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Gli orsi esposti a sostanze tossiche per la fusione dei ghiacciai

















Gli orsi polari vengono esposti a sostanze chimiche tossiche che vengono liberate a seguito della fusione dei ghiacci, provocata dal riscaldamento globale. Lo conferma uno studio, pubblicato sulla rivista Environmental Science and Technology, condotto dagli scienziati della Lancaster University, che hanno valutato le concentrazioni di sostanze sintetiche in atmosfera. Il team, guidato da Crispin Halsall, ha scoperto la presenza di composti poli e perfluorurati (PFAS) sul lato inferiore del ghiaccio artico. Gli inquinanti, spiegano gli autori, vengono rilasciati da siti di produzione in aree urbane e trasportate dal vento fino all’Artico, dove si accumulano nel ghiaccio raggiungono poi l’acqua del mare quando il ghiaccio si scioglie. Queste sostanze possono immettersi nelle catene alimentari e raggiungere gli orsi polari, di cui sembrano inibire i sistemi ormonali. Il ghiaccio marino artico tendeva a restare congelato per diversi anni, osservano gli esperti, ma ora si scioglie ogni estate a causa delle temperature medie più elevate. “In un anno – afferma Halsall – il ghiaccio può raccogliere quantitativi ingenti di sostanze inquinanti, che poi interagiscono con il manto nevoso sovrastante. Gli eventi di disgelo e fusione più precoci ei irregolari possono provocare il rilascio rapido dei composti chimici immagazzinati e una conseguente elevata concentrazione di PFAS nelle acque che circondano i banchi di ghiaccio”. “La scienza investigativa di questo tipo – conclude – può aiutarci a comprendere le dinamiche del comportamento degli inquinanti e identificare i rischi chiave, in particolare quelli legati al cambiamento climatico. Di conseguenza, speriamo che queste informazioni possano guidare la legislazione internazionale in modo da vietare l’uso di sostanze chimiche pericolose per l'ambiente e la fauna globale”.

fonte: www.agi.it


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In Siberia oltre alla neve scendono dal cielo le microplastiche

 

Neve e microplastiche dai cieli della Siberia: un gruppo di ricerca della Tomsk State University (Russia) ha riferito di aver trovato neve inquinata da microplastiche che poi si scioglie e si infiltra nel terreno. Le indagini sulla portata della minaccia per l’ambiente (l’ennesima) sono in corso.

Gli scienziati hanno raccolto campioni di neve da 20 diverse regioni della Siberia, dalle montagne dell’Altai all’Artico, e i loro risultati preliminari confermerebbero come le fibre di plastica trasportate dall’aria si stiano infiltrando nella neve anche in zone molto remote della natura. Anche se la concentrazione più alta è stata rilevata vicino alle strade, dove vengono registrate in grandi quantità microparticelle di pneumatici per automobili.

Lo studio è partito raccogliendo e analizzando l’acqua piovana e la neve nelle vicinanze di Tomsk nell’autunno del 2020, quindi si sono effettuati campionamenti di neve su larga scala tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo perché durante questo periodo il manto nevoso è più spesso. Il percorso di rilevamento ha incluso punti in diverse regioni dal Gorno Altai (Biysk, Belokurikha) all’Artico (distretto di Tazovsky) e in ogni punto i campioni sono stati prelevati tre volte per l’elaborazione statistica dei dati.

I primi risultati dell’analisi delle precipitazioni atmosferiche raccolte vicino a Tomsk hanno mostrato come queste contenessero soprattutto fibre, mentre frammenti di forma irregolare e microsfere sono stati trovati in quantità minori. Ciò è dovuto al basso peso delle particelle, che facilita il loro spostamento da parte delle masse d’aria.

“Le persone usano la plastica da oltre un secolo e mezzo – spiega Yulia Frank, che sta partecipando alle ricerche – I polimeri sintetici non si degradano in modo efficiente e molti Paesi non sono ancora attrezzati per la raccolta e l’utilizzo mirato di questo materiale, quindi si accumulano nell’ambiente sempre più microplastiche prodotte dalla sua degradazione. È noto che una quantità significativa di microplastiche finisce nell’acqua dolce e nei sistemi marini e anche la nostra ricerca lo conferma”.

Purtroppo infatti questo è davvero l’ennesimo studio che mette in guardia il mondo dall’utilizzo massivo della plastiche, che comportano la dispersione nell’ambiente di frammenti minuscoli (generalmente più piccoli di un millimetro fino a quelli di livello micrometrico). Un recente studio ha calcolato come si siano depositate (irrimediabilmente) 14 milioni di tonnellate di microplastiche sul fondo dell’oceano.





L’inquinamento è ormai alle stelle e passa nella catena alimentare: la presenza di microplastica è stata documentata infatti in organismi marini appartenenti a specie diverse e anche con differenti abitudini alimentari. Tutti, nessuno escluso, avevano in qualche modo ingerito i minuscoli e dannosi frammenti di plastica, dalle specie planctoniche agli invertebrati, fino ai predatori.

Viste le loro piccole dimensioni, le microplastiche vengono ingerite anche attraverso la filtrazione o mangiando le prede. E finiscono quindi sulle nostre tavole, ricche di specie provenienti dalle acque.



©Reuters

Mari e oceani sono dunque talmente pieni di microplastiche che, purtroppo, ci si poteva attendere di vederle “tornare” anche dal cielo, essendo ormai parte del ciclo dell’acqua.


“È chiaro che non sono solo i fiumi e i mari a far circolare le microplastiche in tutto il mondo, ma anche il suolo, le creature viventi e persino l’atmosfera”, commenta a Reuters la Frank.

Il prossimo passo sarà valutare la concentrazione di microparticelle sintetiche nella precipitazione solida e liquida. E si temono risultati preoccupanti (di nuovo).

Fonti di riferimento: Tomsk State University / Reuters

fonte: www.greenme.it


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La bomba climatica che dorme in fondo all’Artico

Un team di 25 ricercatori, supportati da una rete di oltre 400 scienziati in 21 paesi, è riuscito per la prima volta a definire quanto metano e quanta CO2 è racchiusa sul fondale ghiacciato della regione









Metano: 60 miliardi di tonnellate. CO2: 560 miliardi di tonnellate. Ecco la quantità di gas serra che è racchiusa dal permafrost sui fondali ghiacciati dell’oceano Artico. Una quantità abnorme: basti pensare che tutte le attività umane dalla rivoluzione industriale a oggi hanno emesso in atmosfera “solo” 500 mld di t di CO2.

Numeri che vediamo per la prima volta. Fino ad ora, infatti, mancava un stima esatta dello stock di gas serra imprigionati in fondo all’Artico. Per riuscire a scattare una fotografia precisa della situazione, il team di 25 ricercatori si è appoggiato al Permafrost Carbon Network, una rete internazionale di scienziati con più di 400 membri provenienti da oltre 130 istituti di ricerca sparsi in 21 paesi diversi.

A cosa serve la stima esatta dei gas serra racchiusi dall’Artico? Principalmente, a migliorare i modelli climatici predittivi con cui elaboriamo le traiettorie climatiche future, anche a lungo termine. Modelli che sono la base scientifica su cui gli Stati costruiscono le loro politiche, oltre che la stella polare della diplomazia climatica.

Ovviamente, questo immenso volume di gas serra non sarà rilasciato in tempi brevi. “Si prevede che verrà rilasciato per un lungo periodo di tempo, ma è ancora una quantità significativa”, spiega Jennifer Frederick, tra le autrici della ricerca.

Lo studio fornisce anche una stima accurata della velocità con cui questi gas serra stanno raggiungendo la superficie marina. Il team stima che il permafrost sottomarino sia in corso di scongelamento fin dalla fine dell’ultimo periodo glaciale, 14.000 anni fa. Attualmente, rilascia circa 140 milioni di tonnellate di anidride carbonica e 5,3 milioni di tonnellate di metano nell’atmosfera ogni anno. Una piccola frazione delle emissioni di gas serra totali su base annua, ma pur sempre l’equivalente delle emissioni di un paese come la Spagna.

“Questo è un esempio di una grande fonte di carbonio che non è stata considerata nelle previsioni o negli accordi sul clima”, continua Frederick. “Anche se non è una bomba a orologeria, ciò che è certo è che gli stock di carbonio del permafrost sottomarino non possono continuare a essere ignorati, e abbiamo bisogno di sapere di più su come influenzeranno il futuro della Terra”.

fonte: www.rinnovabili.it



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Ghiaccio artico: dal 2025 non scherma più le acque dal riscaldamento globale

La trasmissione di calore dall’aria all’acqua dell’Artico viene impedita dalla calotta. Ma solo se la coltre misura più di 50 cm



Il ghiaccio artico potrebbe smettere di schermare le acque del Polo Nord dal calore contenuto in atmosfera già dalla metà di questo decennio. Perché ciò si verifichi non c’è bisogno che la coltre ghiacciata scompaia del tutto. L’effetto-tappo del ghiaccio artico perde efficacia anche quando lo strato si assottiglia eccessivamente.

I calcoli li ha fatti un gruppo di ricercatori della Texas A&M University e pubblicati in un articolo sulla rivista Climate Dynamics. Il punto di partenza è l’osservazione che il cambiamento climatico e l’aumento delle temperature globali, che tocca uno dei suoi picchi massimi con lo scostamento che si registra al Polo Nord e su gran parte delle regioni artiche, causa un assottigliamento della calotta polare. In particolare, la coltre che si è accumulata di anno in anno, e che quindi resiste all’estate artica ed è di spessore maggiore, non viene ricostituita a sufficienza durante l’inverno.

Lo strato più sottile che ne risulta è meno in grado di proteggere la colonna d’acqua sottostante dal calore diffuso dall’atmosfera. Gli studiosi sono riusciti a calcolare che la soglia oltre la quale lo spessore del ghiaccio artico inizia a diventare inefficace si aggira tra i 40 e i 50 cm. Ogni porzione di Polo Nord dove la calotta è meno spessa di questi valori registrerà quindi un incremento delle temperature delle acque marine dovuto al passaggio di calore dall’aria.

Un’informazione importante perché permette di calcolare l’esatta estensione della calotta che resta in grado di fare da schermo. Secondo i ricercatori, si tratta di una superficie di circa il 4-14% più ristretta di quella totale. Che forniscono una visione prospettiva del fenomeno: tra i 360mila e i 970mila km2 di ghiaccio artico, nel corso del 20° secolo, sono diventati troppo sottili.

Il 2020 è stato il 2° anno peggiore di sempre per l’estensione della calotte artica. Le rilevazioni del Noaa americano a dicembre certificavano che le emissioni di gas serra stanno trasformando l’Artico in un clima completamente differente. Con ghiaccio in minor quantità, più giovane e più sottile. Colonnine di mercurio che raggiungono picchi inauditi e temperature medie che fanno stabilmente registrare record da 7 anni a questa parte. Effetti feedback più frequenti. E con alterazioni profonde delle caratteristiche biologiche di questo bioma, che si riscalda ad un ritmo doppio del resto del mondo.

fonte: www.rinnovabili.it


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La plastica nell’Artico proviene in gran parte da abiti in poliestere

Uno studio canadese ha analizzato le particelle di plastica presenti nell’Artico, scoprendo che nel 73 per cento dei casi si tratta di poliestere.








La plastica presente nell’oceano Artico proviene in gran parte dalle fibre sintetiche con le quali sono fabbricati molti dei capi d’abbigliamento che vengono utilizzati in tutto il mondo. A spiegarlo è uno studio curato da un gruppo di scienziati dell’organizzazione non governativa canadese Ocean Wise, pubblicato dalla rivista Nature il 12 gennaio.

Campioni prelevati in 71 siti tra America, Europa e Polo Nord

I ricercatori hanno infatti analizza alcuni campioni raccolti tra 2 e 8 metri di profondità in 71 siti presenti in America del Nord, nell’Europa settentrionale e direttamente nella regione polare. In alcuni caso, come nel mare di Beaufort, tra l’Alaska e il Canada, il campionamento si è spinto fino a mille metri al di sotto della superficie dell’oceano. I dati indicano che in ciascun metro cubo di acqua sono presenti 40 particelle di microplastica. Grazie a uno spettrometro infrarosso, è stato quindi possibile analizzare la composizione di tali particelle. Nel 92,3 per cento dei casi si tratta appunto di fibre plastiche. E nel 73,3 per cento di poliestere.



Frammenti di plastica raccolti dal mare © Ingimage
Ma non è tutto: al fine di comprendere la ragione della concentrazione nell’Artico, gli scienziati hanno analizzato anche le correnti. “L’abbondanza di particelle è correlata alla longitudine – hanno spiegato nello studio -. Nell’Artico orientale è presente un quantitativo tre volte più importante rispetto alla porzione occidentale”.
“La plastica arriva dalle abitazioni e dai centri di trattamento delle acque”

Secondo quando indicato da Peter Ross, docente dell’università della Colombia Britannica, a Radio Canada “le analisi indicano che sono le abitazioni e le stazioni di trattamento delle acque che rilasciano microfibre che finiscono per inquinare l’Artico. C’è plastica ovunque nelle nostre vite”.

Al fine di fronteggiare il problema, secondo lo scienziato ciascuno di noi potrebbe intervenire installando un filtro nelle proprie lavatrici, “capace di diminuire la perdita di fibre di poliestere del 95 per cento”. Ma si possono anche scegliere abiti più robusti, che non perdono facilmente materia (e che, tra l’altro, durano di più nel tempo). Ciò che serve, però, è che a cambiare siano non solo le abitudini dei consumatori ma anche i metodi di produzione e i modelli di business delle aziende.

fonte: www.lifegate.it


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Addio ai ghiacci

Già nel 2005 la riduzione dei ghiacci nella zona artica del pianeta aveva cominciato a raggiungere dimensioni impressionanti di milioni di chilometri quadrati, oggi, con gli aumenti record delle temperature medie registrate, la situazione è diventata naturalmente sempre più grave. Tra le conseguenze ancora non del tutto accertate scientificamente ma certo più che probabili, c’è la possibilità che lo scioglimento dei ghiacci possa liberare virus antichi, rimasti in ibernazione per molti secoli e capaci di sopportare l’alternanza di caldo e freddi estremi.



Nel mese di settembre l’estate, in Italia e nell’Artico, non era certamente ancora finita, ma già si moltiplicavano le previsioni relative a un 2020 tra gli anni più caldi degli ultimi decenni, anche se forse non sarà stato il più caldo di sempre. Vediamo quindi, con lo sguardo necessariamente retrospettivo delle nostre rilevazioni d’insieme, le informazioni disponibili nel settembre scorso sulla crisi climatica.

Nel Circolo Polare Artico gli incendi di questa estate hanno battuto il record raggiunto nell’anno passato, producendo nuvole di fumo che hanno coperto una superfice equivalente ad un terzo del territorio del Canada.

La maggior parte degli incendi si è verificata nella Repubblica Russa del Sakha, Siberia orientale, dove hanno percorso milioni di acri di terra e causato un picco di anidride carbonica, stimata in 208 megatonnellate nel 2019 e in 395 nel 2020. Inoltre una massa di ghiaccio di 113 chilometri quadrati si è staccata dalla piattaforma 79N, situata nel nord ovest della Groenlandia.

Riportiamo inoltre i dati ripresi da un testo di grande interesse per la comprensione dello stato e delle prospettive delle aree più ghiacciate al Polo Nord e al Polo Sud (Peter Wadhams, “Addio ai ghiacci”, due edizioni in italiano, che è stata allegata alla rivista Le Scienze del settembre 2020) del quale consigliamo vivamente la lettura, in quanto completo nelle analisi e quasi profetico nelle previsioni.

Secondo questa fonte, attualmente il ghiaccio marino dell’Artico (cioè gli strati di ghiaccio che si formano non sulla terraferma ma sul mare) raggiunge la sua massima estensione e spessore a febbraio, e quella minima a settembre.

Già nel 2005 si registrava una grande riduzione dei ghiacci e quello marino si staccava dalle coste della Siberia e dell’Alaska agevolando l’attraversamento del mitico Passaggio a Nord Ovest. In termini quantitativi il ghiaccio si riduceva a 5,3 milioni di chilometri quadrati rispetto ad una media stagionale di circa 8 milioni di chilometri quadrati.

Nel 2007 si è registrata una ulteriore riduzione a 4,1 milioni di kmq. E nel 2012 si è pervenuti a 3,4 milioni sempre di chilometri quadrati. In previsione, è probabile che avremo nei prossimi anni durante l’estate solo delle sacche di ghiaccio per meno di un milione di chilometri quadrati complessivi.

Sempre secondo questo autore, la situazione dell’Antartide è un po’ diversa, l’accumulazione di ghiaccio marino durante l’inverno su coste sempre battute dalle onde e dai venti è molto maggiore, e le diminuzione dello spessore procede più lentamente, mentre dalla banchisa si staccano invece iceberg di grandi dimensioni (uno era grande come la Liguria e la frattura che ha causato il distacco era lunga 160 chilometri).

Infine, da una fonte giornalistica, ogni tanto si ricorda la possibilità che lo scioglimento dei ghiacci potrebbe liberare virus antichi, rimasti in ibernazione per molti secoli e che quando emergono potrebbero liberare antichi virus capaci di sopportare l’alternanza di caldo e freddi estremi.

L’ipotesi che siano ancora attivi e quindi particolarmente pericolosi per gli esseri umani attuali sembra sia ancora da dimostrare sul piano scientifico. Infine, può essere utile ricordare i livelli massimi e minimi raggiunti dalle temperature gli ultimi giorni di agosto: il termometro ha raggiunto a Herat, in Afghanistan i 55,2 gradi centigradi, mentre allo stesso 25 agosto a Dome A, in Antartide si registravano meno 69 gradi centigradi.

Tra i meccanismi globali di danno è da ricordare un dato fornito dall’Agenzia Europea per l’Ambiente: il 13% dei decessi in Europa è dovuto alle diverse forme di inquinamento.

In Cina la situazione è decisamente più grave perché il solo inquinamento dell’aria causa tra 1,2 e 1,5 milioni di morti ogni anno. I dati si riferiscono la concentrazione registrata tra il 2000 e il 2016 delle polveri sottili Pm 2,5, e quindi in complesso circa trenta milioni di morti premature tra gli adulti.

I dati disponibili riguardano le emissioni globali di gas serra. Tra il 1990 e il 2015 sono state emesse 722 gigatonnellate di gas serra, per circa la metà dovute ai consumi del 10% più ricco della popolazione mondiale (630 milioni di persone ( in Usa, Ue, Cina e India) che hanno un reddito netto di almeno 38mila dollari all’anno.

L’1% della popolazione con un reddito di almeno 109mila dollari, è responsabile del 15% delle emissioni. La classe media, 2,5 miliardi di persone, è responsabile del 40% delle emissioni, mentre la metà più povera causa solo il 7% delle emissioni.


Eventi estremi

Naturalmente, questi cambiamenti climatici hanno causato un numero impressionane e crescente di eventi meteorologici estremi.

Cicloni. Durante il passaggio dell’uragano Laura, si sono contati 29 morti, di cui 20 in Louisiana, 8 in Texas e 1 in Florida. Lo stesso evento aveva già causato la morte di 35 persone nei Caraibi, in particolare ad Haiti e nella Repubblica Dominicana. I venti hanno raggiunto i 240 chilometri orari e quindi si è trattato dell’uragano più forte degli ultimi 150 anni. L’uragano Sally, con venti fino a 155 chilometri orari, ha raggiunto Alabama e Florida, causando alluvioni e interruzioni di corrente elettrica.

Il tifone Haishen, in Corea del Sud, con venti fino 180 chilometri orari, ha causato alluvioni e la cancellazione di centinaia di voli.

In precedenza , aveva causato due morti in un’isola a sud-ovest del Giappone. Il ciclone Ianos, nel Mediterraneo con 120 chilometri all’ora ha colpito la Grecia nella Tessaglia e ha causato tre morti , mentre almeno 5000 case sono state danneggiate.

Incendi. Dall’inizio dell’anno, in California, gli incendi hanno distrutto più di 8000 chilometri quadrati di vegetazione, una superficie uguale a quello dello Stato del Delaware, è il dato più alto dal 1987. Gli incendi senza precedenti che dall’inizio dell’estate si sono propagati in California, Oregon e Stato di Washington hanno distrutto più di due milioni di ettari di vegetazione e hanno causato 35 morti.

In Argentina, secondo alcune associazioni ambientaliste locali, gli incendi hanno distrutto più di 350mila ettari di zone umide nel delta del fiume Paranà e 48mila ettari di foreste nella provincia di Cordoba. Per il 95% sarebbero di origine dolosa. Secondo il programma europeo Copernico, gli incendi di quest’anno in Siberia hanno prodotto emissioni record di anidride carbonica, e precisamente 244mila tonnellate , contro le 181mila del 2019.

Un incendio in Andalusia, Spagna, ha distrutto circa 10mila ettari di vegetazione e costretto 3200 persone ad abbandonare le loro case.

Alluvioni. A seguito di estese alluvioni, in Niger sono morte 35 persone dall’inizio di giugno e 300 mila sono state costrette a lasciare le loro abitazioni. In Pakistan sono state almeno 38 le persone morte a causa delle forti piogge, mentre in Burkina Faso i morti per la stessa causa sono stati 13.

In Sudan sono morte 99 persone e le case danneggiate oltre 100mila, e il Nilo ha fatto registrare il più alto livello raggiunto dalle sue acque da quando sono iniziate le rilevazioni. Molta pioggia è inoltre caduta su 5 delle 10 regioni dell’Etiopia, con almeno 200mila persone rimaste senza casa. Infine in Senegal le vittime delle piogge sono state 5.

Fulmini. In Uganda sono stati colpiti a morte 9 bambini.

Carenze idriche. Acqua generalmente sfruttata in modo insostenibile, con le acque fossili in netta riduzione in Africa.

Invasione di meduse. Anche se in realtà sono gli esseri umani ad invadere il loro habitat. A livello mondiale, sono circa diecimila le specie di meduse conosciute e vivono da oltre 500 milioni di anni sul pianeta, in quanto sono i primi animali pluricellulari ad essersi affermati nei mari.

Possono superare i due metri di diametro e pesare più di 200 chili. Quali sono le cause principali dell’invasione di mari diversi? La pesca intensiva di cetacei, tartarughe e tonni e il riscaldamento generale delle acque dei mari.


Aree colpite da disastri.

Dal mese di luglio l’Arcipelago delle Mauritius ha affrontato un grave disastro ambientale. A metà del mese una nave cargo, la MV Wakashio si è prima incagliata e poi spezzata in due parti a Grand Salle, una delle isole, e da essa sono fuoriuscite almeno 1000 tonnellate di petrolio.

Il 31 agosto, un vecchio rimorchiatore, uscito per trainare una chiatta che doveva raccogliere il petrolio, è affondato causando la morte di tre uomini dell’equipaggio.

Può sembrare che nel mondo vi siano meno incidenti che coinvolgono petroliere, ma in realtà il petrolio che fuoriesce è in quantità molto maggiori perché le navi hanno ormai dimensioni sempre più grandi.

Con le maggiori dimensioni, i percorsi più a rischio sono quelli attraverso gli stretti di Hormuz, Malacca, Bosforo, Suez, Bab Al Mandeb e quelli vicino alla Danimarca.

Il campo di accoglienza per immigrati di Moria, sull’isola di Lesbo, che ne accoglieva quantità molto maggiori della sua capienza e li manteneva in condizioni miserevoli, è bruciato nel mese di agosto. Alcuni paesi europei sono intervenuti per ricollocare almeno in parte gli immigrati, però hanno accettato solo 400 bambini, ben poca cosa rispetto alle 13.000 persone che affollavano il campo.

In Kenya, le grandi aziende petrolchimiche che producono la plastica stanno cercando di far modificare le norme in vigore nel paese, ma in realtà sono interessate anche ad altri paesi africani.

Queste imprese hanno investito 200 miliardi di dollari nelle attività produttive. Inoltre nel 2019 hanno spedito quasi 700mila tonnellate di rifiuti di plastica in 96 paesi, dove solo una parte sarà riciclata secondo modalità corretta, mentre il resto sarà disperso nell’ambiente.

I flussi di rifiuti verso l’Africa sono quadruplicati dopo che la Cina nel 2018 ha bloccato queste importazioni. E’ tuttavia importante notare che in Africa 34 paesi su 57 hanno vietato l’uso dei sacchetti di plastica.

Kobalt Belt, la grande area dove si estrae il cobalto, un minerale prezioso per costruire le batterie di auto e telefonini, la richiesta mondiale ammonta 200mila tonnellate.

A 2000 chilometri dalla capitale del Congo, nella regione del Katanga, oltre ai minatori ufficiali che lo estraggono, lavorano oltre 40.000 tra bambini e adulti che scavano a mani nude o con strumenti rudimentali le pietre incrostate del prezioso minerale, che sarà poi purificato nell’impianto di una multinazionale inglese, la Glencore.

Per reperire e raccogliere dieci chili di pietre servono due giornate di lavoro pagate da 3 a 5 dollari ciascuna, mentre i prezzi internazionali del minerale aumentano ogni giorno.


Politiche dannose per l’ambiente

In Egitto, sono molto discussi i progetti di due autostrade che sembra debbano attraversare la zona turistica delle Piramidi

E’ in corso la costruzione della Trans Adriatic Pipeline, il gasdotto che costerà all’Italia 4,5 miliardi di euro e attraverserà la Puglia, per far arrivare il gas dal Mar Caspio e dall’Azerbaigian.

Il reddito garantito, volto ad eliminare il lavoro nero In Italia, ha fatto emergere 200mila cameriere e badanti, ma un numero molto ridotto di braccianti agricoli.

L’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile chiede che siano cancellati i 19 miliardi di sussidi alle imprese che con le loro attività produttive e commerciali continuano a causare rilevanti danni all’ambiente.

Un articolo riporta che almeno il 43% delle spiagge italiane è colpito da forme di erosione e sottolinea che la possibilità di procedere ad un arretramento degli stabilimenti balneare e degli altri locali impiantati sulle spiagge è stata finora completamente ignorata, mentre le cifre pagate dai concessionari per l’uso del demanio pubblico continuano ad essere ridicolmente basse.

L’Eni e il governo annunciano su molti giornali la creazione vicino Ravenna del più grande centro di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica già presente nell’atmosfera, che verrà quindi bloccata ad almeno tremila metri di profondità, negli spazi lasciati liberi dal petrolio e dai gas estratti in precedenza.

Le fonti non precisano le quantità da prelevare e immagazzinare e i costi complessi di tutta l’operazione. E’ bene ricordare che queste soluzioni tecnologiche a uno dei più gravi problemi ambientali sono state pochissimo sperimentate e potrebbero risultare eccessivamente costose.

Ma l’aspetto più preoccupante è quello del rapporto tra le emissioni che continuano ad aumentare e le quantità di CO2 che in quantità crescenti si accumulano nell’atmosfera.

In altre parole, la priorità assoluta dovrebbe essere data a una rapida riduzione delle emissioni di gas serra, fino a farle sparire entro pochissimi anni (e su questo versante ancora si agisce in misura praticamente irrilevante): vi è cioè il rischio che le soluzioni tecnologiche distraggano dagli obiettivi reali da perseguire subito.

Mancano inoltre indicazioni precise sulle reali possibilità di trasformare l’anidride carbonica in sostanze utili e sui costi relativi. Infine un dato che dovrebbe essere approfondito e confermato. Su un giornale, che faceva riferimento alla “lentocrazia” c’era un dato preoccupante: i decreti finora emanati contenenti misure anticovid sembra siano stati attuati solo nella misura del 28%! C’è solo da sperare che si tratti della immaginazione troppo fervida di un giornalista poco scientifico…

Alberto Castagnola

fonte: comune-info.net


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I jeans stanno inquinando i mari del mondo: trovate microfibre di denim anche nell’Artico

I jeans sono uno dei capi più amati e indossati al mondo. Un nuovo studio però ha rilevato che le microfibre del denim sono presenti non solo nelle acque reflue ma anche nei laghi e nei sedimenti marini dell’Artico.





Negli ultimi 100 anni, la popolarità dei blue jeans è cresciuta a dismisura. Molte persone li indossano ogni giorno forse non conoscendo quanto possano risultare dannosi per l’ambiente. Un nuovo studio, pubblicato su Environmental Science & Technology Letters, ha dimostrato che il lavaggio di questo indumento e di altri tessuti rilascia microfibre nelle acque reflue.

Anche se la maggior parte di esse vengono rimosse dagli impianti di trattamento, alcune finiscono comunque nell’ambiente attraverso lo scarico delle acque reflue. Miriam Diamond, Samantha Athey e gli altri autori dello studio si sono chiesti se i blue jeans fossero una delle principali fonti di microfibre di cellulosa per l’ambiente acquatico. I jeans infatti sono fatti anche da fibre di cellulosa di cotone naturale, lavorate con un colorante sintetico indaco e altri additivi chimici.

I ricercatori hanno utilizzato una combinazione di microscopia e spettroscopia per identificare e contare le microfibre in denim color indaco in vari campioni di acqua raccolti in Canada. Il denim indaco costituiva rispettivamente il 23%, il 12% e il 20% di tutte le microfibre trovate nei sedimenti dei Grandi Laghi, dei laghi suburbani poco profondi vicino a Toronto, e nell’arcipelago artico canadese.

Sulla base dei livelli di microfibre presenti negli effluenti delle acque reflue, i ricercatori hanno stimato che gli impianti di trattamento oggetto di studio scaricano circa 1 miliardo di microfibre denim indaco al giorno. Negli esperimenti, i ricercatori hanno scoperto che un singolo paio di jeans usati potrebbe rilasciare circa 50mila microfibre per ciclo di lavaggio.

Secondo i ricercatori, non si conoscono ancora gli effetti che le microfibre avranno sulla vita acquatica, un modo pratico per ridurre l’inquinamento da microfibra denim sarebbe quello di lavare i jeans meno spesso. Ma al di là di questo, un aspetto ha allarmato gli scienziati: la presenza di microfibre dei jeans nell’Artico è un potente indicatore dell’impatto umano sull’ambiente.

fonte: www.greenme.it

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Nell’Artico è in corso un disastro al rallentatore

Aumento delle temperature, ghiaccio ai minimi e fusione del permafrost: la Siberia muta, inesorabile, ma una “grande cecità” ci condiziona. La rubrica a cura del prof. Stefano Caserini



Ormai a quanto succede nell’Artico non facciamo neanche più caso. Le notizie passano, ci si stupisce en passant e si passa oltre. Come per i record di temperature registrati in giugno nel circolo polare artico: 38°C registrati il 22 giugno 2020 a Verkhojansk, nella Russia siberiana, 67 gradi di latitudine Nord (il circolo polare artico registra 60°C). “Heatwave”, ondata di caldo, è il nome per questi fenomeni sempre più ricorrenti che delineano la nuova normalità anomala. L’Artico si è scaldato il triplo della media mondiale: tutti i primi cinque mesi del 2020 sono stati caldissimi, nonostante il lockdown per il Coronavirus.


Secondo i dati del Copernicus Climate Change Service, nella Siberia artica le temperature medie hanno raggiunto in alcune località i 10°C sopra la media del mese di giugno. La temperatura media di tutto il territorio nella Siberia artica è stata di oltre cinque gradi al di sopra della norma e di oltre un grado superiore alla temperatura del periodo che va dal 2018 al 2019, che già aveva registrato i due mesi di giugno più caldi di sempre. Il ghiaccio marino dell’Artico è ai minimi. Fa più caldo, il ghiaccio si ritira e aumenta la produttività biologica, la disponibilità di cibo per molti animali. Invece altre specie, che si sono adattate all’ambiente polare, non gradiscono il cambiamento in atto.


Chi vive in quelle zone racconta la diminuzione della copertura nevosa, gli incendi (nel 2019 sono bruciati quattro milioni di ettari di foreste siberiane), la fusione del permafrost (il terreno ghiacciato che contiene metano e altri gas), un lento degrado catastrofico senza cataclismi. Non c’è il picco, l’emergenza, la fase uno e la fase due e tre; è un disastro al rallentatore. E se la tendenza è inoppugnabile, la variabilità confonde. Dopo questi record caldi arriveranno giornate fredde, sotto la media. Quindi il problema potrà essere accantonato, ignorato e anche negato.

10°C: in molte località della Siberia artica le temperature medie nel mese di giugno sono state 10°C più alte rispetto alla norma

Per una coincidenza dopo aver letto i dati delle temperature record nell’Artico, ho ricevuto una telefonata da una giornalista che mi chiedeva un commento sull’ennesimo ex leader ambientalista che ha scritto il suo libro in cui confessa di aver esagerato, che non andiamo incontro all’apocalisse. Le solite cose: dopo il libro “L’Ambientalista Scettico” di Bjorn Lomborg non c’è molto di nuovo in chi sostiene che l’ambiente non è mai stato così bene. Se si rilegge a 17 anni di distanza il libro dello statistico danese, si vede che il capitolo sul clima conteneva molti errori, falsità e previsioni infondate: è in sostanza da buttare. Certo i tanti editorialisti che hanno magnificato quel libro oggi non raccontano quanto sbagliate erano le rassicurazioni di Lomborg.

Ma almeno Lomborg si era impegnato, aveva scritto un libro di 520 pagine con migliaia di riferimenti bibliografici. Ora basta un libretto con un titolo furbo, un paio di tweet e di interviste sui giornali e la notorietà arriva. Secondo lo scrittore indiano Amitav Gosh è una grande cecità che ci impedisce di cogliere la dimensione tragica di questo nostro tempo. Josè Saramago ne aveva parlato in uno dei suoi capolavori, 25 anni or sono: “La cecità stava dilagando, non come una marea repentina che tutto inondasse e spingesse avanti, ma come un’infiltrazione insidiosa di mille e uno rigagnoli inquietanti che, dopo aver inzuppato lentamente la terra, all’improvviso la sommergono completamente”.

Stefano Caserini (
è docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Il clima è (già) cambiato” (Edizioni Ambiente, 2019)

fonte: https://altreconomia.it



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Contaminazione PFAS: non si salva nemmeno l’Artico.















Questi cancerogeni, a causa della loro elevata stabilità, possono resistere nell’ambiente praticamente “per sempre”. Drammatico è l’allarme dei ricercatori internazionali tedeschi e americani (clicca qui): abbiamo individuato diversi tipi di sostanze perfluoroalchiliche nelle acque dell’Oceano Artico. Dunque è provato che i Pfas si spostano non solo nelle acque ma anche in atmosfera.

E’ ciò che infatti probabilmente è avvenuto per l’avvelenamento di pfas cC6O4 nell’acquedotto di Montecastello (Alessandria), cioè a notevoli chilometri di distanza dallo stabilimento Solvay che, secondo le analisi, ha già contaminato le falde dell’area di Spinetta Marengo. Eppure Regione, Provincia e Comune vorrebbero rilasciare nuova autorizzazione AIA alla multinazionale belga. Alla faccia del monito dell’Onu “Necessarie azioni urgenti” raccolto in Italia dal ministro Costa fissando il limite zero per i PFAS.


fonte: https://www.rete-ambientalista.it/


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La fusione del permafrost dietro la fuoriuscita di carburante nell’Artico: è una bomba a orologeria

















Il grave disastro ambientale che sta colpendo in questi giorni la Russia sta facendo emergere un problema che oggi ancora di più non va sottovalutato. La fusione del permafrost infatti non solo sta liberando virus e batteri, ma potrebbe essere alla base della fuoriuscita di petrolio nell’Artico.

I cambiamenti climatici e lo scioglimento dei ghiacci potrebbero provocare più danni di quanto ipotizzato finora. E la “marea” rossa che sta inquinando il fiume russo Ambarnaya ne è la conferma.

Il 29 maggio, 21.000 tonnellate di petrolio e carburanti sono state versati da un serbatoio presso lo stabilimento della Norilsk Nickel. Secondo le prime ipotesi, del tutto verosimili avanzate dalla Norilsk Nickel, lo scioglimento dei ghiacci dovuto ai cambiamenti climatici avrebbe favorito il cedimento dei pilastri che avevano resistito per decenni.
Scioglimento del permafrost: pericolo per il rilascio di carbonio

Lo scioglimento del permafrost dunque è una vera e propria bomba a orologeria che minaccia la salute e l’ambiente e rischia di accelerare il riscaldamento globale. Il permafrost è il erreno ghiacciato che si trova principalmente nell’emisfero settentrionale, nell’Artico, dove copre circa un quarto della terra esposta. Essi generalmente ha migliaia di anni e copre un’ampia fascia tra il circolo polare artico e le foreste boreali, dall’Alaska alla Russia, fino al Canada. Può variare in profondità da pochi metri fino a centinaia.

Secondo gli scienziati, nel permafrost sono sepolte circa 1,7 trilioni di tonnellate di carbonio sotto forma di materia organica congelata: i resti di piante marce e animali morti da lungo tempo intrappolati nei sedimenti e successivamente coperti da lastre di ghiaccio. I suoli permafrost contengono circa il doppio di carbonio, principalmente sotto forma di metano e CO2, rispetto all’atmosfera terrestre.

Per questo lo scioglimento può essere ulteriormente pericoloso. Di fatto, contribuisce ad accelerare il riscaldamento globale. Quando il permafrost si scioglie, infatti, la materia si riscalda e si decompone, rilasciando infine il carbonio e contribuendo al riscaldamento globale. Un circolo vizioso molto pericoloso.

Secondo un rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) rilasciato a settembre 2019, gran parte del permafrost potrebbe sciogliersi entro il 2100 se l’inquinamento legato alle emissioni di carbonio continuerà senza sosta, rilasciando una bomba al carbonio di gas serra.
Scioglimento del permafrost: agenti patogeni congelati

Lo scongelamento del permafrost minaccia anche di liberare batteri e virusa lungo intrappolati nel ghiaccio e potenzialmente in grado di diffondere nuove malattie. Purtroppo è già accaduto.

Nel 2016 un bambino è morto nell’estremo nord della Siberia in Russia a causa della diffusione di antrace che secondo gli scienziati sembrava provenire dai resti di renne infette sepolte 70 anni prima ma ritornate alla luce per via dello scioglimento del permafrost.

Nel 2014 gli scienziati hanno rianimato un virus gigante ma innocuo, soprannominato Pithovirus sibericum, che era stato rinchiuso nel permafrost siberiano per oltre 30.000 anni.

Un disgelo del permafrost potrebbe essere un vantaggio per le industrie petrolifere e minerarie, fornendo l’accesso a riserve precedentemente difficili da raggiungere nell’Artico. Ma i danni potrebbero essere incalcolabili. Come dimostra l’ultimo disastro ambientale in corso in Russia, lo scioglimento del permafrost potrebbe rappresentare anche una seria e costosa minaccia per le infrastrutture, rischiando di provocare frane e danni a edifici, strade e oleodotti.
Gli ultimi aggiornamenti dalla Russia

La Norilsk Nickel il 5 giugno ha fatto sapere che al momento la diffusione del petrolio e dei carburanti è sotto controllo. Lo sversamento è localizzato e con l’installazione dei dispositivi di contenimento non si sta diffondendo ulteriormente.


“Il nostro compito ora è lavorare e rimuovere questi prodotti petroliferi ”, ha detto il ministro delle Emergenze Yevgeny Zinichev.

Dal canto suo, la società ha portato dei serbatoi in grado di contenere un volume totale di 16 mila tonnellate, che consentiranno di raccogliere tutto il carburante penentrato nel sistema idrico. Inoltre, sono state preparate strutture di stoccaggio per oltre 100 mila tonnellate di suolo. E’ in corso la bonifica su un’area di circa 6mila metri quadrati.

Pulire l’area non sarà facile e l’incidente danneggerà probabilmente il permafrost a lungo termine. Il carburante infatti abbassa il punto di congelamento dell’acqua, ciò potrebbe accelerare ulteriormente lo scongelamento.

Ripulire i danni della fuoriuscita costerà alla compagnia almeno 10 miliardi di rubli, pari a circa 130 milioni di euro.

Nonostante i rapporti non sempre idilliaci, Anche gli Usa hanno offerto il proprio aiuto alla Russia. Il segretario di Stato americano Mike Pompeo sabato ha twittato che, nonostante i disaccordi del suo paese con la Russia, l’amministrazione Trump è pront a fornire supporto.

fonte: www.greenme.it

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Sull’Artico nevicano microplastiche

In alcuni campioni di neve raccolti vicino alle Svalbard ne sono state trovate concentrazioni molto alte, ma non è ancora chiaro come siano arrivate lì



Un gruppo di scienziati tedeschi e svizzeri ha trovato minuscoli frammenti di plastica e gomma nella neve caduta sullo stretto di Fram, il tratto di mar Glaciale Artico tra le isole Svalbard e la Groenlandia, in quantità tali da dedurre che ci siano arrivati dall’atmosfera. Si sapeva già che sui fondali e nelle acque dell’Artico c’è una grande quantità di microplastiche, nome con cui si indicano i pezzi di plastica di dimensioni inferiori ai 5 millimetri, e secondo un’altra ricerca proprio nell’Artico ce n’è la più alta concentrazione: la loro presenza nella neve sopra i tratti di mare ghiacciati indicherebbe che uno dei modi in cui le microplastiche raggiungono l’Artico è nevicando.

I campioni di neve utilizzati per lo studio, pubblicato il 14 agosto sulla rivista Science Advances, erano stati raccolti durante alcune spedizioni di ricerca tra il 2015 e il 2017 e sono stati analizzati nei laboratori dell’Istituto Alfred Wegener di Bremerhaven. I ricercatori hanno trovato più di 10mila frammenti di plastica per litro, molto più di quanto si aspettassero. Tra le altre cose hanno potuto riconoscere pezzetti di pneumatici, frammenti di vernice e, forse, fibre sintetiche. La stessa analisi è stata fatta su campioni di neve raccolti sulle Alpi svizzere e in varie parti della Germania: anche lì, forse meno sorprendentemente, sono state trovate grandi quantità di microplastiche, maggiori (fino a 154mila per litro) nei campioni tedeschi.


Secondo i ricercatori, guidati da Melanie Bergmann, le microplastiche sono arrivate nella neve raccolta grazie ai venti atmosferici prima e alle precipitazioni poi, anche se non è ancora ben chiaro in che modo esattamente arrivino a percorrere grosse distanze come quelle che separano le Svalbard dalle zone più densamente popolate e inquinate. Uno studio pubblicato ad aprile da un gruppo di ricerca franco-britannico aveva dimostrato che attraverso le precipitazioni le microplastiche sono arrivate anche sui Pirenei, in aree lontane da fonti di inquinamento. Non è possibile tuttavia sapere da dove arrivino le microplastiche trovate in questi studi. Secondo i ricercatori dell’Alfred Wegener Institut è possibile che parte dei frammenti trovati nella neve provengano da navi rompighiaccio.



Le microplastiche trovate nella neve sull’Artico descritte nell’articolo di Melanie Bergmann e collaboratori (Science Advances)

Bergmann e i suoi colleghi studiano la presenza di particelle di plastica nell’Artico dal 2002 e nel corso degli anni ne hanno trovate sempre di più. In uno dei punti in cui le rilevano sono decuplicate.

Non si sa ancora quali siano gli effetti della presenza di microplastiche nell’acqua e nell’aria sulla salute di persone e animali che vi entrano in contatto: sono stati fatti alcuni studi, ma non ci sono grandi certezze per ora anche perché gli effetti potrebbero essere molto variabili a seconda del tipo di microplastiche e delle loro dimensioni. L’unica cosa che si sa per certa è che gli animali marini ne ingeriscono in grande quantità e che quelli in cima alla catena alimentare, come squali, delfini e orche, ne ingeriscono più di tutti perché le assorbono non solo dall’acqua ma anche mangiando altri animali.

fonte: www.ilpost.it

Nasa: Lo scioglimento dei ghiacci in Groenlandia














Video del JPL del California Institute of Technology della NASA sullo scioglimento dei ghiacci in Groenlandia "Situata nell'Artico vicino al Polo Nord, la Groenlandia è coperta da un massivo strato di ghiacci grande quanto tre volte il Texas ed in media un miglio (= 1,6km) di spessore. La Groenlandia si sta scaldando a velocità quasi doppia di quella dell'Antartide, questo sta portando allo scioglimento dei ghiacci ed all'aumento dei livelli dei mari globale. La NASA sta monitorando la calotta glaciale della Groenlandia dallo spazio e dal fondo dell'oceano per fornire dati agli scienziati che studiano l'impatto globale di tutto il suo ghiaccio in scioglimento. La Groenlandia è seconda soltanto all'Antartide per la sua quantità di ghiaccio, se si sciogliesse tutto il ghiaccio della Groenlandia il livello del mare aumenterebbe di 23 piedi (un piede = 30,479 cm), per arrivare a questo ci vorranno secoli.. Attualmente la Groenlandia aggiunge 250 gigatonnellate di acqua agli oceani ogni anno. Una giga tonnellata =un miliardo di tonnellate che approssimativamente è blocco di ghiaccio di un km di lato, ogni anno si sciolgono 250 di questi blocchi di ghiaccio giganti in Groenlandia. Tutta questa acqua in più proveniente dallo scioglimento dei ghiacci potrebbe cambiare le circolazioni degli oceani e nell'atmosfera, questo significa che anche se non vivi vicino all'oceano lo scioglimento dei ghiacci in Groenlandia potrebbe potenzialmente influire sul tuo tempo meteo locale in futuro.




fonte: https://www.jpl.nasa.gov/edu/learn/video/nasas-earth-minute-greenland-ice/

Nadia Simonini

Rete Nazionale dei Comitati Rifiuti Zero
     

Cambiamento Climatico: Il Permafrost Artico si sta sciogliendo adesso a livelli che non erano attesi fino al 2090.



















Secondo la nuova ricerca, il permafrost ha iniziato a scongelarsi nell'Artico canadese più di 70 anni prima a causa dei cambiamenti climatici. Una "serie di estati anomalmente calde" ha drammaticamente accelerato i tassi di fusione in tre siti, nonostante la temperatura media annuale del suolo sia rimasta bassa, come pure gli stagni e le collinette. Si pensava che il permafrost - il terreno che rimane congelato per almeno due anni - rimarrebbe fino almeno al 2090. Ma lo studio ha rilevato che i livelli di scongelamento erano superiori al 150- 240% rispetto ai livelli storici. I ricercatori hanno definito questo un "importo veramente notevole".














Mold Bay sul Prince Patrick Island è stato il sito più colpito, secondo lo studio, pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters. Lì, i livelli di disgelo del permafrost erano superiori del 240 per cento rispetto ai livelli storici e il terreno affondò per 90 cm nel corso dello studio che durò più di 12 anni, tra il 2003 e il 2016. I ricercatori hanno anche registrato lo scongelamento a profondità non previste fino a che la temperatura dell'aria non salirà a livelli che il Pannello intergovernativo dell'ONU sui cambiamenti climatici (IPCC) ha previsto che raggiungerà nel 2090. Insieme a Mold Bay, i ricercatori hanno osservato termokarsts - un tipo di superficie terrestre che si verifica quando il ghiaccio si scioglie nel permafrost, caratterizzato da terreni irregolari con basse colline arrotondate e piccoli stagni - a tre siites lungo la sezione 430 miglia dell'alto Artico in Canada essi stavano monitorando. Quando il permafrost si scongela, rilascia nell'atmosfera anidride carbonica e altri gas serra immagazzinati nell'atmosfera o sotto di esso. A sua volta, le temperature aumentano e creano un ciclo perpetuo in cui si scioglie più strato di ghiaccio permanente.

fonte: https://www.msn.com

Lo scioglimento del permafrost artico causa enormi emissioni di protossido d’azoto

Un nuovo studio della Harvard University ha scoperto che le emissioni di uno dei più potenti gas serra sono 20 volte superiori alle previsioni.





















Lo scioglimento del permafrost artico sta rilasciando nell’atmosfera una quantità di protossido d’azoto, uno dei principali gas serra, 20 volte superiore alle previsioni: a lanciare l’allarme è una ricerca condotta dalla Harvard University. Gli studi sulle emissioni derivate dallo scioglimento del permafrost si sono finora concentrati su due dei principali gas serra, il metano e il diossido di carbonio. L’ultimo report dell’EPA (l’Agenzia americana per la protezione dell’ambiente), datato 2010, considerava “trascurabili” le emissioni di protossido d’azoto in relazione al disgelo del permafrost.

La nuova ricerca, pubblicata sulla rivista Atmospheric Chemistry and Physics, ha rilevato però che il permafrost presente in Alaska sta rilasciando attualmente quantità di protossido mai previste prima: “Ulteriori piccoli incrementi di emissioni di protossido d’azoto potrebbero determinare gli stessi effetti sul cambiamento climatico di un enorme rilascio di CO2”, avverte il professor Jordan Wilkerson, dottorando e primo autore dello studio presso il laboratorio di Chimica atmosferica ad Harvard.
Il protossido d’azoto è un gas difficile da intercettare con gli strumenti con cui vengono registrate tradizionalmente le emissioni di gas serra, eppure è capace di trattenere il calore terrestre fino a 300 volte in più del diossido di carbonio.
I ricercatori americani hanno collezionato dati su quattro diversi gas serra (metano, diossido di carbonio, vapore acqua e protossido d’azoto) a partire dal 2013, sfruttando un piccolo velivolo capace di volare a 50 metri da terra con cui hanno sorvolato oltre 310 chilometri quadrati di territori coperti dal permafrost in Alaska. In appena un mese, la quantità di protossido d’azoto raccolta dal laboratorio mobile superava la quota stimata dal report dell’Epa per un intero anno. 

Le ipotesi del team guidato dal dottor Wilkerson sono state ulteriormente confermate da altri studi condotti tramite sensori installati direttamente nella tundra e carotaggi di permafrost poi scaldati artificialmente in laboratorio.
Oltre ad essere un potente gas serra, una volta raggiunta la stratosfera, luce e ossigeno convertono il protossido in ossido d’azoto, uno dei principali gas causa del buco dell’ozono.
“Non abbiamo idea di quanto le emissioni di protossido possano aumentare nel futuro. Né sapevamo che fossero significative fino a quando non abbiamo osservato i risultati dello studio”, ha concluso Wilkerson, invitando la comunità scientifica a prendere in seria considerazione il fenomeno finora trascurato.

fonte: www.rinnovabili.it