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Afghanistan, Iraq e Libia: in guerra perde pure l’ambiente

 

La mattina del 2 luglio 2021, le forze di sicurezza afgane hanno scoperto che, durante la notte, l’esercito statunitense si era ritirato dalla base aerea di Bagram, a nord di Kabul, lasciando dietro di sé montagne di

CS: RIFIUTI: grandi manovre - Perugia, 18 agosto 2021





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Discariche abusive, l’Italia ne ha regolarizzate 48: risparmiati 20 milioni di sanzioni

I dati sono contenuti nella settima relazione semestrale sullo stato delle discariche abusive del commissario unico alle bonifiche Vadalà



Negli ultimi tre anni sono stati messe in sicurezza 55 discariche abusive, tra le quali si contano anche sette dossier ancora al vaglio della Commissione europea: tre sono state proposte a dicembre per la successiva espunzione dalla sanzione e quattro in questi giorni. Di queste, 48 provengono dal procedimento Sanzionatorio: Abruzzo (12 siti), Campania (7), Calabria (8) poi Sicilia (6), Lazio (4), Veneto (2), Puglia (1) e Toscana (1). Le operazioni di bonifica, o messa in sicurezza hanno consentito all'Italia di risparmiare oltre 20 milioni di euro ogni anno sulle sanzioni imposte dall'Ue.

Sono alcuni dei dati contenuti nella settima relazione semestrale sullo stato delle discariche abusive italiane, presentata nel corso di una conferenza stampa dal commissario unico alle bonifiche, il generale dell'Arma dei Carabinieri Giuseppe Vadalà. Nel rapporto si sottolinea che sono stati bonificati "più della metà degli 81 siti abusivi affidati al commissario quattro anni fa, con l'obiettivo di mettere in sicurezza i rimanenti 26 entro dicembre 2023". “È di questi giorni - ha aggiunto - l’affidamento voluto dalla Presidenza del Consiglio di ulteriori 4 siti di un altro contenzioso (causa 498-17) per i quali ci stiamo attivando, prima che vada in sanzione. Questo assegnamento ci spinge a fare ancora meglio, ma è anche evidenza che si è sul sentiero giusto e che stiamo operando in maniera efficace, corretta e veloce”.

Nel 2014 la Corte di Giustizia Europea, allo scadere delle tempistiche di cui alla procedura di infrazione sanzionava l'Italia con una multa di 80 milioni di euro (40 milioni subito più 40 milioni per ogni semestre di ritardo) con l’accordo che tale multa sarebbe stata ridotta di € 200.000 per ogni discarica bonificata e quindi espunta dalla sanzione. L’Italia, dal 2014 al 2017, ha pagato alla UE circa 200 milioni di euro. Ad oggi, su 81 discariche consegnate il 24 marzo 2017 nelle mani del Commissario di Governo per la bonifica dei siti inquinati più della metà (51) sono state portate fuori dalla procedura di infrazione, permettendo all’Italia di risparmiare 20 milioni e 400mila euro ogni anno. La sanzione europea iniziata, nel 2014, con € 42.000.000 oggi si è ridotta a € 6.600.000 - calcolando anche i tre dossier al vaglio della Commissione UE - e portando così un risparmio economico per l’erario e soprattutto restituendo zone più salubri alle collettività.



fonte: www.e-gazette.it/


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Le microplastiche sono il problema ambientale più pressante del nostro secolo

Le fonti principali non sono le più ovvie. In più di 8 casi su 10 le particelle microscopiche di plastica derivano dal traffico stradale. Segue l’effetto dei venti sulla plastica dispersa in mare, quindi quella abbandonata al suolo. Le discariche urbane di plastica pesano relativamente poco



C’è ormai un ciclo globale delle microplastiche, così come c’è il ciclo del carbonio. Una ‘plastificazione’ del pianeta con le particelle che passano dall’atmosfera ai suoli e alle acque. Tanto che l’inquinamento da materie plastiche è diventato il problema ambientale più pressante del 21° secolo. Lo sostiene un team di ricercatori in un nuovo studio pubblicato su PNAS, che si concentra sulla dimensione atmosferica delle microplastiche.

La ricerca combina delle osservazioni sul campo, che hanno rilevato la presenza e la concentrazione di microplastiche in diversi ambienti degli Stati Uniti occidentali, e un modello di trasporto atmosferico. La domanda che si sono posti gli studiosi è semplice: da dove vengono le micro particelle di plastica che viaggiano in atmosfera?

“Utilizzando la nostra migliore stima delle fonti di plastica e dei percorsi di trasporto elaborati dal nostro modello, la maggior parte dei continenti sono importatori netti di plastica dall’ambiente marino”, si legge nell’articolo, che individua il traffico stradale come un altro importante fattore da considerare. Questo sottolinea “il ruolo cumulativo dell’inquinamento nella quantità di plastica presente in atmosfera”. Con gravi conseguenze per la salute umana, a partire da seri disturbi dell’apparato respiratorio. Per Natalie Mahowald della Cornell University, parte del team di ricerca, “quello che stiamo vedendo in questo momento è l’accumulo di plastica mal gestita che sta aumentando. Alcune persone pensano che aumenterà di dieci volte” ogni decennio.

Praticamente nessuno dei campioni di microplastiche prelevate proveniva da quella che può sembrare la fonte più ovvia, cioè le discariche di plastica nelle città. Al contrario, il grosso delle microplastiche arriva dal traffico stradale e dagli oceani, attraverso i venti. “In modo simile ai cicli biogeochimici globali, la plastica ora si muove a spirale intorno al globo con tempi di residenza atmosferici, oceanici, criosferici e terrestri distinti”.

In base ai dati in loro possesso, i ricercatori stimano che le strade siano il fattore dominante per l’inquinamento da microplastiche negli Stati Uniti occidentali. Il traffico è legato a circa l’85% delle microplastiche presenti nell’aria, che derivano da particelle di pneumatici e pastiglie dei freni. Gli oceani sono la fonte di circa il 10% della plastica trasportata per via aerea, seguiti dal suolo nel 5% dei casi.

fonte: www.rinnovabili.it


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IL C.S.S. È UNA SCORCIATOIA PERICOLOSA CHE NON RISOLVE I PROBLEMI DELLE DISCARICHE

 














SÌ – ALLA PREVENZIONE DEI RIFIUTI.
SÌ AD ORGANIZZARE UNA RACCOLTA DIFFERENZIATA “VERA”: OGGI TROPPI SCARTI FINISCONO IN DISCARICA.
SÌ – ALLE “FABBRICHE DI MATERIALI”: OGGI NON SI RECUPERA QUASI NULLA NEGLI IMPIANTI DI SELEZIONE DEI RIFIUTI RESIDUI.
SÌ – AL COMPOSTAGGIO PER RIDARE FERTILITÀ ALLE NOSTRE TERRE: OGGI I RIFIUTI ORGANICI-UMIDI ALIMENTANO IL BUSINESS DELL’ ENERGIA GARANTITO DAGLI INCENTIVI STATALI.
SI – ALL’AVVIO DI ECODISTRETTI, SECONDO I PRINCIPI DELL’ECONOMIA CIRCOLARE E DELLA GIUSTIZIA AMBIENTALE.

FUORI I FURBETTI DALLA GESTIONE DEL CICLO DEI RIFIUTI!

LA GIUNTA TESEI SI RIMANGIA LE PROMESSE ELETTORALI IN MATERIA AMBIENTALE!

L’assessore regionale Morroni per preservare le discariche ormai esauste rilancia gli impianti (TRE) per la produzione di C.S.S. (= i rifiuti si fanno il lifting e vengono rinominati ‘combustibile’) e ricomincia il giochino della contrapposizione tra territori; è vecchio come il cucco ma evidentemente funziona ancora: DIVIDI E GOVERNA! “È oggettivo l’apporto positivo che l’eventuale produzione di CSS combustibile può determinare nell’abbattimento delle quantità di rifiuti da smaltire in discarica”.

Caro Assessore, dalla discarica di Borgogiglione ringraziamo del gentile pensiero ma non siamo d’accordo. E vogliamo illustrarle le nostre ragioni.

Ai cittadini conviene far valere il principio, riconosciuto ormai in tutta Europa: – RIFIUTO, – PAGO;

ma per i nostri Gestori prevale “la logica dell’impresa”: + RIFIUTI, + GUADAGNO!

Regione e Comuni da che parte stanno? Preferiscono buttare milioni di euro in impianti di dubbia utilità ed efficienza piuttosto che sostenere piani economici e salutari per la prevenzione e per la riduzione dei rifiuti.

-Quanto è costato il famigerato “bioreattore” a Borgogiglione e quanto poi hanno dovuto pagare i cittadini per i lavori di messa in sicurezza della discarica? – Quanto è costata la ristrutturazione dell’impianto di compostaggio di Pietramelina, che adesso si è deciso di chiudere e riconvertire ad impianto di stabilizzazione dell’organico-umido da ributtare in discarica? – E quanto sono costati alle casse regionali i biodigestori di Casone (Foligno) e di Belladanza (Città di Castello) e chi ne verifica la funzionalità anno per anno?

Le cifre pubblicate dall’Autorità d’ambito (AURI, Delibera Consiliare n.23, 21/12/2020) sono impietose: quest’anno è previsto l’arrivo nelle discariche di 219.200 t. rispetto alle 195.500 del 2020. I Rifiuti Urbani Residui (non differenziati) però saranno solo 140 mila!

Non funzionano le politiche di prevenzione dei rifiuti all’origine, la RD non ha ancora raggiunto gli obiettivi fissati, non si recupera quasi nulla negli impianti di selezione dei rifiuti residui e, beffa insopportabile, METÀ DEI RIFIUTI che finiscono in discarica sono SCARTI delle raccolte differenziate (vetro, plastica, ingombranti…), degli impianti di biodigestione/compostaggio e/o i rifiuti speciali scartati dalle aziende che lavorano i recuperi.

Solo a Borgogiglione si prevedono 25mila tonnellate di scarti!

Danni enormi all’ambiente e al portafoglio dei cittadini ma le discariche sono la classica “gallina dalle uova d’oro“, a cui nessuno degli amministratori interessati vuole tirare il collo!

Caro Assessore, è davvero convinto che con la produzione del CSS si determinerà una sensibile riduzione dei rifiuti in discarica? Nei documenti regionali si calcola una riduzione limitata a 58 mila t. annue circa; il resto finirà nelle discariche all’infinito! Chi e dove brucerà questo cosiddetto combustibile? E dove troverà i 20 milioni previsti per gli impianti? E le tonnellate aggiuntive di ceneri e polveri? Con le altre associazioni/comitati umbri le avevamo inviato un documento propositivo per un nuovo Piano dei rifiuti… L’ha letto?

In conclusione: perché Regione e Comuni non provano (1) ad avviare una buona raccolta “porta a porta”, riducendo la quantità di scarti; (2) a trattare i rifiuti residui in impianti virtuosi (le cosiddette “fabbriche dei materiali”) tecnologicamente in grado di chiudere il ciclo dei rifiuti sul serio e a freddo;

(3) ad avviare percorsi concreti di economia circolare nei territori?

Questa sarebbe una politica innovativa e nell’interesse dei cittadini… Ma richiede coraggio!

fonte: http://osservatorioborgogiglione.it/


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La Gran Bretagna "verde" esporta i rifiuti di plastica nei paesi poveri

Dal 1 gennaio 2021 Bruxelles li vieta verso paesi non Ocse. Ma la Brexit consente a Londra norme meno stringenti verso le discariche rappresentate dai paesi in via di sviluppo. E il flusso non si ferma, anzi



LONDRA - Il governo di Boris Johnson si dice orgogliosamente ambientalista, ha annunciato negli ultimi mesi decine di miliardi stanziati per la prossima "rivoluzione industriale verde" del Regno Unito e la stessa fidanzata del primo ministro, Carrie Symonds, è da sempre un'attivista contro il cambiamento climatico, oltre che animalista. Ora, però, si scopre che Londra, dopo la Brexit dello scorso 31 dicembre, continua a mandare centinaia di tonnellate di rifiuti di plastica ai Paesi in via di sviluppo nel mondo.



Una pratica che ha scatenato polemiche e indignazione negli ultimi anni, soprattutto dopo la diffusione di mari e terre del sud-est asiatico inondate di bottiglie, buste, giocattoli, contenitori di plastica, di cui una buona parte sinora è scaricata dai ricchi Paesi occidentali a quelli più poveri. Non a caso, l'Ue ha vietato dal 1 gennaio 2021 l'esportazione di rifiuti di plastica indifferenziati al paesi non Ocse. Invece, come riferisce il Guardian, a oggi lo stesso non ha fatto il Regno Unito che dunque, anche grazie alla scappatoia regolamentare legata alla Brexit, continuerà a mandare plastica indifferenziata soprattutto in Asia anche quest'anno, perlomeno nei primi mesi. Ciò nonostante il manifesto del partito di Johnson lo escludesse e lo stesso primo ministro abbia promesso di non eludere gli standard ambientali sinora condivisi con l'Ue.



Il Regno Unito è il secondo produttore di plastica al mondo ed esporta circa due terzi dei suoi rifiuti di plastica. Solo nel settembre 2020, Londra ne ha inviato 7133 tonnellate a Paesi non Ocse, come Malesia, Pakistan, Vietnam, Turchia e Indonesia, l'anno scorso uno degli stati che si è "ribellati" a questa pratica, rimandando gli stock verso il Canale della Manica. Il Ministero dell'Ambiente britannico però sottolinea il suo impegno a mettere al bando questa pratica nel corso del 2020, anche se sinora non è stato preciso sulle tempistiche.

Nel frattempo, il governo di Boris Johnson è stato criticato da vari addetti ai lavori. Sam Chetan-Welsh di Greenpeace Uk ha detto sempre al quotidiano britannico che "questa non è leadership ma non rispettare i principi basilari della questione". Per Tim Grabiel invece, legale dell'Environmental Investigation Agency, "tutti i 27 Paesi dell'Ue si sono adeguati a queste regole contro l'esportazione della plastica, speriamo che anche Londra decida di fare lo stesso...". Il prossimo autunno, il Regno Unito organizzerà insieme all'Italia e ospiterà a Glasgow, in Scozia, la cruciale Conferenza del Clima dell'Onu "Cop26".


fonte: gazzettadimantova.gelocal.it


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Ambiente: più di 105 milioni per bonificare i “siti orfani”, abbandonati e dimenticati

 

In Italia esistono centinaia di siti inquinati e dimenticati: discariche, fabbriche dismesse, fiumi e suoli contaminati, per i quali non è mai stata prevista alcuna bonifica.


Si tratta dei “siti orfani”, luoghi devastati dall’essere umano anche quaranta o cinquanta anni fa e per i quali non si è mai trovato un responsabile che dovesse farsi carico della loro bonifica e che formalmente non risultano di competenza e interesse né nazionale né regionale. Luoghi completamente dimenticati, il cui impatto interessa però tutta la collettività. 

Per questi territori, il Ministero dell’Ambiente ha adottato un decreto con il quale ha stanziato oltre 105 milioni di euro perché possano essere finalmente bonificati.


“Ci siamo inventati una nuova categoria giuridica – aggiunge Costa –, fatto approvare una legge e oggi, dopo tanti anni, la Repubblica italiana riconosce che ci sono tanti luoghi abbandonati da bonificare: i siti orfani. Ho firmato questo decreto dopo aver negoziato con le Regioni e attribuendo loro la competenza di individuare questi siti. E abbiamo fornito le risorse economiche per risolvere questo problema”, ha spiegato il Ministro Sergio Costa.

I fondi saranno ripartiti tra i vari territori e ogni Regione riceverà tra i 2 e i 13milioni di euro, che dovranno essere utilizzati per individuare e bonificare i siti orfani nell’arco dei prossimi cinque anni, attraverso interventi di risanamento e riqualificazione.


Fonte di riferimento: Ministero dell’Ambiente

fonte: www.greenme.it


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Per l’agro-fotovoltaico un potenziale enorme in Europa. L’Italia sarà della partita?

La stima è di oltre 700 GW fattibili su appena l'1% dei terreni coltivabili. Un documento di SolarPower Europe.












Bisogna fare molto più fotovoltaico anche sui terreni agricoli, per raggiungere gli obiettivi del PNIEC (il Piano nazionale per l’energia e il clima al 2030).

Il dibattito su quanta potenza FV installare e dove in Italia non si è mai spento e la questione si ripropone con forza con con il flop del fotovoltaico nelle procedure d’asta del decreto Fer-1, dovuto anche al divieto di fare FV incentivato su aree agricole.

Anche se la conversione in legge del decreto Semplificazioni ha ammorbidito il divieto, sancendo la possibilità di realizzare impianti fotovoltaici incentivati almeno su ex cave e discariche, anche se aree classificate come agricole, la partita resta ancora tutta da giocare, come si è visto.

E tra i possibili sviluppi del fotovoltaico sui terreni agricoli, secondo un documento appena pubblicato da SolarPower Europe (SPE), c’è l’agro-fotovoltaico, agricultural photovoltaic (Agri-PV).

Il potenziale tecnico degli impianti Agri-PV in Europa, si legge nello studio, è amplissimo: si parla di oltre 700 GW se si sviluppassero progetti di questo tipo su appena l’1% dei suoli arabili europei.

La stessa Enea ha proposto di utilizzare una parte dei finanziamenti del Recovery Fund per realizzare un parco “agri-voltaico”, con cui testare le possibili integrazioni virtuose tra attività agricole e produzione energetica. Ad esempio, i possibili abbinamenti tra colture e tecnologie FV per ottimizzare il rendimento sia dei terreni che dei pannelli solari.

Intanto in Sardegna ci sono in ballo due progetti recentemente proposti da Progetika, per complessivi 60 MW di agro-fotovoltaico.

Anche la tecnologia sta cercando soluzioni per le nuove frontiere del fotovoltaico in agricoltura, con moduli bifacciali, strutture verticali per il montaggio dei pannelli, inseguitori monoassiali.

I vantaggi di abbinare agricoltura e fotovoltaico sono numerosi, come dimostrano diverse ricerche condotte negli Stati Uniti e in Germania.

In particolare, SolarPower Europe parla di “sinergie” tra colture agricole e pannelli fotovoltaici, che si possono tradurre in:
riduzione dei consumi idrici grazie all’ombreggiamento dei moduli;
minore degradazione dei suoli e conseguente miglioramento delle rese agricole;
risoluzione del “conflitto” tra differenti usi dei terreni (per coltivare o per produrre energia);
possibilità di far pascolare il bestiame e far circolare i trattori sotto le fila di pannelli o tra le fila di pannelli, secondo le modalità di installazione con strutture orizzontali o verticali, avendo cura di mantanere un’adeguata distanza tra le fila e un’adeguata altezza dal livello del suolo.

Per promuovere gli investimenti nel settore, SolarPower Europe suggerisce di definire schemi di supporto per gli impianti agro-fotovoltaici, ad esempio tramite aste dedicate – gli incentivi devono essere superiori a quelli concessi agli impianti FV standard, perché il fotovoltaico agricolo è sicuramente più costoso – prestiti agevolati agli agricoltori, obiettivi specifici per questa tecnologia nei piani nazionali al 2030, fissazione di criteri di qualità con cui valutare i progetti che concorrono agli incentivi.

fonte: https://www.qualenergia.it

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Discariche, il recepimento italiano della direttiva Ue tra «errori e refusi»

Allarme Assoambiente: «Rischiano di creare disservizi nella gestione dei rifiuti urbani e di quelli non pericolosi»




Appena varato e già da rifare: appare davvero paradossale la vicenda che vede protagonista il decreto legislativo 121/2020 che, recependo la direttiva UE 850/2018, ha assemblato in un’unica norma le disposizioni in materia di discariche contenute precedentemente in due decreti (D.lgs. 36/2003 e DM 27 settembre 2010).

Entrato in vigore il 29 settembre, il decreto è stato infatti passato al vaglio da Assoambiente – l’Associazione nazionale delle imprese di igiene urbana, riciclo, recupero e smaltimento di rifiuti urbani e speciali ed attività di bonifica – che lancia oggi l’allarme: «Nella riscrittura del testo nuove disposizioni, non coordinate tra loro, e diversi refusi (tra cui il riferimento errato alla tabella 5a) mettono ora a serio rischio il proseguimento del conferimento dei rifiuti in discarica soprattutto per i rifiuti urbani e per i rifiuti non pericolosi».

«In particolare – spiegano le imprese di settore – nelle disposizioni relative ai criteri di ammissibilità dei rifiuti nelle discariche per non pericolosi si rimanda a valori limite per l’accesso all’impianto che si riferiscono ad altra tipologia di rifiuti: invece di richiamare la tabella 5 si fa riferimento alla tabella 5a che interessa invece i rifiuti pericolosi stabili e non reattivi. L’errato richiamo alla tabella 5a non prevede peraltro le deroghe (contenute nella tabella 5) per il parametro DOC (carbonio organico disciolto), già previsto nel DM 27 settembre 2010».

Che fare, dunque? Al fine di «evitare importanti criticità nello smaltimento in discarica dei rifiuti che attualmente non trovano altri sbocchi», Assoambiente chiede «un urgente intervento da parte del ministero dell’Ambiente sul nuovo decreto, sia a livello normativo (con la correzione di alcuni refusi e di disposizioni non coordinate tra loro), sia a livello di indirizzo verso le Regioni al fine di definire eventuali ordinanze volte a superare le criticità evidenziate».

Di certo non si tratta di una buona partenza, soprattutto alla luce delle stringenti necessità in termini di investimenti e politica industriale che necessita l’economia circolare italiana, messe in luce proprio da Assoambiente e dal laboratorio Ref ricerche nei giorni scorsi: non solo nel nostro Paese continua ad aumentare la produzione di rifiuti mentre dimuiscono gli impianti per gestirla, ma normative confuse e contraddittorie continuano a pesare sul regolare funzionamento di quelli (sempre meno) già esistenti e autorizzati ad operare. A tutto vantaggio dell’illegalità.

fonte: www.greenreport.it

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Riciclare la plastica ha davvero senso?

Riusciamo a riciclarne solo una piccola parte, con processi costosi e complessi: e l’idea che basti differenziare i rifiuti rischia di spingerci a usarla









La pandemia di COVID-19 ha generato una grande e imprevista quantità di rifiuti di plastica. Non ci sono ancora numeri certi a livello mondiale, ma più di un dato aneddotico o locale indica che l’utilizzo della plastica è aumentato dall’inizio dell’anno. Secondo il ministero dell’Ecologia e dell’Ambiente cinese, al picco dell’epidemia la città di Wuhan produceva 240 tonnellate di rifiuti sanitari al giorno, contro le 40 tonnellate prodotte in tempi normali.

A Singapore, secondo un sondaggio citato dal Los Angeles Times, nelle otto settimane del primo lockdown, tra aprile e maggio, i cittadini hanno buttato nella spazzatura 1.470 tonnellate di rifiuti plastici più del solito, per l’aumento degli imballaggi e delle consegne a domicilio. Il Thailand Environment Institute ha stimato che a Bangkok ad aprile si sia consumato il 62 per cento di plastica in più che nello stesso mese dell’anno precedente. E negli Stati Uniti il governatore della California, Gavin Newsom, ha sospeso temporaneamente il divieto all’utilizzo di buste di plastica usa e getta.

La produzione di tutta questa plastica è un problema, perché nonostante il successo delle campagne per la raccolta differenziata in gran parte dei paesi più ricchi “il riciclo della plastica continua a essere un’attività economicamente marginale”, come ha scritto nel settembre del 2018 l’OCSE in un rapporto, in cui si legge che a livello globale la quantità di plastica riciclata corrisponde al 14-18 per cento del totale. Il resto della plastica finisce in inceneritori e termovalorizzatori (24 per cento) oppure è lasciato nelle discariche o disperso nell’ambiente (58-62 per cento).

Nell’Unione Europea le cose vanno un po’ meglio – è riciclato circa il 20 per cento della plastica – mentre negli Stati Uniti poco più del 10 per cento. I risultati del riciclo della plastica sono miseri soprattutto se messi a confronto con altri materiali: sia i principali metalli industriali (ferro, alluminio, rame) sia la carta hanno tassi di riciclo che superano il 50 per cento.

Con risultati così magri, e che sono migliorati poco nel tempo, in molti hanno cominciato a sostenere che il riciclo della plastica sia un’attività poco efficace, arrivando a definirla “autoassolutoria”. Questo mese il sito di NPR, rispettata emittente radiofonica statunitense, ha pubblicato un’inchiesta in cui, consultando documenti d’archivio e intervistando alcune persone coinvolte, sostiene che le grandi compagnie del petrolio abbiano finanziato negli ultimi decenni tutte le maggiori campagne per il riciclo della plastica perché, anche se riciclare è poco efficace, “se il pubblico pensa che il riciclo funziona allora non si preoccuperà per l’ambiente” e continuerà a usare la plastica, come ha detto alla giornalista Laura Sullivan l’ex presidente di un gruppo che rappresenta gli interessi dell’industria della plastica negli Stati Uniti.

Lo scetticismo nei confronti del riciclo della plastica è molto diffuso. “Il riciclo della plastica è un mito”, titolava il Guardian ad agosto del 2019; “il riciclo della plastica non funziona”, titolava Mother Jones nel maggio di quest’anno; “il riciclo della plastica sta fallendo”, scriveva Cnbc ad agosto. Pochi giorni fa, Politico Europe ha titolato che “Il riciclo sta uccidendo il pianeta”, riferendosi a tutto il riciclo, non soltanto quello della plastica.

Per capire se riciclare la plastica abbia senso, bisogna partire da come la si ricicla, e dalle ragioni per cui se ne ricicla così poca. «Il punto fondamentale è che c’è una differenza enorme tra recupero e raccolta da una parte e riutilizzo e riciclo dall’altra», spiega Alessandro Trentini, fondatore di Idea Plast, una società lombarda che fa progetti di arredo urbano e di ingegneria con la plastica riciclata. Gettare un rifiuto di plastica nel bidone della raccolta differenziata è soltanto l’inizio di un processo molto lungo che nella maggior parte dei casi non si conclude con il riciclo del rifiuto.

In Italia, per esempio, i livelli di raccolta e recupero dei rifiuti sono elevati. Nel 2018 si è raccolto in modo differenziato il 58,1 per cento dei rifiuti urbani a livello nazionale, e in alcune regioni come l’Emilia-Romagna e la Lombardia il dato supera il 70 per cento. Ma nonostante questi risultati ottimi, il tasso di riciclo e riutilizzo della plastica è molto basso.

Secondo uno studio dell’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, soltanto il 30 per cento della plastica raccolta in Italia è riciclata. Un altro 40 per cento viene bruciato in termovalorizzatori o inceneritori, e il resto finisce in discarica. Si ricicla così poca plastica principalmente perché il metodo di riciclo più diffuso, il riciclo meccanico, è complicato, oneroso e non funziona bene per tutti i tipi di materiale.

Questo non significa che sia il caso di gettare tutta la plastica nella raccolta indifferenziata o di smantellare le filiere del riciclo. Una parte della plastica è comunque riciclata, e gli effetti positivi per l’ambiente e per l’economia sono tangibili. Ma separare la plastica dagli altri rifiuti non dovrebbe illuderci di aver contribuito a salvare il pianeta.

La teoria del riciclo meccanico
La stragrande maggioranza della plastica riciclata nel mondo passa per un processo di recupero meccanico. Questo avviene in varie fasi, che sono spiegate molto bene in uno studio fatto nel 2017 da ricercatori del Belgio e titolato “Mechanical and chemical recycling of solid plastic waste”. Il riciclo meccanico prevede che la plastica sia selezionata, lavata e poi sminuzzata da una macchina in scagliette finissime chiamate flakes. Queste scagliette sono poi trasformate in granuli, che sono più comodi per essere riutilizzati e trasformati a loro volta in nuovi oggetti di plastica. Ciascuna di queste fasi, però, è complicata e presenta dei problemi. 



(Chris McGrath/Getty Images)

La plastica va raccolta
A seconda di come si fa la raccolta differenziata – e a seconda di come le amministrazioni cittadine raccolgono i rifiuti – cambia il modo di riciclare. Nei paesi europei, per esempio, l’UE ha dato la priorità agli imballaggi di plastica. La Commissione europea ha approvato una direttiva aggiornata nel 2018 che fissa obiettivi ambiziosi per la raccolta e il riciclo degli imballaggi (entro il 2025 il 50 per cento di quelli di plastica dovrà essere riciclato) e stabilisce la creazione di incentivi economici.

Grazie alla direttiva, integrata dalla legislazione nazionale, in Italia la raccolta degli imballaggi ha un percorso di valorizzazione definito e genera un corrispettivo economico per le amministrazioni locali, che ricevono un contributo ambientale a seconda della purezza degli imballaggi di plastica che raccolgono. Questo significa che in Italia il riciclo degli imballaggi è efficiente: secondo dati del Conai, il Consorzio Nazionale Imballaggi, il 46 per cento di quelli di plastica è riciclato – manca poco agli obiettivi europei. Il problema è che per tutti gli altri rifiuti in plastica non è previsto il riciclaggio, spesso perchè non tecnologicamente realizzabile. I comuni spingono quindi per la raccolta differenziata dei soli imballaggi e moltissima plastica finisce nell’indifferenziato: circa il 15 per cento dei rifiuti urbani indifferenziati è costituito da plastica, che ha molta meno possibilità di essere riciclata mentre è il componente più energetico dei rifiuti se questi vengono bruciati.

La plastica va selezionata
Gli oggetti di plastica che buttiamo nella spazzatura non sono fatti tutti con lo stesso materiale e non si possono riciclare tutti allo stesso modo. Quando arrivano nell’impianto di riciclo, i rifiuti plastici devono anzitutto essere separati gli uni dagli altri. La plastica raccolta può essere selezionata sulla base di vari criteri, come la forma, la densità, la dimensione, il colore o la composizione chimica. Quest’ultima è la caratteristica più importante, perché ciascun oggetto di plastica è prodotto con un polimero diverso, cioè con una macromolecola sintetica, o con un mix di polimeri, e non tutti si possono riciclare assieme e con la stessa facilità.

Esistono molti metodi meccanici e automatici per selezionare e separare i vari rifiuti di plastica, alcuni dei quali si fanno all’inizio del processo e altri alla fine, dopo la macinatura. In alcuni casi è usato un getto d’aria per separare i materiali più leggeri da quelli più pesanti, in altri si usa un sistema di separazione per “flottazione” in acqua per distinguere i materiali più densi che vanno a fondo da quelli che galleggiano, in altri ancora si usano i raggi X, e così via.

Certi materiali sono più facili di altri da selezionare. Per esempio il polietilene tereftalato – cioè il PET, la plastica di cui sono fatte le bottiglie d’acqua minerale – è uno dei polimeri con tasso di riciclo maggiore perché è facile da separare e da processare. I processi di separazione più raffinati richiedono anche l’intervento manuale di persone che, dopo la prima scrematura fatta dai macchinari, dividono le bottiglie di latte dai vasetti dello yogurt e da altri rifiuti. Ma alla fine rimane quasi impossibile fare una separazione perfetta, e il recupero non è mai totale. Se i materiali non sono separati correttamente, o non sono divisibili tra loro, sono macinati assieme in quello che è chiamato in gergo tecnico “plasmix”, cioè vari polimeri mischiati che sono molto difficili da riutilizzare oppure sono scartati. Il risultato è che una parte non trascurabile della plastica raccolta per essere riciclata non è selezionata per il riciclo.

La plastica è spesso impura
I rifiuti di plastica che gettiamo nella spazzatura provengono in gran parte dagli imballaggi, e per questo sono quasi sempre contaminati da sostanze organiche (il cibo) e da sostanze inorganiche non polimeriche (tutto quello che non è plastica, come per esempio la carta o la colla dell’etichetta sulle bottigliette d’acqua). I rifiuti di plastica, prima o dopo il processo di selezione, sono lavati meccanicamente più di una volta, ma capita che siano sono troppo contaminati e che alla fine sia difficile o impossibile portare a termine il processo di riciclo.

La plastica riciclata non è quasi mai come quella vergine
La carta e il vetro riciclati, se sono riciclati per bene, sono quasi indistinguibili da quelli vergini: un quaderno può essere riciclato in un nuovo quaderno. Al contrario un fustino del detersivo non è praticamente mai riciclato in un altro fustino del detersivo. In inglese si dice che la plastica non è “recycled”, ma “downcycled”, perché il risultato del processo è quasi sempre qualcosa di meno pregiato e meno valido dal punto di vista commerciale.

Questa degradazione è provocata da due fattori. Il primo è che il recupero meccanico della plastica non produce mai un polimero puro, ma un mix di polimeri che crea materiali meno pregiati, o per caratteristiche funzionali (è meno flessibile, meno resistente al calore) o per caratteristiche estetiche (è meno lucido, più difficile da levigare). Il secondo fattore che crea la degradazione riguarda il processo stesso di riciclo, che in alcuni casi sminuzza e in altri scalda i polimeri. In questo caso si parla di degradazione termomeccanica. Inoltre anche i polimeri più puri e meglio lavorabili non sono riciclabili quanto si vuole e alla meglio hanno pochi cicli di vita (spesso due soltanto) prima di dover essere buttati definitivamente. Un altro dei problemi della plastica, infatti, è che non si può riciclare all’infinito. 



(Paula Bronstein/Getty Images)

Manca l’incentivo economico
Abbiamo visto che il recupero meccanico della plastica è complesso, richiede manodopera umana e macchinari, e inoltre restituisce un prodotto quasi sempre inferiore a quello creato con plastica vergine. Per questo, il riciclo della plastica è un business poco sostenibile e potenzialmente in perdita, se si escludono incentivi e sgravi pubblici. Come ha scritto il Guardian, alla fine del 2019, con il prezzo del petrolio molto basso, per la prima volta nella storia il prezzo sul mercato delle scagliette (flakes) di plastica riciclata ha superato quello della plastica vergine.

E poi c’è il fatto che spediamo la plastica in giro per il mondo
La scarsa convenienza economica del riciclare plastica è diventata evidente a partire dal 2018. Prima di allora, il 70 per cento circa dei rifiuti plastici del mondo, in gran parte prodotto in Europa e Nordamerica, era raccolto, imbarcato su navi cargo e spedito in Cina: l’intero processo era più conveniente che riciclare la plastica sul posto. Il riciclo della maggior parte della plastica del mondo era dunque lasciato alla Cina, e spesso le cose non funzionavano: molti rifiuti erano abbandonati in discarica o dispersi nell’ambiente.

A partire dal gennaio 2018, però, il governo cinese ha approvato regole più severe, ha vietato l’importazione di 24 tipi di materiali e ha imposto che i rifiuti fossero contaminati al massimo per lo 0,5 per cento. In questo modo, l’invio in Cina di rifiuti di plastica si è praticamente interrotto e le filiere del riciclo in Europa e Stati Uniti sono andate in crisi. Successivamente la Thailandia, il Vietnam, l’India e la Malesia hanno cominciato ad accettare plastica, ma anche loro hanno messo regole più stringenti dopo aver avuto problemi ambientali. A marzo del 2019, poco dopo le nuove regole cinesi, il New York Times raccontava che alcune grandi città americane avevano già smesso del tutto di riciclare la plastica. A Memphis i rifiuti erano mandati in discarica, a Philadelphia bruciati nei termovalorizzatori perché, scriveva il giornale, “i costi” erano “saliti alle stelle”.

Il costo ambientale
L’argomento principale contro chi dice che riciclare la plastica costa troppo è che spesso chi fa i conti non riesce a guardare oltre il proprio bilancio. La plastica riciclata costa di più della plastica vergine se si tiene conto unicamente del processo di produzione, ma appena si alza un po’ lo sguardo le cose cambiano. «Il costo ambientale non è mai internalizzato», dice Valeria Frittelloni, responsabile del Centro Nazionale dei rifiuti e dell’economia circolare dell’Ispra. Secondo uno studio del 2019 uscito sul Marine Pollution Bulletin, inquinare gli oceani con la plastica ci è costato finora 2.500 miliardi di dollari in mancato sfruttamento delle risorse economiche date dal mare: pesca, turismo, acquacoltura – e questo senza contare gli eventuali costi di bonifica, che uno studio di Deloitte ha stimato in decine di miliardi di dollari all’anno.

C’è chi spera nel riciclo chimico
Molti analisti ed esperti sperano che i problemi e le inefficienze del riciclo meccanico della plastica potranno essere superati dal riciclo chimico o molecolare, una tecnica di cui si parla ormai da qualche anno ma che non è ancora stata applicata su larga scala. Il riciclo chimico è un processo di “depolimerizzazione”, che semplificando significa: i materiali sono scomposti chimicamente nei loro elementi più semplici e poi riutilizzati.

La tecnica più usata è la pirolisi, che usando il calore scinde i legami chimici della plastica per generare un materiale liquido che può essere usato per produrre nuovo materiale vergine. Questo significherebbe che gran parte della plastica potrebbe essere recuperata al 100 per cento. Per ora, tuttavia, il riciclo chimico è costoso e alcuni ricercatori sono scettici, perché i processi di pirolisi potrebbero rilasciare nell’ambiente tossine e sostanze tossiche. Secondo l’industria, invece, il recupero chimico porterà i tassi del riciclo della plastica ai livelli di altri materiali come la carta e i metalli.

fonte: www.ilpost.it



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