti.

Inoltre quei movimenti sono già fortemente intersecati dalle altre correnti di pensiero e di azione impegnate sulla prospettiva di un mondo diverso: il movimento delle donne contro il patriarcato e le sue tante manifestazioni, la solidarietà contro l’abbandono e respingimento dei migranti, le mobilitazioni contro la devastazione di territori e comunità in nome di progetti senza avvenire come NoTav o NoTap, i movimenti contro la guerra e le armi.

Certamente più difficile, nell’immediato, sarà raccogliere adesione e rivendicazioni di chi oggi lotta o vorrebbe lottare per difendere reddito o posto di lavoro, contro disoccupazione e precariato, per la casa, la salute, l’istruzione. C’è ancora da battere una cultura – negata a parole, ma confermata dalle scelte di tutte le forze politiche – che continua a contrapporre tutte queste cose alla difesa dell’ambiente; ma è e sarà sempre più chiaro che quelle rivendicazioni non avranno più alcuna possibilità di realizzarsi nella prospettiva di una generale catastrofe climatica.

foto pixabay

Dalla capacità di affrontare qui e ora la questione della crisi climatica, senza aspettare che a muoversi siano altri paesi e altri Governi, ma con la convinzione che l’esempio ha un effetto trascinante e che chi la affronta prima si troverà in vantaggio mano a mano che gli effetti della crisi si faranno più pesanti, dipende alla fine anche la possibilità di ricondurre la politica al suo significato originario, che è quello di autogoverno. Cosa che non potrà mai realizzare una manovra chiusa nel quadro dell’attuale sistema politico, tutto legato al mito fasullo e ormai palesemente devastante della “crescita”. Il tempo per agire è ora. E se non ora, quando?

fonte: https://comune-info.net

Leonardo DiCaprio lancia un'”Alleanza per la Terra”, per salvare indigeni e animali

















Leonardo DiCaprio sempre più dalla parte dell’ambiente e degli animali e con le sue imprese a difesa della Terra, non smette mai di stupirci. Adesso Assieme a Laurene Powell Jobs, vedova di Steve jobs, e Brian Sheth, presidente del fondo di private equity Vista Equity Partners, il famoso attore ha lanciato Earth Alliance, un’organizzazione ambientalista non profit.
Un’alleanza miliardaria per tutelare l’ambiente, contrastare i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità. Così dopo aver stanziato milioni di dollari per la Foresta Amazzonica, per fermare la caccia, adesso Leo diCaprio, unisce le forze con altri big per “proteggere gli ecosistemi e la fauna selvatica, assicurare una giustizia climatica, sostenere le energie rinnovabili e garantire i diritti degli indigeni a beneficio di tutte le vite sulla Terra”.
Nello specifico, Earth Alliance sarà una piattaforma online dove ci saranno i pareri di esperti di tutto il mondo, con il preciso obiettivo di trovare programmi concreti che poi possano portare a contrastare gli effetti dell’inquinamento, dello sfruttamento illimitato delle risorse e della deforestazione.
“Una nuova piattaforma grande e agile che condivide risorse e competenze identificando al contempo i migliori programmi per portare cambiamenti reali in tutto il pianeta”, dice DiCaprio.
Ma non ci sarà solo protezione degli ecosistemi e della fauna selvatica, utilizzo di fonti rinnovabili per la produzione di energia e la difesa dei diritti delle comunità indigene, ma anche borse di studio e finanziamenti per la realizzazione di documentari su questi temi finalizzati a sensibilizzare l’opinione pubblica sui mali dei nostri tempi.
“Tutto ciò che conosciamo e amiamo è minacciato dalla crisi climatica, e tutti noi dobbiamo chiederci cosa possiamo fare per proteggere il pianeta che condividiamo”, ha affermato Laurene Powell Jobs. “Earth Alliance è la nostra risposta. Sono orgogliosa di unirmi a Leo e Brian per rendere possibile una Terra abitabile per le generazioni future. Leo è uno dei comunicatori più di talento del nostro tempo, e con Earth Alliance cercheremo di ispirare le persone, indipendentemente dall’età, dalla razza o dalla geografia, per cercare di salvaguardare il nostro pianeta in pericolo”.
La piattaforma è in fase di costruzione, ma i tre fondatori aprono le collaborazioni con altre organizzazioni no-profit, comunità, fondi e agenzie governative per salvare il nostro Pianeta.
fonte: www.greenme.it

The best practice green


















L’Associazione nazionale Imprese di Difesa e Tutela Ambientale, organizza il convegno “The best practice Green” che si terrà a Cremona il 19 gennaio 2019.
Il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (SNPA) ha concesso il patrocinio al convegno. 






L’evento è inserito nel programma formativo dell’Ordine dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali e consentirà ai partecipanti l’attribuzione di n.0,5 CFP.
La partecipazione è gratuita con richiesta di registrazione dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali sul portale SIDAF.
Per i non iscritti agli ODAF è richiesta una conferma di partecipazione da inviare a assoimpredia@gmail.com, per info segreteria organizzativa mobile 335.7166056/Maurizio Lapponi
fonte: http://www.snpambiente.it

Il clima e lo spazio vitale

La difesa dei territori è una rivoluzione, l’unica in grado di garantire vita e benessere alle comunità che li abitano, ma anche di segnalare le tante cose da fare per cambiare il mondo



















Nel giorno di apertura della Cop 24 di Katowice si può affermare che il clima è il grande assente dalle politiche dei governi di tutto il mondo. Non se ne parla mai, se non per registrare l’abbandono dell’accordo di Parigi da parte di un altro Stato. Neppure la verde Germania riesce a staccarsi dal suo carbone. Non è mancata la mobilitazione popolare che, anche di recente, ha visto a Londra e in varie città della Germania una forte partecipazione per imporre un cambio di rotta; una partecipazione scarsa, però, nei paesi dell’Europa mediterranea,nonostante che in Italia siano in corso tante vertenze ambientali e sociali tutte indirettamente legate al tema del clima: NoTav, NoTap, NoTriv, NoTerzovalico, Noautostrade, NoGrandinavi, NoMuos, ecc. Ciò che è invece presente in tutte le politiche governative e, ovviamente, nelle prossime elezioni europee, sull’onda di uno sciovinismo e di una xenofobia che stanno travolgendo il mondo, sono le migrazioni. Ci sono molti legami tra quella assenza e questa presenza: nessi che politica, economia e cultura non sanno o non vogliono cogliere.
Innanzitutto, nell’inconscio di ciascuna o ciascuno di noi, politici o “gente comune”, c’è la sensazione che con la globalizzazione il mondo non si sia allargato ma ristretto: non c’è più spazio per tutti; soprattutto se si pensa a quello che consideriamo il nostro spazio vitale, che in realtà è spazio ambientale: non solo casa, auto, fabbrica o ufficio, scuola, strade, aria, acqua, cibo e cure mediche; ma anche spiagge, campi da sci, seconde case, posti auto, vacanze, ecc. È una sensazione fondata, che spinge molti a stringere i cordoni della borsa: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Caso mai c’è da darsi da fare per non essere il prossimo, o la prossima, a essere buttata fuori. Ben pochi si sforzano di capire quanto di sostenibile ci sia ancora in quel nostro spazio vitale e quanto se ne possa salvaguardare cambiando il modo di accedervi.

Foto di Riccardo Troisi
In secondo luogo, pochi si sono resi conto di quanto la globalizzazione, e soprattutto i cambiamenti climatici – che ne sono l’aspetto principale, più ancora di quanto lo sia l’unificazine dei mercati – abbiano dislocato i fronti del conflitto sociale: che è anch’esso mondiale. Da un lato, la cupola (l’1, o lo 0,01 per cento) dei signori di un capitalismo finanziario, estrattivo e predatorio che domina il pianeta. Dall’altro, la moltitudine sterminata dei popoli e delle comunità che ne subiscono le conseguenze; e di cui  profughi e migranti che cercano di varcare, da soli o in carovana, i confini di un mondo protetto non sono che un’avanguardia. Ma pochi hanno realizzato che, anche entro quei confini “protetti”, i settori che più lottano e meglio si organizzano, nonostante la condizioni di inferiorità in cui si trovano, come i lavoratori della logistica, includono quasi solo migranti: che condividono una continuità esistenziale sia con coloro che si trovano al di là di quei confini, o che li hanno appena varcati, sia con un esercito di precari “autoctoni”, giovani e non più giovani,  come i fattorini del cibo o le operatrici dei call-center schiave della gig economia: figure che hanno cominciato a costruire una loro rete internazionale là dove i sindacati non hanno costituito che rappresentanze burocratiche e collaborazioniste. Nel mezzo c’è un mondo di lavoratori autoctoni preoccupati “della fine del mese più che della fine del pianeta” perché ignorano i nessi tra queste due fini; su di loro, in mancanza di ogni prospettiva di emancipazione, fanno presa, in modi sempre più feroci, le sirene della paura e quelle di un “sovranismo” che, in qualsiasi forma si presenti, sconfina sempre in razzismo, esplicito o sottaciuto: “prima i nostri!”.
Ben pochi collegano le migrazioni ai cambiamenti climatici e ai conflitti creati da quel restringimento degli spazi vitali e ambientali; o la lotta ai cambiamenti climatici a una prospettiva di emancipazione per tutti: cittadine e cittadini autoctoni delle ex cittadelle del benessere e popoli affamati della Terra. Ma quel legame c’è, lo ha spiegato Naomi Klein: la difesa dei territori è una rivoluzione, l’unica in grado di garantire vita e benessere alle comunità che li abitano, ma anche di segnalare le tante “cose da fare” per cambiare il mondo. Con un lavoro più libero e più utile per tutti, nativi e migranti, nei campi di una inderogabile conversione eclogica degli assetti produttivi: energia, edilizia, agricoltura, alimentazione, mobilità, armi, assetti del territorio, salute, istruzione, cultura…Ma di tutto questo gli imprenditori “del fare” riuniti a Torino per imporre il Tav non sanno e non vogliono sapere niente.
Solo con una radicale conversione ecologica, diffusa su tutti i territori a partire da altrettante mobilitazioni locali – basate sul conflitto, ma soprattutto sulla sperimentazione di nuove forme di aggregazione e di gestione della propria quotidianità – si possono ricostituire spazi ambientali per tutti. Mentre una circolazione regolata di genti libere di venire, di tornare e ritornare, alla ricerca della   salvezza o di un futuro tra noi, ma che hanno lasciato famiglie e comunità nei territori devastati da cui provengono, è la sola cosa che possa fornire anche a quei paesi le forze, la cultura, le professionalità e i contatti per una rigenerazione dei loro habitat e dei loro governi. Cioè, di tutta la Terra.
Guido Viale
fonte: https://comune-info.net

La strage silenziosa dei difensori dell’ambiente

La denuncia di Global Witness: nel 2016 sono stati uccisi almeno 200 attivisti, tra cui Berta Cáceres, uccisa a colpi di pistola per la sua battaglia contro la costruzione di una diga. Circa il 40% delle vittime appartenevano a popoli indigeni






“Non impicciarti di quello che non ti riguarda se vuoi evitare problemi. Anche tua madre potrebbe sparire se tu continui a parlare”. Per Jakeline Romero, attivista ambientale colombiana, questo è l’ennesimo messaggio di una lunga serie di minacce da quando la donna, che appartiene alla tribù indigena degli Wayúu, ha iniziato a denunciare lo scempio che si sta consumando nella penisola de La Guajira, nel nord est della Colombia.
Si tratta della più grande miniera a cielo aperto dell’intera America Latina, di proprietà della compagnie inglesi Glencore, BHP Billiton e Anglo-American. Nel corso degli ultimi trent’anni i lavori di ampliamento della miniera hanno costretto migliaia di indigeni a lasciare le proprie case. Inoltre gli indigeni Wayúu denunciano da tempo la riduzione e l’inquinamento dell’acqua, che ha provocato severe siccità nella regione. “Ci minacciano per farci tacere. Ma io non posso stare in silenzio di fronte a quello che sta succedendo alla mia gente -dice Jakeline Romero-. Noi combattiamo per la nostra terra, per la nostra acqua, per le nostre vite”.
Jakeline è una dei tanti leader indigeni che subiscono minacce in Colombia. Una battaglia, quella per la tutela dell’ambiente, che miete ogni anno decine di vittime. Secondo l’ultimo rapporto di “Global Witness” – associazione impegnata nella tutela dei difensori dell’ambiente – sono almeno 37 i concittadini di Jakeline che hanno perso la vita per difendere l’ambiente in cui vivono. Almeno la metà, appartenevano a popoli indigeni.

Il report di “Global Witness” disegna uno scenario allarmante: sono almeno 200 (poco meno di quattro a settimana) gli attivisti per la difesa dell’ambiente uccisi nel 2016. Un dato in crescita rispetto al 2015 (le vittime censite furono 185) e che si è allargato su ben 24 Paesi contro i 16 registrati l’anno precedente. “Questi dati ci raccontano una storia preoccupante –riflette Ben Leather, attivista di “Global Witness”-. La battaglia per difendere l’ambiente si sta facendo sempre più dura e il costo si può contare in vite umane”.
Tra le vittime del 2016, il nome più noto è certamente quello di Berta Cáceres, uccisa il 2 marzo 2016 a colpi di pistola nella sua casa di La Esperanza (Honduras). Berta – madre di quattro figli – era impegnata da anni nella difesa dei diritti degli indigeni lenca e delle loro terre contro lo sfruttamento minerario ed energetico delle grandi aziende. La sua ultima battaglia – quella contro la costruzione della diga “Agua Zarca” – le è costata la vita. Nel corso del 2016 nel Paese sono stati uccisi 14 attivisti, facendo dell’Honduras il paese più pericoloso dell’ultimo decennio. Per i difensori dell’ambiente.
A pagare il prezzo più alto di questa guerra sono i popoli indigeni: il 40% delle vittime censite da “Global Witness” sono proprio gli appartenenti a queste popolazioni. Una minoranza particolarmente vulnerabile, che subisce i maggiori danni dalla distruzione dell’ambiente a seguito dell’espropriazione delle terre, della costruzione di dighe o miniere. Progetti che solitamente vengono imposti alle popolazioni locali senza che questi possano dare un consenso e che – quando protestano- sono vittime anche della violenza della polizia.
L’America Latina resta il posto pericoloso per i difensori dell’ambiente (il 60% delle vittime censite si registra qui) con picchi preoccupanti in Brasile (49 morti, quasi un quarto del totale) e in Colombia dove le aree che fino a poco tempo fa erano sotto il controllo della guerriglia ora sono nel mirino di compagnie estrattive e paramilitari.
L’India, invece, ha visto triplicare il numero delle persone uccise a seguito di violente repressioni della polizia: dalle 6 uccisioni registrate nel 2015 alle 16 del 2016. Chi protesta contro i crimini ambientali, come gli indigeni Dongria Kondh, viene bollato come un pericoloso estremista, che si oppone allo sviluppo economico del Paese. “Global Witness” ha documentato un preoccupante aumento della repressione da parte della polizia: poco meno della metà delle vittime censite in India, infatti, ha perso la vita durante manifestazioni di protesta.

fonte: https://altreconomia.it/

Luca Mercalli. Il consumo dei suoli: fermare la cementificazione è una priorità






















Sopra, veduta aerea dell’area industriale alla periferia Ovest di Torino, tra
Rivoli e Collegno, cresciuta a spese di suoli tra i più fertili d’Europa, inseriti
nella classe I di capacità d’uso (assenza di limitazioni per la coltivazione).



Il crescente consumo di suolo per la costruzione di nuove infrastrutture, strade ed edifici civili e industriali causa la perdita irreversibile di prezioso suolo fertile. 
Oggi in Italia quasi il 10% del territorio è artificializzato, una superficie superiore a Piemonte e Valle d’Aosta messe insieme.


Sotto: prezioso suolo agrario sconvolto dai lavori di costruzione di un
nuovo svincolo della Tangenziale di Torino presso Collegno, giugno 2004.





 













L’artificializzazione del suolo sottrae ulteriore spazio alla produzione agraria in un mondo già sovraffollato e a corto di risorse alimentari; comporta un mancato assorbimento del biossido di carbonio dall’atmosfera, quindi minori possibilità di contrastare il cambiamento climatico; impedisce il drenaggio dell’acqua e causa un’accelerazione dei deflussi idrici durante le piogge intense, con maggiori probabilità di improvvisi allagamenti specialmente nelle zone urbane; genera un surriscaldamento locale che rende ancora più soffocanti le ondate di calura in estate. 

In tempi in cui il suolo era l'unica fonte di sostentamento alimentare per le popolazioni, questo era salvaguardato in ogni modo. Nelle zone di montagna talora le case erano costruite in luoghi impervi, pur di riservare al terreno migliore la destinazione agricola.
Oggi invece l'importanza del suolo è spesso dimenticata, e gli edifici vengono costruiti frequentemente senza alcun criterio di scelta del luogo, sotto la sola spinta della rendita fondiaria, distruggendo in modo irreversibile una risorsa unica che necessita di millenni per formarsi. 

PER SAPERNE DI PIÙ

www.stopalconsumoditerritorio.it - 

Movimento per la difesa del diritto al territorio non cementificato

http://stweb.sister.it/itaCorine/corine/corine.htm - 

Programma europeo CORINE - Land Cover di monitoraggio delle caratteristiche del territorio

CLIMA ED ENERGIA
Capire per agire

Luca Mercalli

Centocinquanta comitati territoriali per il “No” al referendum

Sui nostri territori #decidiamoNOi”: movimenti ambientalisti contro la riforma del Titolo V della Costituzione, che dà allo Stato tutto il potere decisionale in merito a energia e infrastrutture. Ecco l’appello per il “No” al referendum del 4 dicembre
Manifestazione contro le trivellazioni Eni a Carpignano Sesia, nel novarese. Il parere contrario della Regione Piemonte può essere bypassato dal ministero dell'Ambiente, nell'ambito della procedura VIA. Raccontiamo questa storia su Altreconomia 187 (novembre 2016) 
Manifestazione contro le trivellazioni Eni a Carpignano Sesia, nel novarese. Il parere contrario della Regione Piemonte può essere bypassato dal ministero dell'Ambiente, nell'ambito della procedura VIA.

“Sui nostri territori #decidiamoNOi” è l’appello per il voto contrario al referendum costituzionale che ha raccolto l’adesione di 150 realtà territoriali: lanciato da ASud, Rete della Conoscenza e Coordinamento nazionale No Triv, esprime una critica rivolta, in particolare, al disegno centralista alla base della revisione del Titolo V e all’introduzione della cosiddetta “clausola di supremazia statale”. “Con l’ennesima Riforma del Titolo V, gli enti territoriali, che spesso si sono fatti carico delle istanze dei cittadini, contribuendo a migliorare la realizzazione di taluni progetti o evitando, quando ciò fosse manifesto, che il territorio venisse devastato, non avranno più voce in capitolo su materie o politiche cruciali per la sorte delle collettività locali” si legge nell’appello, presentato a Roma il 28 ottobre-. Le materia non più concorrenti vanno dall’energia alle infrastrutture, passando per il governo del territorio, la valorizzazione dei beni culturali e, più in generale, ogni altra materia che il Governo, “nell’interesse nazionale”, dovesse ritenere di lasciar disciplinare al solo Parlamento, come ricostruito nei giorni scorsi da Altreconomia nell’articolo “Stato vs Regioni: la nuova Costituzione darebbe al primo un potere ‘supremo’”. Così, questo “No” è anche “rivendicazione di un allargamento della base democratica e di un ripensamento della democrazia che parta dalla redistribuzione di poteri decisionali a territori e enti democratici di prossimità” spiega l’appello.

Il logo dei "territori per il No"
Il logo dei “territori per il No”
All’iniziativa -in continuità con la mobilitazione popolare costruita sui territori attorno al referendum abrogativo dello scorso 17 aprile- hanno aderito, tra gli altri, No TAV, No MUOS, Coalizione campana Stop Biocidio, l’associazione ISDE-Medici per l’Ambiente e reti territoriali di Abruzzo, Sardegna, Veneto, Basilicata, Puglia, Lombardia, ma anche i comitati di Brescia, Taranto, Brindisi e Gela.
“Nelle mobilitazioni che abbiamo alimentato negli ultimi anni abbiamo imparato una lezione capitale: la democrazia nel nostro Paese va riformata, sì. Ma nel senso che va estesa e restituita alle collettività locali. Non possiamo accettare una costituzionalizzazione della sospensione democratica, da noi avversata con forza in questi ultimi anni, né accogliere la becera logica sottesa a provvedimenti dannosi come lo Sblocca-Italia. In altre parole: non possiamo restare impassibili dinanzi all’idea che gli interessi economici e senza scrupolo dei potentati di turno, delle grandi lobbies finanziarie, energetiche e industriali diventino parte della nostra Costituzione”.

fonte: www.altraeconomia.it