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Acque reflue: la Provincia di Bolzano all’avanguardia

In Provincia di Bolzano sono presenti attualmente 50 impianti pubblici di depurazione delle acque; trattati complessivamente ogni anno circa 65 milioni di metri cubi di acque reflue; il 98,1% degli abitanti equivalenti risulta allacciato; oltre la metà dell’energia utilizzata per il funzionamento dei depuratori viene prodotta utilizzando il biogas derivante dagli impianti stessi o per mezzo di impianti fotovoltaici.











Elevato lo standard delle opere fognarie e degli impianti di depurazione delle acque reflue in Provincia di Bolzano, grazie anche agli sforzi economici e progettuali degli anni passati. Previsti vari interventi di ristrutturazione, risanamento ed ampliamento per mantenere anche in futuro elevati standard di qualità. Importante anche il contributo del singolo, soprattutto tra le mura domestiche. 

In Provincia di Bolzano la gestione delle acque reflue è all’avanguardia con un grado di allacciamento ai 50 impianti di depurazione pubblici pari al 98,1% di tutti gli abitanti equivalenti. Il grado di depurazione è molto elevato e i limiti di abbattimento imposti dalla normativa vigente per tutti i principali parametri indicatori del grado di inquinamento sono ampiamente rispettati. In futuro, altri 0,6% di abitanti equivalenti non ancora allacciati potranno essere collegati. Solo l’1,3% di abitanti equivalenti è considerato non allacciabile perché rientrante negli insediamenti sparsi. Tutti gli scarichi non allacciati e non allacciabili sono comunque trattati tramite sistemi individuali (fosse settiche) che soddisfano le esigenze minime di depurazione. Valori ottimali anche per quanto riguarda il consumo energetico riferito al funzionamento dei depuratori, che negli ultimi anni è in costante diminuzione. Oltre la metà di questa energia viene prodotta utilizzando il biogas derivante dagli impianti stessi o per mezzo di impianti fotovoltaici.

Impianti di depurazione centralizzati

La Provincia di Bolzano ha deciso di favorire la costruzione di impianti di depurazione centralizzati già con il Piano provinciale per la depurazione delle acque inquinate del 1981. “Il principio di centralizzazione“, spiega Robert Faes, direttore reggente dell’Ufficio tutela acque di Appa Bolzano, “è stato mantenuto anche nell’elaborazione del nuovo Piano di tutela delle acque che prevede la dismissione di alcuni impianti minori e l’allacciamento ad impianti di depurazione di maggiore capacità, come nel caso di Monticolo e Val d’Ega. Realizzando impianti di grandi dimensioni è possibile da un lato trattare in modo migliore gli scarichi urbani garantendo una maggiore tutela delle acque superficiali e dall’altro ridurre i costi di gestione.”
Dismesso il piccolo depuratore di Monticolo (Comune di S. Michele Appiano)





Ultimati i lavori di costruzione del nuovo collettore che collega le acque reflue urbane della frazione di Monticolo, nel Comune di Appiano, al collettore sovracomunale di fondovalle Lavason, nel Comune di Caldaro. Grazie a questa nuova opera è oggi possibile convogliare le acque reflue urbane di Monticolo al depuratore di Termeno e al contempo dismettere il piccolo depuratore di Monticolo.
Video realizzato da G.News su incarico dell’Agenzia di stampa della Provincia di BZ.
Versione del video in lingua tedesca
Dismesso il depuratore di Val d’Ega (Ponte Nova)

L’impianto di depurazione di Val d’Ega a Ponte Nova (13.000 a.e.) è stato dismesso alla fine del 2020, come previsto nel piano di riorganizzazione e razionalizzazione del servizio di depurazione delle acque reflue del bacino ATO2 (Ambito Territoriale Ottimale). Grazie alla costruzione del nuovo collettore, le acque reflue di Nova Ponente e Nova Levante vengono ora convogliate al depuratore di Bolzano, garantendo una standard elevato di depurazione delle acque. In aggiunta, è stato possibile allacciare tutte le utenze che si trovavano al di sotto dell’impianto dismettendo così decine di fosse settiche.


L’impianto di depurazione delle acque reflue Val d’Ega a Ponte Nova, dismesso nel 2020 (Foto: Appa Bolzano)
Prossimi interventi

Il Piano di tutela delle acque, elaborato da Appa Bolzano e in via di approvazione, definisce gli interventi ancora necessari al fine di completare, ampliare o risanare le reti fognarie e gli impianti di depurazione per assicurare anche un futuro rendimento ottimale. Nel prossimo futuro è previsto l’ampliamento di 15 impianti di depurazione, la costruzione di 3 nuovi e la dismissione di ulteriori 3 depuratori (Solda, Auna di Sotto e Meltina) con rispettivo collegamento agli impianti maggiori.

Pillole di sostenibilità tra le mura di casa

Per mantenere elevati gli standard di qualità degli impianti di depurazione è fondamentale anche il contributo di ciascuno cittadino, soprattutto tra le mura domestiche. Salviettine, cotton fioc, filo interdentale, capelli, oli vegetali, medicinali scaduti, rifiuti organici e altre sostanze solide o dannose, non vanno eliminate attraverso gli scarichi di lavandini, WC, lavastoviglie e lavatrici, perché entrano nel sistema fognario e possono portare alla completa disfunzione dell’impianto e quindi al blocco della depurazione delle acque.




Video realizzato da G.News su incarico dell’Agenzia di stampa della Provincia di BZ.
Versione del video in lingua tedesca

Ulteriori informazioni sulle acque reflue sono disponibili sul sito web di Appa Bolzano.

fonte: www.snpambiente.it


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Ricerca del virus SARS-CoV-2 nei reflui urbani: primi risultati in Valle d’Aosta

 

A giugno 2020 è stato avviato, in Italia, il progetto SARI, ovvero “Progetto di Sorveglianza Ambientale di SARS-CoV-2 attraverso i Reflui urbani in Italia: indicazioni sull’andamento epidemico e allerta precoce”. Il coordinamento tecnico-scientifico del progetto è a cura dell’Istituto Superiore di Sanità – ISS.


In sintesi lo scopo è quello di predisporre un sistema per tracciare la presenza del virus sul territorio nazionale, tramite l’analisi dei reflui urbani, analogamente a quello che già succede attualmente per altri virus. Anche ARPA Valle d’Aosta partecipa al progetto SARI, come struttura di livello ST3R, come struttura di coordinamento di tutte le attività analitiche eseguite nell’ambito del progetto per la Valle d’Aosta.

I siti di campionamento scelti, durante il periodo estivo, sono stati il depuratore di Brissogne, quello di La Salle e quello di Valtournenche. I prelievi sono stati effettuati con una cadenza settimanale nel periodo luglio-agosto 2020 in tutti e tre i siti, mentre a partire da metà settembre ci si è limitati a prelevare solo al depuratore di Brissogne.

Le analisi dei campioni sono iniziate a metà novembre. I risultati ottenuti fin qui sono molto interessanti in quanto sono state rilevate tracce del genoma virale di SARS-Cov-2 già a partire dai primi campioni, prelevati presso il depuratore di Valtournenche il 15 luglio 2020. Nella settimana successiva, tracce del virus sono state rilevate anche nel depuratore di La Salle, mentre in quello di Brissogne solo a partire dal 29 luglio 2020.

I protocolli analitici utilizzati sono ancora in fase di validazione, in quanto si tratta di metodiche molto complesse, di conseguenza i dati ottenuti in questa prima fase della ricerca possono essere considerati solo indicativi della presenza di tracce del virus nei campioni raccolti e quindi della sua circolazione nel territorio regionale.

In oltre 30 dei 40 campioni analizzati è stata rilevata almeno una delle due sequenze target del virus, ricercate tramite RT—Real Time PCR, cosa che indica la presenza, o meglio la presunta presenza, di RNA virale nei campioni.

Tuttavia bisogna specificare che rilevare tracce di RNA virale nei reflui non corrisponde a rilevare, in questa particolare matrice, virus vitale e infettivo: ciò significa soltanto che, molto presumibilmente, nella popolazione afferente a quel depuratore ci sono delle persone che hanno “incontrato” le particelle virali e le stanno eliminando tramite le loro deiezioni.

I risultati riportati, pur dovendo essere approfonditi con ulteriori prove di conferma, ci fanno supporre che questo sistema sia in grado di evidenziare la circolazione del virus in una determinata area geografica, anche in un momento in cui il numero di casi rilevati nella popolazione è molto basso, se non addirittura nullo, confermando quanto già riscontrato dagli altri studi citati.

I risultati ottenuti sono sicuramente molto interessanti e devono essere una base per indagini e approfondimenti ulteriori.

Scarica il documento completo in formato pdf Ricerca del virus SARS-CoV-2 nei reflui urbani: primi risultati in Valle d’Aosta



Foto 2 – Fase di concentrazione del campione

Foto 3 – Fase di estrazione degli acidi nucleici con metodo ISS

Foto 4 – Fase di estrazione degli acidi nucleici con metodo ARPA Valle d’Aosta

Foto 5 – Rilevazione sequenze target in RT Real Time PCR

fonte: www.snpambiente.it


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I jeans stanno inquinando i mari del mondo: trovate microfibre di denim anche nell’Artico

I jeans sono uno dei capi più amati e indossati al mondo. Un nuovo studio però ha rilevato che le microfibre del denim sono presenti non solo nelle acque reflue ma anche nei laghi e nei sedimenti marini dell’Artico.





Negli ultimi 100 anni, la popolarità dei blue jeans è cresciuta a dismisura. Molte persone li indossano ogni giorno forse non conoscendo quanto possano risultare dannosi per l’ambiente. Un nuovo studio, pubblicato su Environmental Science & Technology Letters, ha dimostrato che il lavaggio di questo indumento e di altri tessuti rilascia microfibre nelle acque reflue.

Anche se la maggior parte di esse vengono rimosse dagli impianti di trattamento, alcune finiscono comunque nell’ambiente attraverso lo scarico delle acque reflue. Miriam Diamond, Samantha Athey e gli altri autori dello studio si sono chiesti se i blue jeans fossero una delle principali fonti di microfibre di cellulosa per l’ambiente acquatico. I jeans infatti sono fatti anche da fibre di cellulosa di cotone naturale, lavorate con un colorante sintetico indaco e altri additivi chimici.

I ricercatori hanno utilizzato una combinazione di microscopia e spettroscopia per identificare e contare le microfibre in denim color indaco in vari campioni di acqua raccolti in Canada. Il denim indaco costituiva rispettivamente il 23%, il 12% e il 20% di tutte le microfibre trovate nei sedimenti dei Grandi Laghi, dei laghi suburbani poco profondi vicino a Toronto, e nell’arcipelago artico canadese.

Sulla base dei livelli di microfibre presenti negli effluenti delle acque reflue, i ricercatori hanno stimato che gli impianti di trattamento oggetto di studio scaricano circa 1 miliardo di microfibre denim indaco al giorno. Negli esperimenti, i ricercatori hanno scoperto che un singolo paio di jeans usati potrebbe rilasciare circa 50mila microfibre per ciclo di lavaggio.

Secondo i ricercatori, non si conoscono ancora gli effetti che le microfibre avranno sulla vita acquatica, un modo pratico per ridurre l’inquinamento da microfibra denim sarebbe quello di lavare i jeans meno spesso. Ma al di là di questo, un aspetto ha allarmato gli scienziati: la presenza di microfibre dei jeans nell’Artico è un potente indicatore dell’impatto umano sull’ambiente.

fonte: www.greenme.it

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Depurazione acque reflue, a che punto è l’Italia di fronte alle 4 procedure d’infrazione Ue



















Circa l’11% dei cittadini italiani non è ancora raggiunto dal servizio di depurazione delle acque reflue, e per questo nel corso degli anni l’Ue ha attivato 4 procedure di infrazione (con relative infrazioni a carico della collettività) nei confronti del nostro Paese. Una situazione che ha dell’incredibile, per far fronte alla quale il ministero dell’Ambiente ha individuato a maggio un commissario unico – Maurizio Giugni, accompagnato dai sub commissari Stefano Vaccari e Riccardo Costanza – per farvi fronte. A che punto siamo?

La Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati (commissione Ecomafie) ha audito il trio e, secondo quanto riferito, gli agglomerati di competenza del commissario sono circa 950, e ad oggi sono stati spesi per lavori circa 33 milioni di euro.

È utile ricordare, al proposito, che in ottemperanza del DPCM 11 maggio 2020 il commissario straordinario unico effettua gli interventi necessari sui sistemi di collettamento, fognatura e depurazione delle acque reflue negli agglomerati oggetto delle sentenze di condanna della Corte di Giustizia dell’Unione europea nell’ambito delle procedure di infrazione 2004/2034 e 2009/2034, e negli agglomerati interessati dalle altre due procedure di infrazione non ancora giunte a sentenza (2014/2059 e 2017/2181).

Rispetto alla Sicilia, la regione italiana maggiormente interessata dalle procedure di infrazione, gli auditi hanno riferito che il commissario sta attualmente gestendo 63 interventi su 50 agglomerati, compresi i grandi centri urbani di Palermo, Catania, Messina, Agrigento e Ragusa e i due grandi schemi idraulico-sanitari di Palermo e Misterbianco-Catania-Acireale. Secondo quanto riferito, il costo complessivo degli interventi per la Sicilia è di circa 1,6 miliardi di euro.

Gli auditi hanno inoltre riferito su una serie di criticità riscontrate in Sicilia, tra cui la progettazione assente o carente, il costo degli interventi spesso stimato in maniera imprecisa, i lunghi tempi di esame dei progetti, la mancanza a livello regionale di uno strumento informativo unico sugli agglomerati e i relativi abitanti equivalenti.

fonte: www.greenrport.it


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Così le microplastiche stanno contaminando le piante commestibili

Una nuova ricerca ha studiato le coltivazioni di lattuga e grano scoprendo che le microplastiche sono in grado di penetrare all’interno delle radici delle piante, passando alle parti commestibili del raccolto




Si trovano ormai ovunque, dagli ecosistemi acquatici al suolo, dalle spiagge affollate ai remoti ghiacci artici. Ora un gruppo di ricerca dell’Accademia Cinese delle Scienze (CAS) ha scoperto che le microplastiche si stanno facendo strada anche nelle coltivazioni agricole.

Lo studio, condotto da Luo Yongming, docente allo Yantai Institute of Coastal Zone Research (YIC) e al Nanjing Institute of Soil Science del CAS, è partito da un dato di fatto: le acque reflue e i fanghi di depurazione utilizzati per l’irrigazione agricola contengono ingenti quantità di particelle di polistirene e polimetilmetacrilato di dimensioni submicrometriche e micrometriche. Fino ad oggi gli scienziati ritenevano che queste microplastiche fossero troppo grandi per passare attraverso le barriere fisiche del tessuto vegetale quindi la presenza di tali particelle all’interno delle piante coltivate non era stata indagata.

La nuova ricerca, pubblicata su Nature Sustainability, ha rilevato invece che sia le particelle più piccole di 50 nanometri sia quelle più grandi di circa 40 volte possono penetrare nelle radici delle piante. Analizzando particelle sferiche con dimensioni che raggiungono i 2 micrometri, lo studio ha scoperto che sono i “tassi di traspirazione più elevati a migliorare l’assorbimento delle particelle di plastica” da parte dei vegetali. Come spiega Yongming “le piccole fessure nelle radici emergenti di lattuga (Lactuca sativa) e grano (Triticum aestivum) possono assorbire microplastiche sia dal suolo che dall’acqua. […] Le particelle attraversano quelle fessure ed entrano nei vasi dello xilema […] possono quindi essere trasferite dalle radici alle parti commestibili del raccolto”.

Non è però tutto. “E’ anche possibile – afferma Li Lianzhen, autore principale dello studio – che particelle più grandi di quelle che abbiamo studiato possano essere assorbite dalle piante”.

Se le microplastiche riescono a penetrare nei vegetali, allora significa che sono in grado di contaminare tutta la catena alimentare, dai latticini alla carne. Lo studio ha quindi sollevato nuove preoccupazioni sull’effettiva sostenibilità agricola e in particolare su quelle colture cresciute con irrigazione da acque reflue o da fanghi di depurazione, processi che potrebbero aiutare a introdurre le microplastiche nelle cellule dei vegetali. Al contempo mette in luce la necessità di approfondire la poco studiata, ma certa, incidenza delle microplastiche sulla salute umana.

fonte: www.rinnovabili.it



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Smart-plant: quando i depuratori diventano fabbriche di nuovi materiali








Trasformare gli impianti di depurazione in autentiche fabbriche dei materiali, capaci di recuperare dalle acque fognarie elementi preziosi come cellulosa, fosforo e biopolimeri. Questo l'obiettivo del progetto Smart-Plant, finanziato dalla Commissione europea nell'ambito del programma Horizon 2020, e promosso dall'Università Politecnica delle Marche, dall'Università di Verona e da Alto Trevigiano Servizi, che insieme hanno trasformato il depuratore di Carbonera, a due passi da Treviso, in un laboratorio dove il trattamento delle acque reflue sposa i principi dell'economia circolare.

fonte: https://www.ricicla.tv

In futuro berremo sempre più acqua riciclata, per il cambiamento climatico e la popolazione in aumento. Impariamo a conoscerla

















Di fronte alle carenze idriche con cui dovremo fare i conti nei prossimi anni, non è possibile essere schizzinosi: bisognerà abituarsi a bere anche l’acqua riciclata dagli impianti di depurazione, e dobbiamo tutti iniziare a familiarizzare con l’idea. Anche perché già oggi due miliardi di persone, il 70% delle quali residenti in grandi metropoli, prevalentemente in paesi dell’Africa e dell’Asia centrale, occidentale e meridionale, non hanno abbastanza acqua, e l’Onu prevede che entro il 2050 la domanda salirà del 20-30% a livello globale.
Inizia così un lungo articolo pubblicato su Nature nel quale Cecilia Tortajada, dell’Institute of Water Policy della Lee Kuan Yew School of Public Policy dell’Università di Singapore, e Pierre von Rensburg, del Department of Urban and Transport Planning di Windhoek (Namibia), raccontano le storie dei paesi dove la lavorazione delle acque reflue è molto avanzata, e dove percentuali non piccole della popolazione già oggi le usano per tutti gli impieghi domestici, compreso quello potabile.
Negli ultimi anni, spiegano gli autori, diverse città hanno iniziato a riutilizzare l’acqua proveniente dagli impianti di depurazione, che talvolta è l’unica opzione disponibile. Altrove si potrebbe fare lo stesso, ma la rappresentazione negativa data dai media e le informazioni scorrette o carenti fornite dalle autorità preposte hanno spesso generato una tale diffidenza nella popolazione interessata da impedire lo sviluppo di progetti che sarebbero stati all’insegna della sostenibilità.
Per avvicinarsi all’obbiettivo dell’accettazione piena bisognerebbe agire su più fronti, il primo dei quali è quello del trattamento. Oggi nei paesi occidentali la maggior parte delle acque reflue viene lavorata affinché non sia pericolosa, e poi scaricata nel mare o nei fiumi. Ma basterebbe migliorare il processo per poterla riutilizzare anche come acqua potabile, per esempio inviandola a un secondo ed eventualmente a un terzo impianto di depurazione (dopo quello classico) affinché venga trattata con agenti biologici, fisici o chimici in grado di depurarla del tutto. Da lì potrebbe essere reimmessa nel sistema degli acquedotti, oppure scaricata nei mari, nei laghi e nei fiumi, ma con un grado di purezza che la renderebbe indistinguibile da quella di sorgente, con evidenti vantaggi per l’ambiente, per la salute umana e soprattutto per i corsi di acqua dolce.
L’acqua riciclata è il prodotto del trattamento intensivo delle acque reflue
Un altro aspetto sul quale si potrebbe puntare è la conservazione: ovunque i sistemi vanno migliorati, avvalendosi anche di metodi moderni e basati sul controllo da parte dell’intelligenza artificiale, per migliorare la qualità e contenere sprechi e rischi. Allo stesso tempo, la popolazione andrebbe sensibilizzata molto di più affinché riduca gli sprechi, e conosca i benefici ambientali dell’acqua riciclata.
Quest’ultimo punto è particolarmente delicato, e potrebbe essere la chiave di tutto, scrivono gli autori, citando alcuni casi come quello della San Fernando Valley, in California. Lì già nel 1995 era stato proposto un piano per riutilizzare le acque, ma il Los Angeles Times aveva parlato del progetto con toni allarmistici, ripresi da alcuni politici locali, e alla fine l’unico impiego consentito era stato quello agricolo-industriale.
In Australia, nel 2006 i cittadini di Toowoomba (il 62% dei 95 mila residenti) hanno fermato un progetto simile, e nel 2009 è stato bocciato un grande programma, il Western Corridor Recycled Water Scheme, nonostante in quegli anni si fosse registrata la peggiore siccità mai riscontrata nella zona. Il progetto sarebbe costato 1,6 miliardi di dollari e avrebbe fornito 230 mila metri cubi d’acqua al giorno, pari al 30% del fabbisogno della zona, ma la mobilitazione popolare ha posto un limite: l’acqua riciclata per uso domestico avrebbe potuto essere prodotta solo quando i livelli del bacino idrico fossero scesi al di sotto del 40% del normale, ed è diventata quindi solo una sorta di misura di emergenza.
Bisogna quindi lavorare molto e con intelligenza sul fronte dell’informazione al pubblico, perché questo può fare la differenza. Esemplare, in tal senso, quanto accaduto a San Diego, in California, negli anni Novanta, dove era stato proposto un progetto di riciclo volto a diminuire la dipendenza dal fiume Colorado, anch’esso inquinato e soggetto a periodi di siccità ricorrenti e sempre più frequenti. Inizialmente la popolazione lo aveva appoggiato, ma in un secondo tempo l’orientamento era mutato per la scarsità delle informazioni sulla sicurezza fornite, oltreché per articoli e reportage con titoli come “berremo l’acqua di fogna”. Il risultato era stato che, anche in quel caso, era stato permesso solo un uso industriale o agricolo, e il problema dell’approvvigionamento idrico aveva continuato ad aggravarsi. Nel 2004, solo il 26% approvava il riutilizzo delle acque.
Pfas
Diversi progetti per il riutilizzo dell’acqua riciclata sono stati bloccati per l’ostilità e i timori della cittadinanza
Poi la svolta, basata su un’adeguata campagna informativa: nel 2012 la percentuale di cittadini favorevoli era salita al 72% e l’anno successivo la città ha approvato il Pure Water San Diego, un programma grazie al quale gli impianti di depurazione e riciclo dovrebbero produrre 114 mila metri cubi di acqua al giorno entro il 2023, e fornire un terzo dell’acqua necessaria alla città entro il 2035. Il successo è stato possibile grazie al continuo coinvolgimento dei cittadini, dell’amministrazione locale e nazionale, delle aziende coinvolte, di medici e scienziati ambientali, di leader religiosi e, non ultimo, dei media.
Lo stesso è accaduto durante la realizzazione di tre progetti analoghi. Il primo è il caso di Windhoek, in Namibia, città che sorge in una zona desertica, dove i lavori del Goreangab Water Reclamation Plant sono iniziati addirittura nel 1968: oggi l’impianto fornisce alla città il 24% dell’acqua potabile (21 mila metri cubi al giorno), quota che è salita al 30% nel biennio 2014-2016, flagellato da una tremenda siccità durante la quale le fonti normali avevano potuto fornire solo il 10% dell’acqua potabile.
Il secondo è quello della Contea di Orange, in California, nella quale dal 2008 è operativo l’Orange County Groundwater Replenishment System, ovvero il sistema di purificazione delle acque più grande del mondo, che produce ogni giorno 379 mila metri cubi d’acqua. Infine c’è Singapore, che ha lavorato per molti anni al suo NEWater prima di lanciarlo, nel 2003. Oggi il sistema fornisce addirittura il 40% di tutta l’acqua necessaria alla città, potabile e non, e dovrebbe salire al 55% nel 2060.
Va detto – ricordano Tortajada e von Rensburg – che i timori sulla sicurezza delle acque non sono del tutto infondati, e che è necessario quindi lavorare con particolare scrupolo su di esso. Uno dei casi più famosi è quello di Flint, in Michigan, che nel 2014 dovette fare i conti con acqua pesantemente contaminata con il piombo, e casi analoghi si sono avuti negli ultimi mesi in alcune cittadine canadesi. Nel 2019, invece, in alcune città della California l’acqua è risultata contaminata da Pfas. Anche per questo bisognerà mettere a punto sistemi di controllo sempre più efficaci e sensibili per le possibili contaminazioni batteriologiche o virali (in crescita a causa del riscaldamenti globale), ma anche chimiche, poiché è in costante aumento il numero e la varietà delle sostanze che vengono scaricate in acqua (si pensi, per esempio, a detersivi, cosmetici e farmaci).
Ma le esperienze dei paesi più avanzati e attenti dimostrano che fornire acqua riciclata del tutto sicura è possibile, e conveniente per tutti. E presto potrebbe essere necessario.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

L’inaspettato compito dei batteri nella depurazione biologica



























Cosa vi frulla per la testa quando sentite la parola “microrganismi”?
Quali sono le emozioni che evoca questo vocabolo? Sensazione di sporco e
terrore delle più disparate patologie, non è vero? E se invece fossero
proprio i microrganismi a favorire alcune opere di decontaminazione delle nostre acque? È proprio questo quello che succede nel processo della depurazione biologica.  



L’acqua che viene utilizzata per attività civili, agricole o
industriali, e che quindi ha mutato la propria qualità diventando
inidonea per il consumo umano (regolamentata dal Decreto Legislativo 2
febbraio 2001, n. 31), viene chiamata “refluo” e deve necessariamente
subire una serie di processi atti a poterne permettere il
riutilizzo.                                




      Trattamenti di depurazione

Possiamo suddividere i trattamenti che si susseguono in quella che viene
chiamata “linea acqua” in: preliminari, primari, secondari e terziari. 


        Trattamenti preliminari

I trattamenti preliminari hanno il compito di eliminare i rifiuti più
grossolani che potrebbero arrecare danno all’impianto di depurazione.


        Trattamenti primari

I trattamenti primari sono caratterizzati dalla sedimentazione e servono
per rimuovere i solidi sospesi (attraverso l’utilizzo di una vasca a
fondo conico).


        Trattamenti secondari

I trattamenti secondari hanno lo scopo di degradare la sostanza organica.


        Trattamenti terziari

I trattamenti terziari servono principalmente a ridurre la presenza di
nitrati e fosfati  che potrebbero causare danni ad alcuni ecosistemi
(quale per esempio quello marino) provocando il fenomeno che viene
chiamato
“eutrofizzazione”.                                                     


      Il ruolo dei microrganismi della depurazione biologica

Dunque quand’è che agiscono questi indispensabili
microrganismi?Soprattutto nei trattamenti secondari, laddove, in
particolare i batteri, come suddetto, convertono le sostanze inquinanti
in una serie di composti non dannosi.

Naturalmente i batteri che intervengono  si differenziano in base alle
condizioni ambientali che si presentano. I generi più abbondanti sono
sicuramente Flavobacterium, Bacillus, Pseudomonas, Nitrosomonas e
Nitrobacter. In questa fase le sostanze organiche complesse vengono
convertite in sostanze inorganiche più semplici, come: CO2, H2O, NH4+,
NO2– NO3–. Questi processi avvengono in ampie vasche in cui è favorita
l’ossigenazione (necessaria per i batteri aerobi) ma viene limitato il
mescolamento che invece sfavorirebbe i sedimentanti formatisi.


      Trattamento a “fanghi attivi”

È affascinante il fatto che già i ricercatori del primo ‘900, tra cui
Karl Imhoff, notarono l’importanza dei microrganismi nella depurazione
delle acque, ideando quello che viene ricordato come trattamento a
“fanghi attivi”, frutto dell’adattamento e della selezione di specie
batteriche appropriate alla trasformazione del liquame.

Anche nei trattamenti terziari, intervengono i batteri. Nella
denitrificazione, i batteri eterotrofi facoltativi come Pseudomonas
denitrificans, Paracoccus denitri ficans, Thiobacillus denitrifcans
trasformano i nitrati NO3 in azoto molecolare N2. Nella defosfatazione
invece, i batteri eterotrofi fosfo-accumulanti come Acinetobacter spp.
tendono naturalmente ad accumulare fosforo sotto forma di polifosfati.

È dunque bene accostare sempre la conoscenza dei microrganismi patogeni
e dannosi per lo sviluppo in campo medico, biologico e diagnostico alla
consapevolezza della loro straordinaria efficacia nei più svariati ambiti.


        Fonti

  * https://www.isprambiente.gov.it <https://www.isprambiente.gov.it/>
  * https://www.arpacampania.it <https://www.arpacampania.it/>
  * https://guardiacivica.it/sito/documenti/acquereflue.pdf
  * https://www.ruwa.it <https://www.ruwa.it/>
  * https://www.stacque.com <https://www.stacque.com/>
  * https://www.camera.it <https://www.camera.it/>



fonte: https://www.microbiologiaitalia.it

Bozza decreto fanghi, più sostanze tossiche nei terreni agricoli?

La bozza del decreto fanghi dello scorso giugno desta forti preoccupazioni da parte di European Consumers e dell'Associazione Medici per l'Ambiente ISDE Italia. Questo nuovo decreto mira, secondo noi ma anche di fatto, a rendere più agevole lo spandimento dei fanghi di depurazione a prescindere dalla presenza o meno in essi di sostanze tossiche”.


















Acque reflue urbane. I fanghi prodotti attraverso il loro processo di depurazione sono da tempo utilizzati come fertilizzanti in agricoltura, forti del loro contenuto di sostanze organiche. Il riutilizzo agronomico dei fanghi costituisce infatti, da un lato, una soluzione al problema del loro smaltimento. Tuttavia, a causa della possibile presenza di composti organici nocivi e metalli pesanti, i fanghi di depurazione sono a tutti gli effetti dei rifiuti e, in quanto tali, le loro attività di deposito, trattamento e trasporto devono essere regolamentate. In particolare -pena la sicurezza agroalimentare- la garanzia della qualità dei fanghi deve essere costantemente assicurata da controlli e analisi.
Eppure, secondo quanto denunciato in una nota congiunta da parte di European Consumers e dell'Associazione Medici per l'Ambiente ISDE Italia, la bozza del decreto fanghi tuttora in esame non garantisce la sicurezza auspicata. La bozza del decreto, attualmente in discussione presso il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare e intitolato “Disciplina della gestione dei fanghi di depurazione delle acque reflue e attuazione della direttiva 86/278/CEE concernente la protezione dell'ambiente, in particolare del suolo, nell'utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura”, è stata presentata il 28 Giugno. Riguarda la revisione sulla Normativa sui Fanghi di depurazione per uso agricolo, inserita surrettiziamente la prima volta nel “Decreto Genova” del 2018.


“Questo nuovo decreto mira, secondo noi ma anche di fatto, a rendere più agevole lo spandimento dei fanghi di depurazione a prescindere dalla presenza o meno in essi di sostanze tossiche” si legge nel comunicato. “Nonostante i nostri appelli e richieste di chiarimenti, le Autorità Competenti non sono state in grado di spiegare perché i limiti non dovrebbero rispettare il decreto legislativo 152/2006 e cioè la soglia più bassa. I reflui urbani che finiscono nei depuratori non contengono solo idrocarburi di origine animale o vegetale, ma anche 10 oli e idrocarburi minerali. Appare giusto pretendere che in questi, attraverso opportuni processi di selezione, fermentazione e compostaggio, gli idrocarburi siano al di sotto dei più bassi limiti identificati come sicuri per la salute umana e ambientale. Per rendere accettabili i livelli non si deve sollevare il limite, ma prevenire la dispersione a monte”.
In particolare, le maggiori preoccupazioni riguardano:
  • la declassificazione dei fanghi, compresi quelli industriali, dall’originaria categoria di “rifiuto speciale”, con una conseguente eccessiva semplificazione nella gestione;
  • limiti inadeguati e riguardanti anche nuovi composti e sostanze potenzialmente pericolose come, ad esempio, il mercurio; il recepimento di una direttiva già recepita e senza delega al Governo;
  • assenza di sanzioni riguardanti alcuni casi e rischi;
  • la profilazione di possibili deroghe da parte delle regioni e, di contro, l'obbligo imposto agli enti locali ad accettare sul proprio territorio lo spandimento.
Secondo i due enti, mancano alcune fondamentali precauzioni necessarie a gestire in modo adeguato la raccolta, il trattamento e la distribuzione dei reflui urbani (sottovasche ai serbatoi non idrici, controtubi agli impianti che veicolano sostanze pericolose, incentivi per trattamenti sostenibili, per citarne alcune).
Per queste e altre ragioni, il comunicato (qui pubblicato in versione integrale) conclude con parole a dir poco sconfortanti: “Sono necessarie, quindi, significative correzioni del Decreto in oggetto per evitare la diffusione di POPs e altre sostanze nocive nei terreni agricoli così come è necessario agire per la definizione di limiti guida nazionali per individuare e monitorare l’inquinamento dei suoli agricoli, in particolare, in coincidenza con lo spandimento di fanghi. Si considera quindi incoerente e pericolosa dal punto di vista ambientale l’intera impalcatura di tale normativa che, invece di andare verso produzioni sempre più sicure, favorisce di fatto la contaminazione ambientale”.

fonte: https://www.nonsoloambiente.it

Biometano dai reflui e rifiuti, l’Emilia Romagna lo testa nei trasporti

Siglato l’accordo tra ART-ER, Iren e Volkswagen per sperimentare  il carburante prodotto dai fanghi del depuratore di Roncocesi. Assessore Costi: “Nel Piano Energetico Regionale il biometano è una delle vie verso la sostenibilità”





















Taglio del nastro per il primo distributore di biometano dai reflui a Reggio Emilia. L’impianto – frutto del progetto Biomether – sarà al centro di una nuova sperimentazione avviata da ART-ER, la nuova azienda regionale per la crescita e l’innovazione, in collaborazione con la multiservizi IREN e Volkswagen. In occasione dell’inaugurazione del distributore, infatti, le tre società hanno siglato un accordo per testare direttamente su strada le prestazioni del nuovo carburante.
“Sappiamo che il futuro si giocherà su un mix di misure che vanno dall’elettrico all’utilizzo di carburanti verdi e nel Piano Energetico Regionale il biometano è una delle vie verso la sostenibilità – ha commentato Palma Costi, Assessore regionale alle attività produttive della Regione Emilia-Romagna – Per questo ritengo l’accordo un passo importante, anche perché sancisce la collaborazione tra soggetti diversi che dimostra come grandi obiettivi, come quelli della sostenibilità, si raggiungono condividendo capacità, competenze e risorse”.

Per i prossimi due anni tre Volkswagen “Polo TGI” saranno rifornite con biometano e messe alla prova su una percorrenza annua di 15 chilometri. Il piano test, a cura di ENEA, andrà ad analizzare il comportamento energetico-emissivo di motori alimentati a gas naturale con la versione “bio” del combustibile“Grazie al biometano – ha spiegato Renato Boero, Presidente della società – i veicoli che sono in fase di sperimentazione hanno un impatto ambientale quasi nullo”.
Nel dettaglio, il combustibile sarà prodotto dai fanghi del depuratore di Roncocesi (RE): qui infatti le acque reflue saranno trattate catturando il biogas generato e procedendo quindi all’upgrading per ottenere una percentuale di metano superiore al 95%.

Non si tratta dell’unica iniziativa realizzata nella regione sul versante biofuel. Lo stesso progetto Biomether ha in programma altre due tappe. Oggi nel Comune di Ravenna verrà presentato il primo impianto di produzione di biometano da biogas da discarica. Il combustibile verrà utilizzato per alimentare gli autobus a metano di START Romagna. Domani invece saranno presentate a Bologna le Linee Guida Regionali per il biometano per fornire indicazioni sullo sviluppo del settore.

L’apertura del distributore di biometano a Roncocesi fa parte di un ciclo di eventi per la chiusura del progetto Biomether che, nato nel 2013 con il finanziamento comunitario LIFE e della Regione Emilia-Romagna, ha avuto la finalità di dimostrare che la produzione di biometano è sostenibile e replicabile”, ha aggiunto Marina Silverii, direttore di ART-ER. “Lo sviluppo di questo progetto in Emilia-Romagna, prima regione in Italia per l’utilizzo di gas naturale per l’alimentazione dei veicoli e  seconda per la produzione di biogas (16%), dopo la Lombardia (33%), conferma la forte attenzione ai temi della sostenibilità”.

fonte: www.rinnovabili.it