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Una devastazione appenninica per un gas che non ci serve.





Senza neppure attendere l’esito della campagna di monitoraggio dell’aria richiesta dalle prescrizioni della VIA, è stata rilasciata l’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) per l’esercizio della centrale di compressione gas della società Snam Rete Gas sita nel Comune di Sulmona (AQ), zona ad alto rischio sismico e nei pressi della faglia attiva del Monte Morrone. L’impianto dovrebbe essere utilizzato per il futuro gasdotto “Linea Adriatica”, che a dispetto del suo nome attraverserebbe da sud a nord le aree appenniniche più altamente sismiche del nostro Paese, nonchè di eccezionale valenza ambientale e paesaggistica, dunque con la sottrazione di centinaia di ettari di terreni agricoli e l’abbattimento e l’eradicazione di almeno cinque milioni di alberi. Prosegue la mobilitazione popolare: già nel 2018 a Sulmona una manifestazione popolare contro la centrale ha visto la partecipazione di 12.000 persone e l’adesione di quasi 400 istituzioni ed organizzazioni, sostenute dalle amministrazioni locali.

fonte: www.rete-ambientalista.it/


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Dissesto idrogeologico: in arrivo 15 miliardi di euro dal PNRR

Nuovi fondi dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza contro il dissesto idrogeologico a tutela del territorio e delle risorse idriche



Circa 15 miliardi di euro in arrivo per la lotta al dissesto idrogeologico. Il provvedimento è reso possibile dalle novità che verranno introdotte con l’approvazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. In particolare, nella bozza che dovrà essere discussa dal Parlamento vengono aggiunti 3,97 miliardi di euro ai 10,85 già presenti e ai 200 milioni previsti dal React EU.

Sono diverse le misure ipotizzate all’interno del PNRR per la tutela del territorio italiano. Inclusi anche degli interventi per la forestazione, sia in territorio urbano che boschivo, e per la messa in sicurezza degli invasi.

Lotta al dissesto idrogeologico, le nuove misure

Circa 250 milioni di euro delle nuove risorse verranno destinati a interventi strutturali per la lotta al dissesto idrogeologico e di manutenzione attiva del territorio. Si tratterà di operazioni di prevenzione, riqualificazione e monitoraggio, da attuare dietro valutazione del livello di rischio associato all’area. La selezione degli interventi avverrà anche in relazione al numero di persone potenzialmente coinvolte in caso di disastri ambientali.

Buona parte di quanto stanziato in questa tornata (2,92 miliardi di euro) verrà destinato alla gestione sostenibile delle risorse idriche e alla manutenzione degli invasi. Circa 100 gli interventi previsti, perlopiù al Sud, tra i quali figurano anche quelli su dighe e invasi, infrastrutture idriche di derivazione, riduzione delle perdite nei sistemi di adduzione e il potenziamento/completamento delle condotte di adduzione primaria.

Infine gli interventi di forestazione. Destinati a questo scopo circa 300 milioni di euro, che serviranno a potenziare le aree verdi urbane allo scopo di contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici. Verranno affiancati a tali progetti anche quelli di tutela del patrimonio boschivo.

Fonte: Edil Portale


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Nei territori del caos climatico

Le frane, le tempeste e gli incendi che hanno causato gravissimi danni nei giorni scorsi dal Veneto alla Sicilia orientale mostrano una dinamica nuova e aggravata del dissesto. La questione territoriale italiana oggi evidenzia un fenomeno inedito nella storia del capitalismo: il realizzare profitto non produce più anche una creazione “generale” di beni e ricchezza, se non in misura irrilevante, ma danni immediati e futuri, specie in Italia. Eppure si insiste ostinatamente con le cosiddette Grandi Opere che mangiano ettari ed ettari di suolo verde, si abbandonano alle frane chilometri di terre incolte e si lascia deperire l’immenso patrimonio immobiliare di paesi e villaggi che si vanno spopolando nelle cosiddette aree interne. Quei territori, nei decenni a venire, quando il disastro climatico si aggraverà, potrebbero essere la nostra salvezza. Urge una svolta politica e culturale per porre vincoli al cemento, cambiare in profondità la PAC dell’Unione Europea e varare misure radicali e concrete come, ad esempio, un reddito di base per ogni contadino che non solo produce ma fa manutenzione del territorio










I disastri provocati in Veneto e in Lombardia da improvvise tempeste scatenatesi nei giorni scorsi e i violenti incendi che hanno distrutto interi boschi della Sicilia occidentale, rientrano solo in parte, come qualcuno ha già osservato, nel quadro consueto dei dissesti italiani. Li comprendono certamente, ma entro una dinamica nuova e più grave. Alluvioni ed incendi, frane e distruzioni di boschi hanno legami invisibili che vanno ricordati.

Il cosiddetto riscaldamento globale non si esaurisce nell’innalzamento medio della temperatura, ma si esprime anche nel caos climatico, nella ricorrenza accentuata dei fenomeni estremi, caterratte d’acqua in poche ore e perfino trombe d’aria, accanto a prolungate siccità, che offrono ai criminali, la possibilità di appiccare incendi alle foreste con sicuro successo.

Un mutamento nella storia della natura, dovuto all’azione umana, che si inscrive, in questo caso, nella vecchia storia d’Italia, lo stato nel quale il territorio acquista valore quando viene ricoperto da edifici, se si trasforma nello scenario della propria distruzione attraverso le cosiddette grandi opere.

In Italia, il paese più franoso e fragile d’Europa, le campagne necessiterebbero di una manutenzione costante, di una presenza operosa di figure umane, di lavori di controllo e sistemazione continua delle frane, dei corsi d’acqua, di pulizia e vigilanza sui boschi – come ricordava Tonino Perna a proposito degli incendi – di monitoraggio insomma del suolo, la base delle nostre vite e delle nostre economie, ormai sempre più esposta a drammatiche rotture.

Ma l’indifferenza inveterata del ceto politico e della cultura italiana nei confronti dei fenomeni naturali e della sorte del territorio oggi valica una soglia di gravità che potremmo definire storica.

Il riscaldamento globale non comporta solo caos climatico, alluvioni e frane, siccità e incendi, i disastri dell’oggi, ma, in una prospettiva non lontana, l’innalzamento dei mari.

Lo scioglimento dei ghiacciai, che ha sorpreso anche gli scienziati per la sua recente accelerazione, comporterà l’invasione delle acque marine di vaste aree costiere e vallive, in tempi che nessuno può prevedere, ma che non saranno tempi geologici.

E qui mi torna in mente una definizione fisica dell’Italia da parte da un grande commis d’état del primo ‘900, Meuccio Ruini, il quale, volendo rilevare il carattere prevalentemente montuoso-collinare della Penisola, disegnava un quadro che oggi ha colori inquietanti:

“Se il mare, alzandosi di pochi metri, ricoprisse quel golfo di terra che è la Valle Padana, l’Italia sarebbe una sola e grande montagna”. Quei pochi metri, come ognuno può comprendere, sarebbero sufficienti a cancellare l’Italia dal novero dei paesi industrializzati, con perdite immense di beni e ricchezza.

Ora, non voglio indulgere in prospettive catastrofiche, ma se i fenomeni presenti e quelli futuri prossimi minacciano in maniera così rilevante e rovinosa il nostro habitat, non dovrebbe mutare radicalmente la nostra attenzione e la nostra cura per il territorio, già oggi e sempre più bene scarsissimo e prezioso?

E allora, com’è possibile che ancora si cementifichino le periferie urbane – Lombardia e Milano, capitale morale, in testa – anziché ristrutturare edifici abbandonati, restaurare quartieri, valorizzare il già costruito?


Perché si insiste con le cosiddette grandi opere che mangiano ettari ed ettari di suolo verde? Perché si abbandonano alle frane chilometri di terre incolte, si lascia deperire l’immenso patrimonio immobiliare dei paesi e villaggi, che si vanno spopolando nelle cosiddette aree interne?

Quando è evidente a tutti che questi territori diventeranno la nostra salvezza nei prossimi decenni, allorché il disordine climatico si aggraverà, tante aree costiere diventeranno inabitabili, come appare inevitabile di fronte alla colpevole inanità delle classi dirigenti dei paesi ricchi.

Eppure, sul piano politico si può ancora agire per avviare una svolta, non solo coi vincoli da porre al cemento, ma gia, ad esempio, con un salto culturale della Politica Agricola Comunitaria.

Ad esempio, tra l’altro, con l’assegnazione di un reddito di base ad ogni piccolo contadino europeo, che non solo produce, ma fa manutenzione del territorio.

La questione territoriale italiana oggi mostra un fenomeno inedito nella storia del capitalismo. Da quando esiste questo modo di produzione la realizzazione del profitto da parte del capitalista ha coinciso anche con la creazione generale di beni e ricchezza.

Tale coincedenza, per via della produzione di beni sempre più imposti e superflui, si è da tempo indebolita. Ma oggi, specie in Italia, la creazione del profitto, religione dell’imprenditoria occidentale, ha perso i suoi fondamenti metafisici, come le religioni rivelate, e in vasti ambiti dell’economia, con crescente evidenza, non produce più vantaggi e benessere, ma danni, per il presente e per l’avvenire.

Piero Bevilacqua

Articolo pubblicato anche su il manifesto

fonte: www.comune-info.net


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Dal ministero dell’Ambiente una nuova Commissione contro l’amianto

Costa: «Dobbiamo assolutamente procedere con la mappatura e le bonifiche, ci sono 32 milioni di tonnellate di amianto ancora in circolazione in Italia». Ma mancano le discariche per smaltirlo in sicurezza






















Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha istituito presso il proprio dicastero una «Commissione di lavoro per la riforma normativa» in materia di amianto, e a guidarla nelle vesti di presidente sarà Raffaele Guariniello: «Guariniello – spiega il ministro – è il procuratore di Torino che ha istruito e seguito il processo Eternit, ma è anche molto di più, è l’uomo che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta contro l’amianto e contro i crimini ambientali».
Al momento il ministero non spiega quali saranno nello specifico i compiti – o le risorse a disposizione – della Commissione, ma anticipa che la nuova struttura «entro la fine di giugno produrrà i primi risultati».
«Dobbiamo assolutamente procedere con la mappatura e le bonifiche – incalza il ministro Costa – ci sono 32 milioni di tonnellate di amianto (questa è la stima Cnr-Inail, mentre l’Ona arriva a 40 milioni di tonnellatendr) ancora in circolazione in Italia, e l’unico modo per interrompere la catena di vittime è eliminare l’esposizione». Come sarebbe possibile procedere, dunque?
Un approccio pragmatico è quello spiegato dallo stesso ministero dell’Ambiente – nella figura di Laura D’Aprile – due anni fa alla Camera, durante un convegno promosso dal Movimento 5 Stelle per i primi 25 anni della legge che nel 1992 ha messo al bando l’amianto in Italia. «Uno dei principali problemi è che mancano le discariche: a volte i monitoraggi non vengono effettuati perché poi nasce il problema di dove poter smaltire l’amianto – spiegava per l’occasione D’Aprile  – Ci sono regioni che hanno fatto delibere definendosi a discarica zero e quindi quando faremo la programmazione del conferimento a livello nazionale ci andremo a scontrare con queste regioni».
Il problema però è che non solo di nuove discariche non vengono realizzate dietro l’opposizione di comitati (e politici) locali, che vedono in questi impianti industriali nuovi problemi anziché concrete soluzioni per lo smaltimento in sicurezza dei rifiuti contenenti amianto, ma anche i pochi impianti rimasti continuano a chiudere per gli stessi motivi, aggravando ancora di più una situazione già critica.
fonte: www.greenreport.it

Luca Mercalli. Il consumo dei suoli: fermare la cementificazione è una priorità






















Sopra, veduta aerea dell’area industriale alla periferia Ovest di Torino, tra
Rivoli e Collegno, cresciuta a spese di suoli tra i più fertili d’Europa, inseriti
nella classe I di capacità d’uso (assenza di limitazioni per la coltivazione).



Il crescente consumo di suolo per la costruzione di nuove infrastrutture, strade ed edifici civili e industriali causa la perdita irreversibile di prezioso suolo fertile. 
Oggi in Italia quasi il 10% del territorio è artificializzato, una superficie superiore a Piemonte e Valle d’Aosta messe insieme.


Sotto: prezioso suolo agrario sconvolto dai lavori di costruzione di un
nuovo svincolo della Tangenziale di Torino presso Collegno, giugno 2004.





 













L’artificializzazione del suolo sottrae ulteriore spazio alla produzione agraria in un mondo già sovraffollato e a corto di risorse alimentari; comporta un mancato assorbimento del biossido di carbonio dall’atmosfera, quindi minori possibilità di contrastare il cambiamento climatico; impedisce il drenaggio dell’acqua e causa un’accelerazione dei deflussi idrici durante le piogge intense, con maggiori probabilità di improvvisi allagamenti specialmente nelle zone urbane; genera un surriscaldamento locale che rende ancora più soffocanti le ondate di calura in estate. 

In tempi in cui il suolo era l'unica fonte di sostentamento alimentare per le popolazioni, questo era salvaguardato in ogni modo. Nelle zone di montagna talora le case erano costruite in luoghi impervi, pur di riservare al terreno migliore la destinazione agricola.
Oggi invece l'importanza del suolo è spesso dimenticata, e gli edifici vengono costruiti frequentemente senza alcun criterio di scelta del luogo, sotto la sola spinta della rendita fondiaria, distruggendo in modo irreversibile una risorsa unica che necessita di millenni per formarsi. 

PER SAPERNE DI PIÙ

www.stopalconsumoditerritorio.it - 

Movimento per la difesa del diritto al territorio non cementificato

http://stweb.sister.it/itaCorine/corine/corine.htm - 

Programma europeo CORINE - Land Cover di monitoraggio delle caratteristiche del territorio

CLIMA ED ENERGIA
Capire per agire

Luca Mercalli

Centocinquanta comitati territoriali per il “No” al referendum

Sui nostri territori #decidiamoNOi”: movimenti ambientalisti contro la riforma del Titolo V della Costituzione, che dà allo Stato tutto il potere decisionale in merito a energia e infrastrutture. Ecco l’appello per il “No” al referendum del 4 dicembre
Manifestazione contro le trivellazioni Eni a Carpignano Sesia, nel novarese. Il parere contrario della Regione Piemonte può essere bypassato dal ministero dell'Ambiente, nell'ambito della procedura VIA. Raccontiamo questa storia su Altreconomia 187 (novembre 2016) 
Manifestazione contro le trivellazioni Eni a Carpignano Sesia, nel novarese. Il parere contrario della Regione Piemonte può essere bypassato dal ministero dell'Ambiente, nell'ambito della procedura VIA.

“Sui nostri territori #decidiamoNOi” è l’appello per il voto contrario al referendum costituzionale che ha raccolto l’adesione di 150 realtà territoriali: lanciato da ASud, Rete della Conoscenza e Coordinamento nazionale No Triv, esprime una critica rivolta, in particolare, al disegno centralista alla base della revisione del Titolo V e all’introduzione della cosiddetta “clausola di supremazia statale”. “Con l’ennesima Riforma del Titolo V, gli enti territoriali, che spesso si sono fatti carico delle istanze dei cittadini, contribuendo a migliorare la realizzazione di taluni progetti o evitando, quando ciò fosse manifesto, che il territorio venisse devastato, non avranno più voce in capitolo su materie o politiche cruciali per la sorte delle collettività locali” si legge nell’appello, presentato a Roma il 28 ottobre-. Le materia non più concorrenti vanno dall’energia alle infrastrutture, passando per il governo del territorio, la valorizzazione dei beni culturali e, più in generale, ogni altra materia che il Governo, “nell’interesse nazionale”, dovesse ritenere di lasciar disciplinare al solo Parlamento, come ricostruito nei giorni scorsi da Altreconomia nell’articolo “Stato vs Regioni: la nuova Costituzione darebbe al primo un potere ‘supremo’”. Così, questo “No” è anche “rivendicazione di un allargamento della base democratica e di un ripensamento della democrazia che parta dalla redistribuzione di poteri decisionali a territori e enti democratici di prossimità” spiega l’appello.

Il logo dei "territori per il No"
Il logo dei “territori per il No”
All’iniziativa -in continuità con la mobilitazione popolare costruita sui territori attorno al referendum abrogativo dello scorso 17 aprile- hanno aderito, tra gli altri, No TAV, No MUOS, Coalizione campana Stop Biocidio, l’associazione ISDE-Medici per l’Ambiente e reti territoriali di Abruzzo, Sardegna, Veneto, Basilicata, Puglia, Lombardia, ma anche i comitati di Brescia, Taranto, Brindisi e Gela.
“Nelle mobilitazioni che abbiamo alimentato negli ultimi anni abbiamo imparato una lezione capitale: la democrazia nel nostro Paese va riformata, sì. Ma nel senso che va estesa e restituita alle collettività locali. Non possiamo accettare una costituzionalizzazione della sospensione democratica, da noi avversata con forza in questi ultimi anni, né accogliere la becera logica sottesa a provvedimenti dannosi come lo Sblocca-Italia. In altre parole: non possiamo restare impassibili dinanzi all’idea che gli interessi economici e senza scrupolo dei potentati di turno, delle grandi lobbies finanziarie, energetiche e industriali diventino parte della nostra Costituzione”.

fonte: www.altraeconomia.it

Rifiuti, in Italia mancano dati affidabili ma italiani si ritengono ben informati

forum rifiuti
Come noto da sempre agli esperti di settore, e come ribadito al Forum rifiuti dal rapporto Materia rinnovata, in Italia c’è ancora un’enorme sete di dati puntuali e affidabili per quanto riguarda il macromondo dei rifiuti – urbani e soprattutto speciali. Anche al livello delle massime autorità in materia, a causa di una normativa incompleta e frammentata – oltre che una scarsa attenzione politica – i numeri raccolti mostrano tutte le loro lacune. Eppure il 52% dei cittadini italiani si ritiene informato sul tema della raccolta differenziata e del riciclo: è anzi il tema ambientale sul quale si ritengono meglio informati, secondo i dati raccolti da Lorien Consulting e presentati oggi proprio al Forum rifiuti.
La (mala)gestione dei rifiuti occupa effettivamente numerose pagine di cronaca nel nostro Paese, ma sugli effettivi processi che animano questo mondo complesso non è altrettanto facile ottenere riscontri, né nei media, né all’interno della percezione pubblica.
Quel che è certamente positivo nella rilevazione mostrata oggi nel Forum – organizzato a Roma da Legambiente, La Nuova Ecologia e Kyoto Club, con la partnership del Coou – è l’alta attenzione dedicata alle problematiche ambientali tra i cittadini italiani. Disoccupazione, immigrazione e terrorismo sono, nell’ordine, le questioni che preoccupano più gli italiani, ma cresce anche l’inquietudine per i temi ambientali: il 35% degli intervistati si ritiene preoccupato.
Gli italiani ritengono inoltre che per contrastare i danni ambientali siano necessari investimenti strutturali piuttosto che semplici interventi contingenti, in primo luogo – secondo quanto hanno risposto gli intervistati – la riconversione energetica vero le fonti rinnovabili e la messa in sicurezza del territorio italiano. Secondo la ricerca presentata oggi dall’amministratore delegato di Lorien Consulting, Antonio Valente, gli italiani sono inoltre fortemente orientati verso un modello di economia circolare in cui si vada a delineare un sistema dove non esistono scarti e in cui i nuovi prodotti si realizzano attraverso materiali riciclati. Il 92% ritiene che rappresenterebbe un vantaggio economico per il Paese.
«Una buona notizia – secondo la presidente di Legambiente Rossella Muroni – che rispecchia peraltro una tendenza già in corso: nel settore dell’economia circolare il nostro paese si sta già impegnando, con progressi crescenti. Per ogni milione di euro di pil, infatti, produciamo 42 tonnellate di rifiuti a fronte delle 65 prodotte dalla Germania per esempio, grazie alla capacità di recupero e riuso dei rifiuti nel settore produttivo».
«Insieme alla sensibilità ambientale – osserva Francesco Ferrante, vicepresidente del Kyoto club nel suo intervento al Forum – ciò che cresce è la consapevolezza che l’economia circolare è anche la scelta più conveniente per il nostro sistema di imprese. Siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa, povero di materie prime: è evidente che gestione integrata dei rifiuti, chimica verde, green public procurement debbano essere gli strumenti per una politica industriale in grado di dare risposte alle nuove sfide di un’economia sempre più globalizzata».
I cittadini, seppur confusi, sembrano pronti e ben disposti per la transizione: la classe politica – che dovrebbe progettarne il futuro tramite politiche industriali – non ha ancora risposto all’appello.

fonte: www.greenreport.it