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Cosa sono le nanoplastiche e le microplastiche. Un video dell’Efsa viene in aiuto e lo spiega




Cosa sono le microplastiche e le nanoplastiche? Si tratta di frazioni di plastica, anche di dimensioni microscopiche, disperse nell’ambiente, sia acquatico che aereo, che poi finiscono per contaminare anche il cibo che assumiamo tutti i giorni. In questo video realizzato dall’Autorità per la sicurezza alimentare europea (Efsa) vengono spiegati quali sono i rischi di questi contaminanti, di cui si conosce ancora poco sulle modalità interazione
con l’organismo umano.




fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Quante microplastiche si accumulano nell’organismo? Un nuovo modello per provare a scoprirlo




Ogni giorno gli esseri umani sono esposti alle microplastiche, che entrano nell’organismo attraverso il cibo, l’acqua, l’aria e gli innumerevoli materiali plastici con i quali entrano in contatto. Una porzione di queste particelle viene escreta attraverso le feci, ma in parte si accumulano. Le domande cui è urgente rispondere sono: fino a che punto? E con quali conseguenze sulla salute?

Se sugli effetti ci sono solo indizi piuttosto vaghi derivanti da ricerche frammentarie, sulle quantità accumulate iniziano a esserci dati leggermente più consistenti. Partendo da questi, e nello specifico da 134 studi effettuati negli ultimi anni, i ricercatori dell’Università di Wageningen, nei Paesi Bassi, hanno elaborato un modello e stimato valori di accumulo per due diverse fasce d’età: l’infanzia fino ai 18 anni e l’età adulta.


Ogni giorno con il cibo e le bevande una persona assume centinaia di microplastiche, ma non è chiaro quante se ne accumulino nell’organismo

Come riferito su Environmental Science & Technology, per arrivare a elaborare un modello universale gli autori hanno preso in considerazione la quantità di microplastiche (definite come particelle del diametro compreso tra 1 micrometro e 5 millimetri) rilevate in pesci, molluschi, crostacei, acqua corrente potabile oppure in bottiglia, birra, sale e aria, per valutare quanta plastica effettivamente si ingerisce ogni giorno e quindi qual è il contributo dei vari cibi e bevande. I ricercatori hanno quindi utilizzato i dati relativi ai consumi alimentari nei diversi Paesi e nelle differenti età, perché il quantitativo di microplastiche ingerite cambia se una dieta è basata principalmente su prodotti industriali confezionati, lavorati, o meno. Infine, questi dati sono stati combinati con quelli sulle dinamiche di digestione ed escrezione, per avere un riferimento sull’accumulo che resta dopo il passaggio nell’apparato gastrointestinale e la successiva eliminazione.

Dopo aver introdotto una serie di fattori correttivi, gli autori hanno concluso che, in media, ogni essere umano ingerisce 553 microplastiche al giorno attraverso il cibo e le bibite se ha meno di 18 anni, e 883 se ne ha di più. Questi quantitativi sono pari rispettivamente, a 184 e 583 nanogrammi. Ma l’accumulo è cosa molto diversa rispetto all’ingestione, ed è inferiore rispetto a quanto suggerito in altri studi: un ragazzo, quando compie 18 anni, ha infatti accumulato 8.300 microparticelle di plastica, pari a 6,4 nanogrammi, mentre una persona che ne compie 70 ne ha incamerate 50.100, pari a 40,7 nanogrammi. Le microplastiche che arrivano dal cibo, quindi, secondo questo modello sarebbero in grandissima parte escrete.

Ora gli studi del gruppo olandese proseguono per identificare gli alimenti che sono più a rischio, e per convalidare ulteriormente questo modello che, in attesa di studi diretti (complicatissimi da condurre), rappresenta un primo riferimento per valutazioni e stime di questo tipo.

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Limitare la parte atmosferica del ciclo della plastica

 

Le particelle e fibre di microplastica generate dalla disintegrazione di rifiuti gestiti male sono oggigiorno così diffuse che hanno un ciclo planetario analogo ai cicli biogeochimici. Nella modellazione della parte atmosferica del ciclo della plastica dimostriamo che la maggior parte delle plastiche atmosferiche derivano dalla produzione retaggio dell'accumulo continuato nell'ambiente di plastiche provenienti da rifiuti. Le strade sono dominanti nelle fonti di microplastiche negli Stati Uniti occidentali, seguite dalle emissioni marine, dall'agricoltura e da polvere generate sottovento rispetto a centri abitati. Al tasso attuale di aumento della produzione delle plastiche (circa 4% l'anno) capire le fonti e le conseguenze delle microplastiche nell'atmosfera dovrebbe essere una priorità. Nell'abstract raccontano che i loro risultati suggeriscono che le microplastiche in atmosfera nella parte occidentale degli Stati Uniti derivano primariamente da fonti secondarie di ri - emissione, incluse le strade (84%), l'oceano (11%) e polvere da suoli agricoli (5%).

https://www.pnas.org/content/118/16/e2020719118


Nadia Simonini

Rete Nazionale Rifiuti Zero
 


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Le microplastiche sono il problema ambientale più pressante del nostro secolo

Le fonti principali non sono le più ovvie. In più di 8 casi su 10 le particelle microscopiche di plastica derivano dal traffico stradale. Segue l’effetto dei venti sulla plastica dispersa in mare, quindi quella abbandonata al suolo. Le discariche urbane di plastica pesano relativamente poco



C’è ormai un ciclo globale delle microplastiche, così come c’è il ciclo del carbonio. Una ‘plastificazione’ del pianeta con le particelle che passano dall’atmosfera ai suoli e alle acque. Tanto che l’inquinamento da materie plastiche è diventato il problema ambientale più pressante del 21° secolo. Lo sostiene un team di ricercatori in un nuovo studio pubblicato su PNAS, che si concentra sulla dimensione atmosferica delle microplastiche.

La ricerca combina delle osservazioni sul campo, che hanno rilevato la presenza e la concentrazione di microplastiche in diversi ambienti degli Stati Uniti occidentali, e un modello di trasporto atmosferico. La domanda che si sono posti gli studiosi è semplice: da dove vengono le micro particelle di plastica che viaggiano in atmosfera?

“Utilizzando la nostra migliore stima delle fonti di plastica e dei percorsi di trasporto elaborati dal nostro modello, la maggior parte dei continenti sono importatori netti di plastica dall’ambiente marino”, si legge nell’articolo, che individua il traffico stradale come un altro importante fattore da considerare. Questo sottolinea “il ruolo cumulativo dell’inquinamento nella quantità di plastica presente in atmosfera”. Con gravi conseguenze per la salute umana, a partire da seri disturbi dell’apparato respiratorio. Per Natalie Mahowald della Cornell University, parte del team di ricerca, “quello che stiamo vedendo in questo momento è l’accumulo di plastica mal gestita che sta aumentando. Alcune persone pensano che aumenterà di dieci volte” ogni decennio.

Praticamente nessuno dei campioni di microplastiche prelevate proveniva da quella che può sembrare la fonte più ovvia, cioè le discariche di plastica nelle città. Al contrario, il grosso delle microplastiche arriva dal traffico stradale e dagli oceani, attraverso i venti. “In modo simile ai cicli biogeochimici globali, la plastica ora si muove a spirale intorno al globo con tempi di residenza atmosferici, oceanici, criosferici e terrestri distinti”.

In base ai dati in loro possesso, i ricercatori stimano che le strade siano il fattore dominante per l’inquinamento da microplastiche negli Stati Uniti occidentali. Il traffico è legato a circa l’85% delle microplastiche presenti nell’aria, che derivano da particelle di pneumatici e pastiglie dei freni. Gli oceani sono la fonte di circa il 10% della plastica trasportata per via aerea, seguiti dal suolo nel 5% dei casi.

fonte: www.rinnovabili.it


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In Siberia oltre alla neve scendono dal cielo le microplastiche

 

Neve e microplastiche dai cieli della Siberia: un gruppo di ricerca della Tomsk State University (Russia) ha riferito di aver trovato neve inquinata da microplastiche che poi si scioglie e si infiltra nel terreno. Le indagini sulla portata della minaccia per l’ambiente (l’ennesima) sono in corso.

Gli scienziati hanno raccolto campioni di neve da 20 diverse regioni della Siberia, dalle montagne dell’Altai all’Artico, e i loro risultati preliminari confermerebbero come le fibre di plastica trasportate dall’aria si stiano infiltrando nella neve anche in zone molto remote della natura. Anche se la concentrazione più alta è stata rilevata vicino alle strade, dove vengono registrate in grandi quantità microparticelle di pneumatici per automobili.

Lo studio è partito raccogliendo e analizzando l’acqua piovana e la neve nelle vicinanze di Tomsk nell’autunno del 2020, quindi si sono effettuati campionamenti di neve su larga scala tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo perché durante questo periodo il manto nevoso è più spesso. Il percorso di rilevamento ha incluso punti in diverse regioni dal Gorno Altai (Biysk, Belokurikha) all’Artico (distretto di Tazovsky) e in ogni punto i campioni sono stati prelevati tre volte per l’elaborazione statistica dei dati.

I primi risultati dell’analisi delle precipitazioni atmosferiche raccolte vicino a Tomsk hanno mostrato come queste contenessero soprattutto fibre, mentre frammenti di forma irregolare e microsfere sono stati trovati in quantità minori. Ciò è dovuto al basso peso delle particelle, che facilita il loro spostamento da parte delle masse d’aria.

“Le persone usano la plastica da oltre un secolo e mezzo – spiega Yulia Frank, che sta partecipando alle ricerche – I polimeri sintetici non si degradano in modo efficiente e molti Paesi non sono ancora attrezzati per la raccolta e l’utilizzo mirato di questo materiale, quindi si accumulano nell’ambiente sempre più microplastiche prodotte dalla sua degradazione. È noto che una quantità significativa di microplastiche finisce nell’acqua dolce e nei sistemi marini e anche la nostra ricerca lo conferma”.

Purtroppo infatti questo è davvero l’ennesimo studio che mette in guardia il mondo dall’utilizzo massivo della plastiche, che comportano la dispersione nell’ambiente di frammenti minuscoli (generalmente più piccoli di un millimetro fino a quelli di livello micrometrico). Un recente studio ha calcolato come si siano depositate (irrimediabilmente) 14 milioni di tonnellate di microplastiche sul fondo dell’oceano.





L’inquinamento è ormai alle stelle e passa nella catena alimentare: la presenza di microplastica è stata documentata infatti in organismi marini appartenenti a specie diverse e anche con differenti abitudini alimentari. Tutti, nessuno escluso, avevano in qualche modo ingerito i minuscoli e dannosi frammenti di plastica, dalle specie planctoniche agli invertebrati, fino ai predatori.

Viste le loro piccole dimensioni, le microplastiche vengono ingerite anche attraverso la filtrazione o mangiando le prede. E finiscono quindi sulle nostre tavole, ricche di specie provenienti dalle acque.



©Reuters

Mari e oceani sono dunque talmente pieni di microplastiche che, purtroppo, ci si poteva attendere di vederle “tornare” anche dal cielo, essendo ormai parte del ciclo dell’acqua.


“È chiaro che non sono solo i fiumi e i mari a far circolare le microplastiche in tutto il mondo, ma anche il suolo, le creature viventi e persino l’atmosfera”, commenta a Reuters la Frank.

Il prossimo passo sarà valutare la concentrazione di microparticelle sintetiche nella precipitazione solida e liquida. E si temono risultati preoccupanti (di nuovo).

Fonti di riferimento: Tomsk State University / Reuters

fonte: www.greenme.it


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Microplastiche e salute: sono ubiquitarie e si portano dietro funghi, virus e batteri

 

La rivista Science dedica un lungo articolo agli effetti delle microplastiche sulla salute umana. Ed è, più che altro, un elenco di ciò che manca, che non si sa, e che sarebbe urgente comprendere, per iniziare a intraprendere misure difensive e preventive. Le microplastiche, cioè le particelle di materiali plastici con diametro inferiore ai 5 millimetri, che comprendono anche le nanoplastiche (cioè quelle con diametro inferire a un micron – millesimo di millimetro) sono ormai ubiquitarie e gli esseri umani, di conseguenza, ne ingoiano, respirano, assumono in vario modo tutti i giorni, a prescindere da dove vivano.

Il motivo è chiaro: la plastica è utilizzata in un’infinità di oggetti di uso comune, ciascuno dei quali, in varia misura, per usura, per contatto con agenti atmosferici, chimici e fisici, rilascia materiali estremamente variabili per dimensioni (i diametri medi variano di cinque ordini di grandezza) e forma (in fibre, sfere, frammenti e così via). Queste microplastiche hanno cariche elettriche, proprietà chimico-fisiche e composizioni estremamente eterogenei, a seconda dei polimeri di partenza. Come se ciò non bastasse, su di esse si formano spesso biofilm, strati gelatinosi dalla composizione più varia che spesso contengono funghi, virus e batteri ma anche sostanze chimiche. Tutto questo aiuta a capire perché i dati disponibili siano ancora scarsi, quando non assenti: studiare le interazioni tra microplastiche e corpo umano è molto difficile. 


Le microplastiche sono ormai ubiquitarie e le assumono in vario modo tutti i giorni, a prescindere da dove vivano

Mancano metodi diagnostici specifici per raccogliere i campioni, e poi isolare, quantificare e caratterizzare le microplastiche rilasciate negli alimenti, disperse in acqua (per queste ultime la concentrazione si stima vada da 0 a 104 parti per litro) o nell’atmosfera (è stato calcolato, per esempio, che nel centro di Londra ogni giorno vengono disperse tra le 575 e le 1.008 particelle fibrose ogni metro cubo di aria, a causa del logoramento di pneumatici), così come quelle che si depositano negli ambienti interni o, ancora, che derivano dal rilascio dalle bottiglie di plastica e, per i neonati e i bambini, dai biberon.

Per quanto si sa oggi, le particelle più voluminose sono escrete attraverso le feci. Ma su quelle più piccole, e più pericolose, non si sa molto, neppure in che modo e in che misura attraversino la pelle e gli epiteli interni, da quelli gastrointestinali a quelli delle vie aeree. Ci sono alcuni dati ottenuti in vitro su colture cellulari umane, di pesce o di roditore, che suggeriscono che il passaggio sia quasi sempre possibile, ma si tratta di modelli non sempre del tutto affidabili e di test nei quali le microplastiche sono standardizzate e abbastanza lontane da ciò che avviene nella vita reale. 


È possibile il trasferimento dai linfonodi agli organi e il passaggio avviene anche attraverso la placenta

Preoccupa, soprattutto, l’effetto di accumulo, sul quale non si sa quasi nulla se non che, sempre in vitro, è possibile il trasferimento dai linfonodi a organi quali i reni, l’intestino, il cervello, il fegato, e che il passaggio avviene anche attraverso la placenta. Sugli effetti della deposizione negli organi, per ora, ci sono solo indicazioni generiche quali la possibilità che le microplastiche scatenino infiammazioni croniche e allergie. A complicare il quadro ci si mettono le contaminazioni, quasi sempre presenti. La plastica è infatti ideale per l’insediamento di specie batteriche, virali e fungine, così come, in certi casi (a seconda della carica elettrica sulla superficie), per la formazione di complessi con sostanze chimiche e tossine che possono formare quella che viene chiamata bio-corona (uno strato esterno a ogni particella i cui effetti e comportamenti nel contatto con l’organismo umano sono del tutto sconosciuti).

C’è insomma moltissimo da fare, e gli autori invitano con forza a intraprendere questi studi, che oggi sono resi possibili dall’impiego dei big data, dalla condivisione dei dati e dall’intelligenza artificiale, che può elaborare molte più variabili rispetto a quanto possa fare un singolo ricercatore. È indispensabile che siano mantenuti e lanciati programmi come quello sponsorizzato dall’Unione Europea nell’abito di Horizon 2020, intitolato Microplastics & Health, e che ne siano finanziati altri simili, multidisciplinari, internazionali e di ampio respiro, perché con le plastiche, micro e nano, faremo i conti ancora per moltissimi anni, anche se dovessimo smettere di utilizzarle.

fonte: www.il fattoalimentare.it


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Plastica: ascesa e caduta di un mito creato negli anni ’30. Articolo tratto dall’Almanacco della scienza del Cnr

 

Proponiamo ai lettori questo interessante articolo ripreso dall’Almanacco della scienza del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) sulla storia della plastica, passata da grande novità negli anni ’30 a uno degli elementi più inquinanti del globo 90 anni dopo.

A lungo simbolo positivo di progresso, la plastica è un classico esempio di come, nel giro di pochi decenni, si siano trasformati i valori del sentire comune. Dopo i primi tentativi di produrre oggetti con celluloide e bachelite, il grande impulso alla produzione di massa di beni in plastica parte dagli anni ’30 del secolo scorso, con l’utilizzo in scala industriale del petrolio come materia prima. Come spesso avviene, sono le finalità militari delle guerre mondiali a dare un determinante impulso allo sviluppo di una tecnologia: in questo caso la necessità di elaborare materiali sintetici che sostituissero quelli naturali, difficilmente reperibili. Negli anni ’50 c’è il vero e proprio boom della plastica, che entra nelle case di tutti sotto forma di prodotti di uso comune, che divengono icone di ottimismo e di benessere, non a caso vengono immortalati anche dalla Pop Art. Oggi quelle stesse qualità positive di solidità e resistenza dei prodotti in plastica si sono trasformate in una minaccia
per l’ambiente.


Il grande impulso alla produzione di beni in plastica parte dagli anni ’30 del secolo scorso, con l’utilizzo in scala industriale del petrolio

“La plastica, alla cui scoperta l’Italia ha contribuito in maniera determinante con Giulio Natta, premio Nobel per la Chimica nel 1963 e fondatore dell’Istituto di ricerca in chimica macromolecolare del Consiglio nazionale delle ricerche, ha svolto un ruolo fondamentale in settori chiave, come l’imballaggio alimentare e non, i trasporti, l’elettronica, le costruzioni”, spiega Mario Malinconico dell’Istituto per i polimeri, compositi e biomateriali (Ipcb) del Cnr. “Le materie plastiche sono ovunque e hanno rivoluzionato moltissimi aspetti della vita quotidiana, grazie alla loro versatilità. Si stima che se dovessimo sostituire la plastica con cui realizziamo contenitori rigidi e flessibili, imballaggi in film e in schiuma con i materiali tradizionali come vetro, metalli, legno, si avrebbe un costo ambientale ed energetico tra le quattro e le sette volte superiori. Tuttavia, esse portano con sé un rischio: essendo materiali di sintesi prodotti in laboratorio, non si degradano in natura, dove non esistono enzimi in grado di ‘digerirli’. La loro massiccia dispersione negli ecosistemi, dovuta soprattutto al nostro smodato utilizzo di imballaggi con un ciclo di vita estremamente ridotto, determina un serio rischio per l’ambiente. Sottoposti all’azione degli agenti atmosferici, infatti, gli oggetti di plastica si dividono in parti sempre più piccole: è così che nascono le famigerate micro e nanoplastiche, la cui pervasività e dannosità sono ormai tristemente note”.

Le microplastiche e nanoplastiche costituiscono un pericolo non solo per mari e fiumi, su cui finora si era concentrata la ricerca, ma anche per la struttura dei terreni e per le possibili alterazioni che un accumulo potrebbe generare sulla capacità dei suoli di assimilare il carbonio. “È necessario sottolineare che il carbonio da cui si ottengono i polimeri, alla base delle materie plastiche, è un carbonio fossile, estratto dagli strati interni della Terra, il cui rilascio modifica il bilancio totale di carbonio presente in atmosfera. In questo senso, la plastica ha una funzione di ‘tampone’, poiché intrappola il carbonio di origine fossile in un materiale durevole. Se non venissero disperse nell’ambiente, le plastiche non creerebbero problemi di inquinamento”, conclude il ricercatore. “Intercettate con un efficiente circuito di raccolta differenziata, potrebbero essere riciclate più e più volte, prima di recuperarne il valore energetico. Oggi si stanno sviluppando anche processi di depolimerizzazione efficienti per riottenere le molecole costituenti e rifare i polimeri. Altra risposta della tecnologia è la cosiddetta bioplastica, ricavata da fonti rinnovabili, biodegradabile e compostabile, che si sta affermando nel settore dell’imballaggio ultrasottile e della raccolta della Forsu (Frazione organica del rifiuto solido urbano)”.

Edward Bartolucci articolo tratto dall’Almanacco della scienza del Cnr

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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La plastica nell’Artico proviene in gran parte da abiti in poliestere

Uno studio canadese ha analizzato le particelle di plastica presenti nell’Artico, scoprendo che nel 73 per cento dei casi si tratta di poliestere.








La plastica presente nell’oceano Artico proviene in gran parte dalle fibre sintetiche con le quali sono fabbricati molti dei capi d’abbigliamento che vengono utilizzati in tutto il mondo. A spiegarlo è uno studio curato da un gruppo di scienziati dell’organizzazione non governativa canadese Ocean Wise, pubblicato dalla rivista Nature il 12 gennaio.

Campioni prelevati in 71 siti tra America, Europa e Polo Nord

I ricercatori hanno infatti analizza alcuni campioni raccolti tra 2 e 8 metri di profondità in 71 siti presenti in America del Nord, nell’Europa settentrionale e direttamente nella regione polare. In alcuni caso, come nel mare di Beaufort, tra l’Alaska e il Canada, il campionamento si è spinto fino a mille metri al di sotto della superficie dell’oceano. I dati indicano che in ciascun metro cubo di acqua sono presenti 40 particelle di microplastica. Grazie a uno spettrometro infrarosso, è stato quindi possibile analizzare la composizione di tali particelle. Nel 92,3 per cento dei casi si tratta appunto di fibre plastiche. E nel 73,3 per cento di poliestere.



Frammenti di plastica raccolti dal mare © Ingimage
Ma non è tutto: al fine di comprendere la ragione della concentrazione nell’Artico, gli scienziati hanno analizzato anche le correnti. “L’abbondanza di particelle è correlata alla longitudine – hanno spiegato nello studio -. Nell’Artico orientale è presente un quantitativo tre volte più importante rispetto alla porzione occidentale”.
“La plastica arriva dalle abitazioni e dai centri di trattamento delle acque”

Secondo quando indicato da Peter Ross, docente dell’università della Colombia Britannica, a Radio Canada “le analisi indicano che sono le abitazioni e le stazioni di trattamento delle acque che rilasciano microfibre che finiscono per inquinare l’Artico. C’è plastica ovunque nelle nostre vite”.

Al fine di fronteggiare il problema, secondo lo scienziato ciascuno di noi potrebbe intervenire installando un filtro nelle proprie lavatrici, “capace di diminuire la perdita di fibre di poliestere del 95 per cento”. Ma si possono anche scegliere abiti più robusti, che non perdono facilmente materia (e che, tra l’altro, durano di più nel tempo). Ciò che serve, però, è che a cambiare siano non solo le abitudini dei consumatori ma anche i metodi di produzione e i modelli di business delle aziende.

fonte: www.lifegate.it


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Nanoplastiche e salute

Una ricerca mette in guardia sui rischi a medio e lungo termine dell'ingestione di frammenti di plastica presenti nell'ambiente.



Uno studio condotto da un team di ricercatori spagnoli e portoghesi (Universitat Autònoma de Barcelona, Creaf, Cesam e Università di Aveiro), pubblicato dalla rivista scientifica Science Bulletin (leggi QUI), mette in luce gli effetti delle nanoplastiche sulla composizione e diversità del microbioma intestinale, con possibili rischi per la salute umana causate da alterazioni del sistema immunitario, endocrino e nervoso.


Generalmente parliamo microplastiche quando i frammenti hanno una dimensione compresa tra 0,1 e 5000 micrometri (da 0,001 a 5 millimetri), mentre con nanoplastiche s'intendono particelle con diametro da 0,001 a 0,1 micrometri.

Studi sull'effetto delle nanoplastiche sono stati condotti in passato in organismi acquatici come molluschi, crostacei o pesci; più recentemente anche attraverso analisi in vitro, utilizzando colture cellulari di pesci e mammiferi, che hanno consentito agli scienziati di analizzare i cambiamenti nell'espressione genica associati alla presenza di nanoplastiche da un punto di vista tossicologico. Secondo i ricercatori, la maggior parte dei tratti neurologici, endocrini e immunologici di questi vertebrati sono molto simili a quelli degli esseri umani, tanto che alcuni degli effetti osservati in questi modelli potrebbero essere applicati anche all'uomo



Comprendere e analizzare il processo attraverso il quale i frammenti di plastica penetrano nell'organismo e lo danneggiano è fondamentale, così come lo è determinare con precisione la quantità e la tipologia delle nanoplastiche che inquinano l'ambiente. Per questo motivo, i ricercatori ritengono necessario studiare ulteriormente i meccanismi e gli effetti specifici sui modelli di cellule umane, oltre ad armonizzare le metodologie di analisi al fine di condurre misurazioni corrette della quantità di nanoplastiche presenti nei diversi ecosistemi.

"L'obiettivo di questo articolo non è creare allarmismo, ma mettere in guardia sul fatto che la plastica può essere presente in quasi tutto ciò che ci circonda, non si disintegra e noi ne siamo costantemente esposti - afferma Mariana Teles, ricercatrice presso l'Universitat Autònoma de Barcelona -. Allo stato attuale, possiamo solo speculare sugli effetti a lungo termine sulla salute umana, anche se esistono evidenze in diversi studi che descrivono alterazioni ormonali e immunitarie nei pesci esposti alle nanoplastiche e che potrebbero essere estese agli esseri umani”.

Una volta ingerito, fino al 90% dei frammenti di plastiche che raggiungono l'intestino viene escreto. Tuttavia, una parte si frammenta in nanoplastiche che sono in grado, per le loro dimensioni, di penetrare nelle cellule e provocare effetti dannosi. Lo studio descrive alterazioni nell'assorbimento del cibo, reazioni infiammatorie nelle pareti intestinali, cambiamenti nella composizione e nel funzionamento del microbioma intestinale, effetti sul metabolismo del corpo, oltre ad alterazioni nelle risposte immunitarie.

L'articolo mette in guardia sulla possibilità che un'esposizione a lungo termine alla plastica, accumulata nel corso delle generazioni, potrebbe condurre a cambiamenti imprevedibili anche nel genoma stesso, come è stato osservato in alcuni modelli animali.

Vedi anche: Insights into nanoplastics effects on human health

fonte: www.polimerica.it



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Microplastiche in frutta e verdura. Lo studio dell’Università Catania fa sorgere nuovi interrogativi. L’articolo di FreshCutNews


Riceviamo volentieri e pubblichiamo questa nota sulla presenza di microplastiche nel cibo pubblicata sul sito FreshCutNews insieme a una lunga intervista a una delle autrici della ricerca, Margherita Ferrante. È doveroso sottolineare che il riscontro di micro- e nanoplastiche nella frutta e nella verdura è importante, ma non bisogna essere allarmisti. Dopo avere appurato la presenza di queste particelle, il problema è fare una seria valutazione del rischio effettivo. La stessa autrice dello studio precisa che si deve ancora “dimostrare quale sia il reale danno che viene dalle microplastiche e, soprattutto, se questo danno ci sia”.

Come dire, noi le abbiamo trovate, ma fino a quando non ci sarà una valutazione del potenziale rischio non bisogna strumentalizzare la notizia. Ferrante precisa che è in corso uno studio sui pesci e che una ricerca simile è stata fatta tempo fa sull’acqua minerale riscontrando anche in quel caso la presenza di micro- e nanoplastiche. Un gruppo di ricercatori italiani ha trovato microplastiche all’interno di frutta e verdura



Un gruppo di ricercatori italiani ha trovato microplastiche all’interno di frutta e verdura


Uno studio, per la prima volta al mondo, riporta le concentrazioni di microplastiche (grandezza inferiore a 10 micrometri, ovvero 10 millesimi di millimetro) contenute in mele, pere, patate, carote, lattuga e broccoli. La scoperta sconcertante è che le microplastiche, una volta degradate dal terreno, sono assorbite dagli ortaggi, entrano nella parte edibile di frutta e verdura e vengono assunte dall’uomo. I dati raccolti dalla ricerca condotta dal gruppo del Laboratorio di Igiene ambientale e degli alimenti dell’Università di Catania, mostrano una contaminazione variabile. Con dimensioni medie da 1,51 a 2,52 micrometri, queste microplastiche degradate hanno una presenza media variabile da 223 mila a 52 mila particelle per grammo di vegetale in frutta e verdura. L’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) ha già chiesto alla Commissione Europea un primo passo verso una futura valutazione dei potenziali rischi per i consumatori derivanti dalla presenza di micro- e nanoplastiche negli alimenti.

“Abbiamo potuto realizzare questo studio – spiega Margherita Ferrante, docente di Igiene generale e applicata all’Università di Catania, nonché direttrice del laboratorio – grazie ad un nuovo metodo di analisi brevettato quest’anno, che ci permette di analizzare particelle piccolissime delle dimensioni inferiori ai 10 micrometri fino a 100 nanometri. Fino ad ora non si era riusciti ad osservare microplastiche di dimensioni più piccole del mezzo millimetro”. 



Tra i vegetali analizzati, la lattuga è quella con la minore concentrazione di microplastiche

Già con un livello di osservazione più approssimativo, era stato accertato che ingeriamo microplastiche per l’equivalente del peso un bancomat a settimana (5 grammi circa alla settimana, circa 21 grammi al mese). “Con questa nuova ricerca apprendiamo che la plastica che ingeriamo è anche di dimensioni finora non esplorate se si considerano le particelle più degradate e quindi quasi invisibili – precisa Margherita Ferrante – Tra gli ortaggi e la frutta analizzata, le mele sono quelle che ne assorbono una maggior quantità. Per ogni grammo di frutta ci sono 3 microgrammi di plastica. La lattuga, per contro, è quella che presenta meno microplastiche nella sua composizione: 0,7 microgrammi per ogni grammo di prodotto. Adesso stiamo cercando di calcolare il peso effettivo della materia inerte sul totale del prodotto vegetale e stiamo per chiudere anche una ricerca analoga sulle specie ittiche che prospetta risultati sicuramente interessanti”.

Tra le plastiche più presenti rinvenute dentro gli ortaggi analizzati, ci sono il polietilene e il polistirolo che sono i materiali più usati in agricoltura, nelle serre, ad esempio, per le pacciamature, o ancora, nei vivai. La ricerca è stata pubblicata nei giorni scorsi con il titolo “Micro and nano-plastics in edible fruit and vegetables. The first diet risks assessment for the general population” sulla rivista di settore Environmental Research (Elsevier).

Articolo di Mariangela Latella publicato su FreshCutNews

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Micro e nanoplastiche trovate nei tessuti umani

Una nuova tecnica presentata al meeting ACS rivela la presenza di plastica nel corpo umano




Il 18 agosto un team di ricercatori ha presentato all’ American Chemical Society (ACS) Fall 2020 Virtual Meeting & Expo I risultati di una ricerca che ha analizzato 47 campioni di tessuto umano con la spettrometria di massa e che ha scoperto che «contenevano monomeri, o componenti plastici».

L’inquinamento da plastica del suolo, dell’acqua e dell’aria è un problema globale e gli animali e gli esseri umani possono ingerire le particelle prodotte dalla degradazione della plstica, con conseguenze sulla salute ancora incerte. Ora, gli scienziati riferiscono di aver per la prima volta esaminato micro e nanoplastiche negli organi e nei tessuti umani.

Charles Rolsky, un ricercatore dell’Arizone State University che ha presentato lo studio al meeting ACS, spiega che «Troviamo le macro micro e nano plastiche praticamente in ogni luogo del mondo e in pochi decenni siamo passati dal vedere la plastica come un meraviglioso vantaggio a considerarla una minaccia. Ci sono prove che la plastica si sta facendo strada nei nostri corpi, ma pochissimi studi l’hanno cercata lì. E a questo punto, non sappiamo se questa plastica sia solo un fastidio o se rappresenti un pericolo per la salute umana».

Le microplastiche sono frammenti di plastica di diametro inferiore a 5 mm, le nanoplastiche sono ancora più piccole, con diametri inferiori a 0,050 mm. La ricerca sugli animali selvatici e modelli animali di laboratorio ha collegato l’esposizione alla micro e nanoplastica a infertilità, infiammazione e cancro, ma i risultati sulla salute nelle persone sono attualmente sconosciuti. Precedenti studi hanno dimostrato che la plastica può passare attraverso il tratto gastrointestinale umano, ma Rolsky e Varun Kelkar, un altro autore della nuova ricerca e anche lui dell’Arizona State University, stanno studiando se queste minuscole particelle si accumulano negli organi umani e come rilevarle. Per scoprirlo, i ricercatori hanno collaborato con Diego Mastroeni dell’ ASU-Banner Neurodegenerative Disease Research Center, per ottenere campioni da un ampio archivio di tessuti cerebrali e corporei che serve a studiare le malattie neurodegenerative, come l’Alzheimer. Sono stati prelevati campioni da polmoni, fegato, tessuto adiposo, milza e reni – organi suscettibili di essere esposti a monomeri plastici e microplastiche e di filtrarli o raccoglierli. Per sviluppare un metodo e testarlo, il team ha aggiunto perline di nano/microplastiche a questo set di campioni. Quindi, ha analizzato il campione con la citometria a flusso e i ricercatori hanno così dimostrato di poter rilevare le perle che avevano introdotto nei campioni. Poi hanno anche creato un programma per computer che converte le informazioni sul conteggio delle particelle di plastica in unità di massa e area superficiale e hanno in programma di condividere questo strumento online in modo che altri ricercatori possano riportare i loro risultati in modo standardizzato. Halden è convinto che «Questa risorsa condivisa aiuterà a costruire un database sull’esposizione alla plastica in modo da poter confrontare le esposizioni in organi e gruppi di persone nel tempo e nello spazio geografico».

All’ACS sottolineano che «Il metodo della citometria a flusso ha consentito ai ricercatori di dimostrare di poter rilevare nano/microplastiche dai tessuti a cui erano state aggiunte. I ricercatori hanno anche dimostrato l’efficacia dell’uso della spettrometria μ-Raman per studiare la contaminazione ambientale con microplastiche, tra cui policarbonato (PC), polietilene tereftalato (PET) e polietilene (PE). Il metodo della citometria a flusso ha consentito ai ricercatori di dimostrare di poter rilevare nano/microplastiche dai tessuti a cui erano state aggiunte. I ricercatori hanno anche dimostrato l’uso della spettrometria μ-Raman per studiare la contaminazione ambientale con microplastiche, tra cui policarbonato (PC), polietilene tereftalato (PET) e polietilene (PE)».

Successivamente, i ricercatori hanno utilizzato la spettrometria di massa per analizzare 47 campioni di fegato e tessuto adiposo umani. A questi campioni non è stato aggiunto nessun materiale ma il team ha trovato comunque una contaminazione da plastica sotto forma di monomeri, o frammenti di plastica, in ogni campione. Il bisfenolo A (BPA), ancora utilizzato in molti contenitori per alimenti nonostante possa provocare problemi di salute, è stato trovato in tutti i 47 campioni umani.

Per quanto ne sanno i ricercatori, il loro studio è il primo ad esaminare la presenza di monomeri, nano e microplastiche negli organi umani di individui con una storia di esposizione ambientale nota. Halden evidenzia che «I donatori di tessuti hanno fornito informazioni dettagliate sul loro stile di vita, dieta ed esposizioni professionali. Poiché questi donatori hanno storie così ben definite, il nostro studio fornisce i primi indizi sulle potenziali fonti e vie di esposizione di micro e nanoplastiche».

Ma la gente dovrebbe preoccuparsi per l’elevata frequenza con la quale è stata rilevata plastica nei tessuti umani? Kelkar conclude: «Non vogliamo mai essere allarmisti, ma è preoccupante che questi materiali non biodegradabili che sono presenti ovunque possano penetrare e accumularsi nei tessuti umani, e non conosciamo i loro possibili effetti sulla salute. Una volta che avremo un’idea migliore di cosa c’è nei tessuti, potremo condurre studi epidemiologici per valutare i risultati sulla salute umana. In questo modo, possiamo iniziare a comprendere i potenziali rischi per la salute, se ce ne sono».

fonte: www.greenreport.it
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Antibiotici e nanoparticelle di plastica: nelle piante c’è anche questo

















Anche se, rispetto all’utilizzo che se ne fa negli uomini e soprattutto negli animali da allevamento i quantitativi impiegati sono molto minori, gli antibiotici vengono impiegati anche sulle colture, spesso senza alcun motivo razionale. E, in questo modo, amplificano il problema delle resistenze, che si trasmettono anche così. E non è tutto: le piante assorbono dal terreno anche le nanoparticelle di plastica, che captano da acqua e terreni.

La questione degli antibiotici sparsi sulle piante alimentari – una pratica esistente da decenni, ma che sta assumendo dimensioni molto preoccupanti – fino a oggi non era mai stata studiata a fondo, e in molti casi non si conoscono neppure le quantità totali usate dai singoli paesi. Ma ora un grande studio prova a definire meglio il fenomeno. A condurlo è stata Plantwise, un circuito di 3.700 “cliniche delle piante” presente in 34 paesi nelle quali chi coltiva può incontrare esperti e trovare risposte per le infestazioni e tutti gli altri problemi legati all’agricoltura, che ha utilizzato dati di organismi quali la FAO insieme a dati raccolti internamente, e ha poi pubblicato i risultati su CABI Agriculture and Bioscience.

Innanzitutto, si legge, su 158 paesi, solo il 3% tiene un monitoraggio completo e aggiornato della somministrazione di antibiotici alle piante: un dato che, da solo, dice molto, soprattutto se si pensa che il 23% dei paesi monitora l’impiego negli umani, e il 23% quello negli animali. Eppure ce ne sarebbe bisogno: in base a quanto emerso in 436.000 documenti dei centri Plantwise di 32 paesi, sono più di 100 le colture sulle quali vengono somministrati antibiotici, e in molti casi si tratta di molecole utili o potenzialmente utili anche per l’uomo, e che quindi andrebbero impiegate con estrema cautela e parsimonia. Stando ai numeri ufficiali, ogni anno decine di tonnellate di farmaci preziosi arrivano nei campi; per esempio, solo per il riso del Sud Est asiatico si parla di 63 tonnellate di streptomicina e 7 di tetraciclina, e in alcune stagioni viene trattato fino al 10% delle coltivazioni.

Uno degli aspetti più negativi, scrivono gli autori, è poi il fatto che questi trattamenti siano spesso del tutto inutili, cioè dati per combattere cose che non hanno nulla a che vedere con le infezioni batteriche come gli insetti, perché si ritiene che gli antibiotici, meglio se in cocktail, possano avere un effetto preventivo: niente di più falso. Sono almeno 11 i protocolli di tutti i continenti tranne l’Africa nei quali si consiglia questo tipo di prevenzione.


Solo per il riso del Sud Est asiatico si parla di 63 tonnellate di streptomicina e 7 di tetraciclina, e in alcune stagioni viene trattato fino al 10% delle coltivazioni

E poi c’è un dato che davvero fa paura: è stato dimostrato che, quando gli antibiotici sono mischiati ad altri fitofarmaci, i batteri amplificano la loro capacità di sviluppare resistenza: in certi casi acquisiscono le mutazioni necessarie fino a 100.000 cicli riproduttivi prima rispetto a quanto non accada se non ci sono altri trattamenti. Ma i batteri resistenti sono poi assunti dall’uomo, soprattutto quando la verdura e la frutta sono consumate crude.

C’è infine un’altra minaccia di cui, per ora, si ha una conoscenza scarsa, ma che probabilmente sarà indagata sempre di più: la possibilità che le piante assorbano dal terreno e dall’acqua i nanomateriali presenti, soprattutto le nanoplastiche. Per capire quanto il problema sia reale, i ricercatori della University of Massachusetts di Amherst insieme a colleghi cinesi della Shandong University hanno condotto una serie di esperimenti sull’ Arabidopsis thaliana, una delle piante più utilizzate in botanica. Anche in questo caso i risultati, pubblicati su Nature Nanotechnology, sono stati preoccupanti: prove al microscopio, genetiche e molecolari condotte per settimane, marcando le piante con sostanze fluorescenti ed eseguendo diversi tipi di test dimostrano senza ombra di dubbio che le nanoplastiche di polistirene, che spesso hanno dimensioni paragonabili a quelle di una proteina o di un virus, entrano nelle cellule vegetali e lì si accumulano, in tutte le radici.

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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La plastica invisibile nell’acqua che beviamo

Washington State University: «Stiamo trovando queste materie plastiche nell'acqua potabile ma non sappiamo perché»



Lo studio “Aggregation and stability of nanoscale plastics in aquatic environment” pubblicato su Water Research da Mehnaz Shams, Iftaykhairul Alam e Indrani Chowdhury del Department of civil & environmental engineering della Washington State University (WSU) ha scoperto che le nano-particelle delle materie plastiche più comunemente utilizzate «tendono a spostarsi attraverso l’approvvigionamento idrico, specialmente nell’acqua dolce, o a stabilirsi negli impianti di trattamento delle acque reflue da dove finiscono, come fanghi, in discarica e che spesso vengono usati come fertilizzante».

Secondo Chowdhury, «Stiamo bevendo molta plastica. Stiamo bevendo diversi grammi di plastica ogni mese o giù di lì. Il che è preoccupante perché non sappiamo cosa ci accadrà dopo 20 anni».

I ricercatori della WSU hanno studiato alle nano-plastiche che raggiungono l’ambiente acquatico e Chowdury ricorda che «Si stima che ogni giorno circa otto trilioni di pezzi di microplastica passino attraverso gli impianti di trattamento delle acque reflue e finiscano nell’ambiente acquatico. Questi pezzetti di plastica possono provenire dal degrado di materie plastiche più grandi o dalle microsfere utilizzate nei prodotti per la cura della persona. Un recente studio ha dimostrato che oltre il 90% dell’acqua del rubinetto negli Stati Uniti contiene nano-materiali plastici che sono invisibili all’occhio umano».

Il nuovo studio ha analizzato dove finiscono le nanoparticelle di polietilene e polistirene, che vengono utilizzate in un numero enorme di prodotti, tra cui sacchetti di plastica, prodotti per la cura della persona, elettrodomestici da cucina, bicchieri usa e getta e materiale da imballaggio. I ricercatori hanno esaminato il comportamento delle minuscole particelle di plastica a contatto con varie sostanze, che vanno dall’acqua marina salata all’acqua contenente materiale organico.

Chowdury spiega: «Stiamo osservando tutto questo più a fondo. Perché diventano stabili e rimangono nell’acqua? Una volta che si trovano nei diversi tipi di acqua, cosa fa in modo che queste materie plastiche retino sospese nell’ambiente?»

I ricercatori hanno scoperto che mentre l’acidità dell’acqua ha uno scarso impatto su ciò che accade alla nano-plastica, il sale e la materia organica naturale sono importanti per determinare come si spostano e si depositano le materie plastiche. E dicono che «Quel che è chiaro è che minuscole materie plastiche rimangono nell’ambiente con conseguenze per la salute e l’ambiente sconosciute , I nostri impianti per l’acqua potabile non sono sufficienti per rimuovere queste micro e nano plastiche. Stiamo trovando queste materie plastiche nell’acqua potabile ma non sappiamo perché».

Ora, Chowdury e il suo team stanno studiando le tecniche per rimuovere la plastica dall’acqua e recentemente hanno ricevuto un finanziamento dallo State of Washington Water Research Center per portare avanti questa ricerca intanto, chiedono a tutti noi di «Ridurre l’impatto delle materie nano-plastiche riducendo l’utilizzo di materie plastiche monouso. Riutilizzate la plastica il più possibile».

fonte. www.greenreport.it

Microplastiche: non solo una minaccia per gli oceani

Nella lotta contro le microplastiche, occorre imparare che si tratta di una gamma complessa di materiali dalle caratteristiche mutevoli. Per questo, gli scienziati del Virginia Institute of Marine Science promuovono approcci più olistici, specie per salvaguardare la nostra salute



















Le microplastiche sono particelle microscopiche prodotte nel momento in cui forze fisiche, chimiche o biologiche rompono pezzi più grandi di detriti di plastica. Esiste, a buona ragione, una diffusa preoccupazione tra gli scienziati e l’opinione pubblica sul fatto che questi piccoli frammenti sintetici stiano influenzando negativamente gli ecosistemi marini. Tuttavia, pare che i mari e gli oceani non siano le sole vittime dell’inquinamento da microplastiche. A mettere in luce questo dato è uno studio condotto da un team di ricerca del Virginia Institute of Marine Science (USA).

Lo studio, apparso su Journal of Geophysical Research, mostra che le microplastiche sono un fenomeno globale che non può essere adeguatamente compreso o affrontato solo nel contesto dell’ambiente marino. Le materie plastiche, infatti, vengono prodotte, utilizzate e scartate a terra e si disperdono attraverso il suolo, i fiumi e l’atmosfera. Ma non solo. I ricercatori osservano che l’ambito globale della questione si estende anche alla sfera sociale e quotidiana“Dobbiamo riconoscere che l’inquinamento da microplastica è un problema internazionale che non rispetta i confini politiciafferma Meredith Seeley, co-autrice dello studio. “Come per i cambiamenti climatici e la gestione delle specie, i paesi più sviluppati e quelli emergenti dovranno cooperare per trovare soluzioni eque“. 

A questo proposito, un obiettivo dell’articolo è ottenere un più ampio riconoscimento del fatto che plastica è un termine generico per una gamma complessa di materiali che variano per composizione chimica, dimensioni, consistenza e forma, inclusi pellet, frammenti e fibre. Un ulteriore elemento di complessità è dovuto al fatto che le materie plastiche sono spesso impregnate di additivi, inclusi inibitori UV, che già da soli possono avere impatti ambientali e sulla salute.
“Le persone spesso assumono che tutte le materie plastiche siano uguali e si comportino in modo identico nell’ambiente”, afferma Robert Hale, docente del Virginia Institute of Marine Science, “ma non è affatto così”. I ricercatori, quindi, sottolineano che le caratteristiche delle microplastiche possono cambiare durante e dopo l’uso, e la complessità della gestione dell’inquinamento da microplastiche diventa ancora più complicata quando questi minuscoli frammenti entrano nell’ambiente e iniziano a mescolarsi con i materiali naturali, anche a causa delle condizioni meteorologiche (es. le piogge).

Per capire i comportamenti di questi micromateriali, gli autori raccomandano alla comunità scientifica di andare oltre gli studi di singoli habitat, gamme di dimensioni, tipi di polimeri o forme, ma di impegnarsi in approcci più sistemici e olistici che tengano in conto le mutevoli caratteristiche delle microplastiche e i loro impatti sulla salute e sugli ecosistemi.

Questo significa, dunque, doversi dotare di strumenti di analisi migliori“Per comprendere gli impatti reali delle microplastiche”, afferma Hale, “dobbiamo migliorare le nostre capacità di campionamento e analisi, inclusa la capacità di studiare le nanoplastiche. Le nanoplastiche sono particelle ancora più piccole delle microplastiche, con dimensioni che vanno da 1 nm a 1.000 nm (1 µm). Per avere un’idea della loro grandezza, si pensi che un filamento di DNA è largo circa 2,5 nm.
Hale afferma che gli attuali strumenti all’avanguardia, come i microscopi FTIR e Raman, “forniscono informazioni davvero eccezionali quando si entra in una singola particella di microplastica. Il problema, però, è che molti campioni contengono migliaia di particelle diverse e molte di queste particelle sono molto, molto piccole. Attualmente, la nostra capacità tecnologica non riesce a scendere al di sotto di 10 µm e, in termini di effetti sugli organismi, è piuttosto certo che le particelle più piccole possano essere anche le più tossiche.

Le preoccupazioni dei ricercatori, infatti, riguardano i potenziali impatti delle micro- e nanoplastiche sulla salute umana. “Ci sono preoccupazioni soprattutto sull’ingestione di microplastiche dai frutti di mare, ma gli ambienti chiusi sono la nostra più grande minaccia diretta, afferma Hale. “Molte persone trascorrono quasi tutto il loro tempo al chiuso, in spazi che sono sempre più isolati con materiali quali la schiuma di polistirolo. La nostra esposizione a microplastiche dovuta alla respirazione di polvere può avere conseguenze tossicologiche, ma ci sono ancora pochissime ricerche a riguardo“. Per far fronte a queste preoccupazioni, Hale e colleghi stanno lavorando su uno spettrometro di massa che si spera consentirà di analizzare meglio i contaminanti chimici associati alle microplastiche.

fonte: www.rinnovabili.it