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Auto elettriche: nuova vettura depura l’aria dallo smog

Auto elettriche, nuova vettura depura l'aria dallo smog: è questo il progetto presentato da Heatherwick Studio, casa di design londinese.



L’universo delle auto elettriche aiuta l’ambiente non solo riducendo le emissioni di anidride carbonica, ma anche depurando l’aria dallo smog. È quanto conferma un nuovo progetto presentato nel Regno Unito, quello di una vettura elettrica capace di assorbire gli inquinanti presenti nell’aria circostanze.

In altre parole, più si guida il veicolo maggiore sarà il quantitativo d’aria depurato. Al momento, non è dato sapere quando la vettura sarà messa in vendita per gli utenti finali.

Auto elettriche, ora depurano anche l’aria

Il concept della nuova auto elettrica è stato sviluppato dalla casa di design londinese Heatherwick Studio, per IM Motors. Il veicolo è stato ribattezzato Airo ed è stato poi presentato nel corso dell’ultimo Salone dell’Auto di Shanghai, soltanto pochissimi giorni fa.

Dal design futuristico, con tanto di sportelli semoventi, la caratteristica fondamentale di questa auto è la presenza di speciali filtri pensati per depurare l’aria circostante al mezzo. Dei bocchettoni aspirano infatti l’aria ricca di smog, trattengono le particelle più dannose e rimandano all’esterno aria perfettamente depurata. Così ha spiegato Thomas Heatherwick, fondatore di Heatherwick Studio:

Airo non è semplicemente un’altra auto elettrica che non rilascia emissioni. Invece, grazie alla tecnologia dei filtri HEPA, va oltre e aspira gli inquinanti nell’aria e prodotti di altre vetture mentre la si guida su strada.

I filtri HEPA montati sull’auto elettrica Airo sono in grado di trattenere sia i PM10 che i PM2.5, nonché il diossido di azoto. In totale, il sistema di aspirazione è in grado di trattenere il 99.97% delle particelle contaminanti presenti nello smog, di dimensioni fino a 0.3 micron.

La vettura è ora solamente in fase di concept, ma l’intenzione è quella di avviare la produzione nei prossimi due anni. Si tratta di un progetto innovativo e amico dell’ambiente che, se adottato anche da altri produttori, potrebbe rendere più veloce l’abbattimento degli inquinanti e dello smog cittadino.

Fonte: CGTN


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Nanotecnologie green per la depurazione delle acque, senza bisogno di impianti

 

La nuova frontiera per il trattamento delle acque inquinate è rappresentata dall’utilizzo di nanomateriali che si ottengono da scarti o rifiuti agricoli e che non costituiscono un pericolo per gli ecosistemi naturali. Lo dimostra il progetto “Nanobond, nanomateriali per la bonifica associata a dewatering di matrici ambientali”, cofinanziato dal Fondo europeo per lo sviluppo regionale POR FESR 2014-2020, di cui è coordinatrice scientifica la professoressa Ilaria Corsi, ecologa del dipartimento di Scienze fisiche, della Terra e dell’ambiente dell’Università di Siena.

Al progetto, di cui è capofila l’azienda Acque industriali srl, hanno partecipato come partner, Bartoli spa azienda cartaria, Biochemie LAB srl, Ergo srl, Labromare srl, il consorzio Interuniversitario Nazionale per la Scienza e Tecnologia dei Materiali con le Università di Siena, Pisa, Torino e il Politecnico di Milano, oltre all’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale (ISPRA) e l’Agenzia per lo Sviluppo Empolese Valdelsa (ASEV).

La nanoremediation diventa ecocompatibile

Il progetto, spiegano dall’ateneo senese, associa alle membrane geotessili drenanti, già ampiamente utilizzate per la rimozione della fase acquosa da dragaggi soggetti a bonifica, l’utilizzo di “nanotecnologie”, sostenibili ed ecocompatibili, che agiscono rimuovendo inquinanti nocivi dalle acque e dai sedimenti. Quest’ultima pratica, conosciuta anche con il nome di nanoremediation, avviene attraverso l’utilizzo di materiali nanostrutturati chiamati nanospugne e appositamente creati nell’ambito della ricerca del progetto attraverso il concetto dell’eco-design, ovvero la verifica dal punto di vista ecotossicologico della loro sicurezza per applicazioni ambientali come la bonifica dei dragaggi.

Le operazioni del dragaggio idraulico avvengono quindi sia con un filtraggio meccanico, tramite i geotessili, sia con l’utilizzo associato delle nanospugne che permettono la decontaminazione delle acque in uscita e anche dei sedimenti raccolti e stoccati dai geotessili. Materiali che saranno poi caratterizzati ai fini del loro smaltimento o possibile riutilizzo a seconda dei valori analitici.

Depurazione senza bisogno di impianto

I nanomateriali garantiscono così un idoneo trattamento delle acque senza necessità di un impianto di depurazione, comportando un notevole risparmio soprattutto su bacini d’acqua molto grandi: canali di bonifica o aree portuali, come ad esempio quella del porto di Livorno o della darsena dei Navicelli a Pisa dove il progetto è stato testato.

“Il progetto Nanobond – spiega la professoressa Ilaria Corsi – ha aggiunto un tassello in più in quanto i nanomateriali che abbiamo utilizzato per creare le nanospugne provengono dal settore del recupero degli scarti. Per questo tra i partner c’è anche Bartoli, un’azienda cartaria. Le nanospugne sono prodotte da cellulosa di carta da macero o da prodotti di scarto organico, i tuberi, da cui abbiamo ricavato l’amido”.

Una strategia per la bonifica delle acque

La missione di Nanobond è sia quella di elaborare una strategia di bonifica delle acque inquinate, sia di farlo utilizzando dei nanomateriali che non siano nocivi per l’ambiente. “Anzi, che siano ecocompatibili – aggiunge la professoressa Corsi – Nanobond ha inoltre contribuito a colmare un vuoto legislativo nazionale ed europeo. Prima di questo progetto, proprio perché non si conoscevano gli effetti sull’ecosistema dei nanomateriali impiegati per le bonifiche, l’Unione europea non poteva coprire queste pratiche con una legislazione che le legittimasse. La ricerca sulla tecnologia di nanoremediation di Nanobond ha permesso quindi di sviluppare anche un documento di raccomandazioni che contiene le linee guida per l’utilizzo dei nanomateriali ecocompatibili per la bonifica di siti contaminati. In un certo senso abbiamo anticipato i pilastri del Green Deal europeo: zero pollution ed economia circolare”.

Il progetto Nanobond ha avuto poi una evoluzione attraverso un altro progetto di ricerca “Interreg”, portato avanti con partner di altri paesi europei e quindi la ricerca è diventata una “best practice”.

Nanobond senza brevetto alla portata di tutti

“Abbiamo deciso di non richiedere il brevetto – conclude la professoressa Corsi – in quanto si tratta di un progetto finanziato con fondi pubblici e deve essere quindi alla portata di tutti ai fini di avere delle nanotecnologie efficaci e sicure per il settore delle bonifiche ambientali”.

fonte: www.recoverweb.it


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Acque reflue urbane: il miglioramento della raccolta e del trattamento in tutta l'UE aiuta a ridurre l'inquinamento ambientale

Report della Commissione europea











La Commissione europea ha pubblicato la decima relazione sull'attuazione della direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane (UWWTD) che mostra un miglioramento generale nella raccolta e nel trattamento delle acque reflue nelle città e nei paesi europei, ma indica livelli di successo diversi tra gli Stati membri.

La direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane (di seguito "la direttiva") è uno strumento atto ad avvicinare l'UE all'obiettivo ambizioso di inquinamento zero proclamato nel Green Deal europeo.

Essa fa obbligo agli Stati membri di disporre affinché gli agglomerati (città, cittadine, centri urbani) raccolgano e trattino in modo adeguato le acque reflue che altrimenti inquinerebbero fiumi, laghi e mari. In tal modo, la direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane svolge un ruolo fondamentale nel proteggere la salute umana e nel sostenere la resilienza complessiva degli ecosistemi acquatici. Essa può inoltre apportare un contributo significativo all'economia circolare, grazie al riutilizzo dei fanghi di depurazione e delle acque reflue trattate, alla produzione di energia rinnovabile e al riciclaggio dei nutrienti.



La decima relazione biennale sull'applicazione, da parte degli Stati membri, della direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane e dei relativi programmi di investimento presenta i dati relativi all'anno 2016 ed è riferita ad oltre 23.600 agglomerati la cui popolazione (e, in misura limitata, l'industria) genera acque reflue per un totale di 612 milioni di abitanti equivalenti (a.e.).

Negli ultimi dieci anni, l'UE ha registrato miglioramenti nella raccolta e nel trattamento delle acque reflue urbane, con tassi di conformità del 95% per la raccolta, dell'88% per il trattamento secondario (biologico) e dell'86% per il trattamento più spinto (eliminazione del fosforo e dell'azoto).



Ma rimane del lavoro da fare per conseguire la piena conformità alla direttiva. Lo scostamento dall'obiettivo rimane significativo in alcuni Stati membri: un quantitativo di acque reflue urbane corrispondente a 6,6 milioni di a.e. (1%) non è raccolto e oltre 37 milioni di a.e. (6%) di acque reflue raccolte non sono adeguatamente trattati conformemente alle norme sul trattamento secondario, mentre quasi 32 milioni di a.e. (8%) non sono conformi alle norme sul trattamento più spinto. Ciò significa che in alcuni agglomerati dell'UE è necessario costruire o migliorare le infrastrutture. Nei casi di inosservanza, sono sistematicamente avviati procedimenti di infrazione.





Il finanziamento e la pianificazione rimangono le principali problematiche cui deve far fronte il settore dei servizi idrici. Il fabbisogno di investimento totale per garantire il rispetto della direttiva, come stimato nel 2016 da tutti gli Stati membri (compreso il Regno Unito all'epoca), ammontano a quasi 229 miliardi di euro. Analogamente, secondo le stime dell'OCSE, tra il 2020 e il 2030 i paesi dell'UE e il Regno Unito dovranno spendere altri 253 miliardi di euro per raggiungere e mantenere la conformità alla direttiva. In molti Stati membri, l'attuale livello di spesa è stato ritenuto troppo basso per conseguire e mantenere la conformità a lungo termine.

fonte: www.arpat.toscana.it/


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Depurazione acque reflue, a che punto è l’Italia di fronte alle 4 procedure d’infrazione Ue



















Circa l’11% dei cittadini italiani non è ancora raggiunto dal servizio di depurazione delle acque reflue, e per questo nel corso degli anni l’Ue ha attivato 4 procedure di infrazione (con relative infrazioni a carico della collettività) nei confronti del nostro Paese. Una situazione che ha dell’incredibile, per far fronte alla quale il ministero dell’Ambiente ha individuato a maggio un commissario unico – Maurizio Giugni, accompagnato dai sub commissari Stefano Vaccari e Riccardo Costanza – per farvi fronte. A che punto siamo?

La Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati (commissione Ecomafie) ha audito il trio e, secondo quanto riferito, gli agglomerati di competenza del commissario sono circa 950, e ad oggi sono stati spesi per lavori circa 33 milioni di euro.

È utile ricordare, al proposito, che in ottemperanza del DPCM 11 maggio 2020 il commissario straordinario unico effettua gli interventi necessari sui sistemi di collettamento, fognatura e depurazione delle acque reflue negli agglomerati oggetto delle sentenze di condanna della Corte di Giustizia dell’Unione europea nell’ambito delle procedure di infrazione 2004/2034 e 2009/2034, e negli agglomerati interessati dalle altre due procedure di infrazione non ancora giunte a sentenza (2014/2059 e 2017/2181).

Rispetto alla Sicilia, la regione italiana maggiormente interessata dalle procedure di infrazione, gli auditi hanno riferito che il commissario sta attualmente gestendo 63 interventi su 50 agglomerati, compresi i grandi centri urbani di Palermo, Catania, Messina, Agrigento e Ragusa e i due grandi schemi idraulico-sanitari di Palermo e Misterbianco-Catania-Acireale. Secondo quanto riferito, il costo complessivo degli interventi per la Sicilia è di circa 1,6 miliardi di euro.

Gli auditi hanno inoltre riferito su una serie di criticità riscontrate in Sicilia, tra cui la progettazione assente o carente, il costo degli interventi spesso stimato in maniera imprecisa, i lunghi tempi di esame dei progetti, la mancanza a livello regionale di uno strumento informativo unico sugli agglomerati e i relativi abitanti equivalenti.

fonte: www.greenrport.it


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Indicazioni dell'ISS sulla gestione dei fanghi di depurazione




















L’Istituto superiore di sanità (ISS) ha pubblicato il rapporto "Indicazioni ad interim sulla gestione dei fanghi di depurazione per la prevenzione della diffusione del virus SARS-CoV-2", destinato ai gestori del servizio idrico integrato, inclusi gli operatori degli impianti di depurazione, e alle autorità ambientali e sanitarie che operano sul territorio nazionale.
Il documento descrive le modalità operative per la gestione dei fanghi di depurazione, fornendo precise raccomandazioni su recupero, smaltimento, trattamento o riutilizzo, nel rispetto della normativa di riferimento e limitatamente alle circostanze contingenti legate all’emergenza COVID-19.
Le linee di indirizzo condivise dall'ISS riportano, in sintesi, le seguenti raccomandazioni per:
  • compostaggio e digestione anaerobica: tempi e temperature di trattamento rendono irrilevante il rischio di trasmissione del Coronavirus;
  • incenerimento e disidratazione termica: condizioni e temperature di trattamento rendono irrilevante il rischio di trasmissione del virus;
  • smaltimento in discarica: particolare attenzione va dedicata alle fasi della raccolta dei fanghi presso gli impianti di depurazione e del successivo trasporto, da effettuare con mezzi meccanici idonei e nel rispetto delle condizioni igieniche per gli addetti e per l’ambiente, evitando la formazione di aerosol e polveri e qualsiasi altro tipo di dispersione;
  • riutilizzo in agricoltura tramite spandimento o produzione di ammendanti e correttivi: bisogna assicurare il trattamento di stabilizzazione (con calce, acido solforico, ammoniaca, soda o relative combinazioni, digestione anaerobica o aerobica, disidratazione termica, idrolisi termica ecc.) e la coerenza con le buone pratiche agricole.
L'ISS evidenzia infine l’opportunità di potenziare i controlli su eventuali smaltimenti illeciti di acque reflue o fanghi non trattati in impianti di depurazione che, anche tramite la contaminazione di falde sotterranee o superficiali, potrebbero determinare un'esposizione umana a matrici potenzialmente infette dal virus.

fonte: http://www.arpat.toscana.it


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Microrganismi Effettivi: Una soluzione microbica per salvare il pianeta








Dobbiamo cominciare a favorire un benessere collettivo promuovendo un'economia sana, basata sulla collaborazione, sulla promozione della qualità, sull'equa ridistribuzione e sul rispetto dell'ambiente in cui viviamo. Perché questo avvenga è indispensabile che ognuno di noi cominci a fare la propria parte, non possiamo più stare con le mani in mano aspettando che qualcun altro lo faccia Scopri come unirti al movimento http://www.pulitisenzachimica.com/

In futuro berremo sempre più acqua riciclata, per il cambiamento climatico e la popolazione in aumento. Impariamo a conoscerla

















Di fronte alle carenze idriche con cui dovremo fare i conti nei prossimi anni, non è possibile essere schizzinosi: bisognerà abituarsi a bere anche l’acqua riciclata dagli impianti di depurazione, e dobbiamo tutti iniziare a familiarizzare con l’idea. Anche perché già oggi due miliardi di persone, il 70% delle quali residenti in grandi metropoli, prevalentemente in paesi dell’Africa e dell’Asia centrale, occidentale e meridionale, non hanno abbastanza acqua, e l’Onu prevede che entro il 2050 la domanda salirà del 20-30% a livello globale.
Inizia così un lungo articolo pubblicato su Nature nel quale Cecilia Tortajada, dell’Institute of Water Policy della Lee Kuan Yew School of Public Policy dell’Università di Singapore, e Pierre von Rensburg, del Department of Urban and Transport Planning di Windhoek (Namibia), raccontano le storie dei paesi dove la lavorazione delle acque reflue è molto avanzata, e dove percentuali non piccole della popolazione già oggi le usano per tutti gli impieghi domestici, compreso quello potabile.
Negli ultimi anni, spiegano gli autori, diverse città hanno iniziato a riutilizzare l’acqua proveniente dagli impianti di depurazione, che talvolta è l’unica opzione disponibile. Altrove si potrebbe fare lo stesso, ma la rappresentazione negativa data dai media e le informazioni scorrette o carenti fornite dalle autorità preposte hanno spesso generato una tale diffidenza nella popolazione interessata da impedire lo sviluppo di progetti che sarebbero stati all’insegna della sostenibilità.
Per avvicinarsi all’obbiettivo dell’accettazione piena bisognerebbe agire su più fronti, il primo dei quali è quello del trattamento. Oggi nei paesi occidentali la maggior parte delle acque reflue viene lavorata affinché non sia pericolosa, e poi scaricata nel mare o nei fiumi. Ma basterebbe migliorare il processo per poterla riutilizzare anche come acqua potabile, per esempio inviandola a un secondo ed eventualmente a un terzo impianto di depurazione (dopo quello classico) affinché venga trattata con agenti biologici, fisici o chimici in grado di depurarla del tutto. Da lì potrebbe essere reimmessa nel sistema degli acquedotti, oppure scaricata nei mari, nei laghi e nei fiumi, ma con un grado di purezza che la renderebbe indistinguibile da quella di sorgente, con evidenti vantaggi per l’ambiente, per la salute umana e soprattutto per i corsi di acqua dolce.
L’acqua riciclata è il prodotto del trattamento intensivo delle acque reflue
Un altro aspetto sul quale si potrebbe puntare è la conservazione: ovunque i sistemi vanno migliorati, avvalendosi anche di metodi moderni e basati sul controllo da parte dell’intelligenza artificiale, per migliorare la qualità e contenere sprechi e rischi. Allo stesso tempo, la popolazione andrebbe sensibilizzata molto di più affinché riduca gli sprechi, e conosca i benefici ambientali dell’acqua riciclata.
Quest’ultimo punto è particolarmente delicato, e potrebbe essere la chiave di tutto, scrivono gli autori, citando alcuni casi come quello della San Fernando Valley, in California. Lì già nel 1995 era stato proposto un piano per riutilizzare le acque, ma il Los Angeles Times aveva parlato del progetto con toni allarmistici, ripresi da alcuni politici locali, e alla fine l’unico impiego consentito era stato quello agricolo-industriale.
In Australia, nel 2006 i cittadini di Toowoomba (il 62% dei 95 mila residenti) hanno fermato un progetto simile, e nel 2009 è stato bocciato un grande programma, il Western Corridor Recycled Water Scheme, nonostante in quegli anni si fosse registrata la peggiore siccità mai riscontrata nella zona. Il progetto sarebbe costato 1,6 miliardi di dollari e avrebbe fornito 230 mila metri cubi d’acqua al giorno, pari al 30% del fabbisogno della zona, ma la mobilitazione popolare ha posto un limite: l’acqua riciclata per uso domestico avrebbe potuto essere prodotta solo quando i livelli del bacino idrico fossero scesi al di sotto del 40% del normale, ed è diventata quindi solo una sorta di misura di emergenza.
Bisogna quindi lavorare molto e con intelligenza sul fronte dell’informazione al pubblico, perché questo può fare la differenza. Esemplare, in tal senso, quanto accaduto a San Diego, in California, negli anni Novanta, dove era stato proposto un progetto di riciclo volto a diminuire la dipendenza dal fiume Colorado, anch’esso inquinato e soggetto a periodi di siccità ricorrenti e sempre più frequenti. Inizialmente la popolazione lo aveva appoggiato, ma in un secondo tempo l’orientamento era mutato per la scarsità delle informazioni sulla sicurezza fornite, oltreché per articoli e reportage con titoli come “berremo l’acqua di fogna”. Il risultato era stato che, anche in quel caso, era stato permesso solo un uso industriale o agricolo, e il problema dell’approvvigionamento idrico aveva continuato ad aggravarsi. Nel 2004, solo il 26% approvava il riutilizzo delle acque.
Pfas
Diversi progetti per il riutilizzo dell’acqua riciclata sono stati bloccati per l’ostilità e i timori della cittadinanza
Poi la svolta, basata su un’adeguata campagna informativa: nel 2012 la percentuale di cittadini favorevoli era salita al 72% e l’anno successivo la città ha approvato il Pure Water San Diego, un programma grazie al quale gli impianti di depurazione e riciclo dovrebbero produrre 114 mila metri cubi di acqua al giorno entro il 2023, e fornire un terzo dell’acqua necessaria alla città entro il 2035. Il successo è stato possibile grazie al continuo coinvolgimento dei cittadini, dell’amministrazione locale e nazionale, delle aziende coinvolte, di medici e scienziati ambientali, di leader religiosi e, non ultimo, dei media.
Lo stesso è accaduto durante la realizzazione di tre progetti analoghi. Il primo è il caso di Windhoek, in Namibia, città che sorge in una zona desertica, dove i lavori del Goreangab Water Reclamation Plant sono iniziati addirittura nel 1968: oggi l’impianto fornisce alla città il 24% dell’acqua potabile (21 mila metri cubi al giorno), quota che è salita al 30% nel biennio 2014-2016, flagellato da una tremenda siccità durante la quale le fonti normali avevano potuto fornire solo il 10% dell’acqua potabile.
Il secondo è quello della Contea di Orange, in California, nella quale dal 2008 è operativo l’Orange County Groundwater Replenishment System, ovvero il sistema di purificazione delle acque più grande del mondo, che produce ogni giorno 379 mila metri cubi d’acqua. Infine c’è Singapore, che ha lavorato per molti anni al suo NEWater prima di lanciarlo, nel 2003. Oggi il sistema fornisce addirittura il 40% di tutta l’acqua necessaria alla città, potabile e non, e dovrebbe salire al 55% nel 2060.
Va detto – ricordano Tortajada e von Rensburg – che i timori sulla sicurezza delle acque non sono del tutto infondati, e che è necessario quindi lavorare con particolare scrupolo su di esso. Uno dei casi più famosi è quello di Flint, in Michigan, che nel 2014 dovette fare i conti con acqua pesantemente contaminata con il piombo, e casi analoghi si sono avuti negli ultimi mesi in alcune cittadine canadesi. Nel 2019, invece, in alcune città della California l’acqua è risultata contaminata da Pfas. Anche per questo bisognerà mettere a punto sistemi di controllo sempre più efficaci e sensibili per le possibili contaminazioni batteriologiche o virali (in crescita a causa del riscaldamenti globale), ma anche chimiche, poiché è in costante aumento il numero e la varietà delle sostanze che vengono scaricate in acqua (si pensi, per esempio, a detersivi, cosmetici e farmaci).
Ma le esperienze dei paesi più avanzati e attenti dimostrano che fornire acqua riciclata del tutto sicura è possibile, e conveniente per tutti. E presto potrebbe essere necessario.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

Un miliardo di ostriche per New York: ricreare un ecosistema scomparso contro il cambiamento climatico

















I ragazzi della generazione Greta di New York stanno prendendo parte a un grande progetto per recuperare le acque che circondano la città, con lo scopo di ripristinare gli ecosistemi, vivere in prima persona la biologia e dare vita a un circolo virtuoso che coinvolge anche molti ristoranti: vogliono arrivare a produrre un miliardo di ostriche entro il 2035. Del programma di One Billion Oysters parla il sito Civil Eats, che riferisce come siano ormai decine le scuole coinvolte, in numerosi e diversificati sottoprogetti.
La storia ha inizio nel 2012, quando lo spaventoso uragano Sally, spingendosi in zone fino a quel momento non interessate da fenomeni così estremi, colpisce la città di New York, compromettendo le acquacolture e distruggendo molte spiagge della zona (per esempio quelle di Coney Island e di Staten Island), e facendo emergere una vulnerabilità negli approvvigionamenti di cibo fino a quel momento mai sospettata, visto che gli allagamenti di alcuni dei grandi hub alimentari lasciano per giorni la città senza rifornimenti. Da quel momento si inizia a pensare a come recuperare queste ampie fasce costiere.
L’idea è quella di tornare al passato, visto che nel 1609, quando Henry Hudson per primo intravide il fiume che avrebbe preso il suo nome, si trovò a navigare su una barriera di ostriche estesa per ben 90 mila ettari, che diede nutrimento a numerose generazioni di coloni venuti dopo di lui. All’inizio del Novecento, tuttavia, la situazione era cambiata radicalmente, sia a causa dell’inquinamento crescente, sia per il dragaggio dei fondali, e si giunse al divieto di coltivare molluschi a fini alimentari. Solo nel 1972 fu varata una legge (il Clean Water Act appunto) volta a migliorare la qualità delle acque diventate tossiche e prive di vita.
Oggi si pensa di tornare a quelle barriere, perché le ostriche, oltre a essere dotate di un elevato potere nutrizionale e a non richiedere nutrimento da parte degli uomini, filtrando ognuna fino a 190 litri di acqua al giorno, riescono a esercitare un potente effetto depurante sui nitrati, che favoriscono le fioriture algali alla base delle “zone morte”, e molto altro come metalli, tossine e batteri, come accade nel Coney Island Creek, oggi inquinato quanto il New York Harbor cinquanta anni fa.  In più costituiscono un’efficace barriera anti-erosione e aiutano a ricostituire un ecosistema completo, perché attirano molte altre specie marine, che vi trovano riparo. Il circuito prevede che i ristoranti della zona si impegnino a tenere le conchiglie delle ostriche che comprano da tutti gli Stati Uniti e a donarle, in modo che possano servire per allevare le larve prima del trasferimento in mare. Oltre a tutto questo, i ragazzi coinvolti in prima persona imparano a conoscere il mare e ad averne cura, e stanno mostrando grande entusiasmo per il lavoro sul campo.
Finora, in base all’ultimo rapporto sono state messe a dimora 28 milioni di ostriche, e il numero cresce di continuo: l’obiettivo del miliardo potrebbe essere raggiunto prima del previsto.
Fonte immagini: One Billion Oysters
fonte: www.ilfattoalimentare.it

L’inaspettato compito dei batteri nella depurazione biologica



























Cosa vi frulla per la testa quando sentite la parola “microrganismi”?
Quali sono le emozioni che evoca questo vocabolo? Sensazione di sporco e
terrore delle più disparate patologie, non è vero? E se invece fossero
proprio i microrganismi a favorire alcune opere di decontaminazione delle nostre acque? È proprio questo quello che succede nel processo della depurazione biologica.  



L’acqua che viene utilizzata per attività civili, agricole o
industriali, e che quindi ha mutato la propria qualità diventando
inidonea per il consumo umano (regolamentata dal Decreto Legislativo 2
febbraio 2001, n. 31), viene chiamata “refluo” e deve necessariamente
subire una serie di processi atti a poterne permettere il
riutilizzo.                                




      Trattamenti di depurazione

Possiamo suddividere i trattamenti che si susseguono in quella che viene
chiamata “linea acqua” in: preliminari, primari, secondari e terziari. 


        Trattamenti preliminari

I trattamenti preliminari hanno il compito di eliminare i rifiuti più
grossolani che potrebbero arrecare danno all’impianto di depurazione.


        Trattamenti primari

I trattamenti primari sono caratterizzati dalla sedimentazione e servono
per rimuovere i solidi sospesi (attraverso l’utilizzo di una vasca a
fondo conico).


        Trattamenti secondari

I trattamenti secondari hanno lo scopo di degradare la sostanza organica.


        Trattamenti terziari

I trattamenti terziari servono principalmente a ridurre la presenza di
nitrati e fosfati  che potrebbero causare danni ad alcuni ecosistemi
(quale per esempio quello marino) provocando il fenomeno che viene
chiamato
“eutrofizzazione”.                                                     


      Il ruolo dei microrganismi della depurazione biologica

Dunque quand’è che agiscono questi indispensabili
microrganismi?Soprattutto nei trattamenti secondari, laddove, in
particolare i batteri, come suddetto, convertono le sostanze inquinanti
in una serie di composti non dannosi.

Naturalmente i batteri che intervengono  si differenziano in base alle
condizioni ambientali che si presentano. I generi più abbondanti sono
sicuramente Flavobacterium, Bacillus, Pseudomonas, Nitrosomonas e
Nitrobacter. In questa fase le sostanze organiche complesse vengono
convertite in sostanze inorganiche più semplici, come: CO2, H2O, NH4+,
NO2– NO3–. Questi processi avvengono in ampie vasche in cui è favorita
l’ossigenazione (necessaria per i batteri aerobi) ma viene limitato il
mescolamento che invece sfavorirebbe i sedimentanti formatisi.


      Trattamento a “fanghi attivi”

È affascinante il fatto che già i ricercatori del primo ‘900, tra cui
Karl Imhoff, notarono l’importanza dei microrganismi nella depurazione
delle acque, ideando quello che viene ricordato come trattamento a
“fanghi attivi”, frutto dell’adattamento e della selezione di specie
batteriche appropriate alla trasformazione del liquame.

Anche nei trattamenti terziari, intervengono i batteri. Nella
denitrificazione, i batteri eterotrofi facoltativi come Pseudomonas
denitrificans, Paracoccus denitri ficans, Thiobacillus denitrifcans
trasformano i nitrati NO3 in azoto molecolare N2. Nella defosfatazione
invece, i batteri eterotrofi fosfo-accumulanti come Acinetobacter spp.
tendono naturalmente ad accumulare fosforo sotto forma di polifosfati.

È dunque bene accostare sempre la conoscenza dei microrganismi patogeni
e dannosi per lo sviluppo in campo medico, biologico e diagnostico alla
consapevolezza della loro straordinaria efficacia nei più svariati ambiti.


        Fonti

  * https://www.isprambiente.gov.it <https://www.isprambiente.gov.it/>
  * https://www.arpacampania.it <https://www.arpacampania.it/>
  * https://guardiacivica.it/sito/documenti/acquereflue.pdf
  * https://www.ruwa.it <https://www.ruwa.it/>
  * https://www.stacque.com <https://www.stacque.com/>
  * https://www.camera.it <https://www.camera.it/>



fonte: https://www.microbiologiaitalia.it

Bozza decreto fanghi, più sostanze tossiche nei terreni agricoli?

La bozza del decreto fanghi dello scorso giugno desta forti preoccupazioni da parte di European Consumers e dell'Associazione Medici per l'Ambiente ISDE Italia. Questo nuovo decreto mira, secondo noi ma anche di fatto, a rendere più agevole lo spandimento dei fanghi di depurazione a prescindere dalla presenza o meno in essi di sostanze tossiche”.


















Acque reflue urbane. I fanghi prodotti attraverso il loro processo di depurazione sono da tempo utilizzati come fertilizzanti in agricoltura, forti del loro contenuto di sostanze organiche. Il riutilizzo agronomico dei fanghi costituisce infatti, da un lato, una soluzione al problema del loro smaltimento. Tuttavia, a causa della possibile presenza di composti organici nocivi e metalli pesanti, i fanghi di depurazione sono a tutti gli effetti dei rifiuti e, in quanto tali, le loro attività di deposito, trattamento e trasporto devono essere regolamentate. In particolare -pena la sicurezza agroalimentare- la garanzia della qualità dei fanghi deve essere costantemente assicurata da controlli e analisi.
Eppure, secondo quanto denunciato in una nota congiunta da parte di European Consumers e dell'Associazione Medici per l'Ambiente ISDE Italia, la bozza del decreto fanghi tuttora in esame non garantisce la sicurezza auspicata. La bozza del decreto, attualmente in discussione presso il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare e intitolato “Disciplina della gestione dei fanghi di depurazione delle acque reflue e attuazione della direttiva 86/278/CEE concernente la protezione dell'ambiente, in particolare del suolo, nell'utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura”, è stata presentata il 28 Giugno. Riguarda la revisione sulla Normativa sui Fanghi di depurazione per uso agricolo, inserita surrettiziamente la prima volta nel “Decreto Genova” del 2018.


“Questo nuovo decreto mira, secondo noi ma anche di fatto, a rendere più agevole lo spandimento dei fanghi di depurazione a prescindere dalla presenza o meno in essi di sostanze tossiche” si legge nel comunicato. “Nonostante i nostri appelli e richieste di chiarimenti, le Autorità Competenti non sono state in grado di spiegare perché i limiti non dovrebbero rispettare il decreto legislativo 152/2006 e cioè la soglia più bassa. I reflui urbani che finiscono nei depuratori non contengono solo idrocarburi di origine animale o vegetale, ma anche 10 oli e idrocarburi minerali. Appare giusto pretendere che in questi, attraverso opportuni processi di selezione, fermentazione e compostaggio, gli idrocarburi siano al di sotto dei più bassi limiti identificati come sicuri per la salute umana e ambientale. Per rendere accettabili i livelli non si deve sollevare il limite, ma prevenire la dispersione a monte”.
In particolare, le maggiori preoccupazioni riguardano:
  • la declassificazione dei fanghi, compresi quelli industriali, dall’originaria categoria di “rifiuto speciale”, con una conseguente eccessiva semplificazione nella gestione;
  • limiti inadeguati e riguardanti anche nuovi composti e sostanze potenzialmente pericolose come, ad esempio, il mercurio; il recepimento di una direttiva già recepita e senza delega al Governo;
  • assenza di sanzioni riguardanti alcuni casi e rischi;
  • la profilazione di possibili deroghe da parte delle regioni e, di contro, l'obbligo imposto agli enti locali ad accettare sul proprio territorio lo spandimento.
Secondo i due enti, mancano alcune fondamentali precauzioni necessarie a gestire in modo adeguato la raccolta, il trattamento e la distribuzione dei reflui urbani (sottovasche ai serbatoi non idrici, controtubi agli impianti che veicolano sostanze pericolose, incentivi per trattamenti sostenibili, per citarne alcune).
Per queste e altre ragioni, il comunicato (qui pubblicato in versione integrale) conclude con parole a dir poco sconfortanti: “Sono necessarie, quindi, significative correzioni del Decreto in oggetto per evitare la diffusione di POPs e altre sostanze nocive nei terreni agricoli così come è necessario agire per la definizione di limiti guida nazionali per individuare e monitorare l’inquinamento dei suoli agricoli, in particolare, in coincidenza con lo spandimento di fanghi. Si considera quindi incoerente e pericolosa dal punto di vista ambientale l’intera impalcatura di tale normativa che, invece di andare verso produzioni sempre più sicure, favorisce di fatto la contaminazione ambientale”.

fonte: https://www.nonsoloambiente.it

Quel pasticcio dei fanghi in agricoltura, la vicenda si riapre

Dalla Regione Marche una proposta di legge per abrogare l’art. 41 del “Decreto Genova”, che di fatto ha dato libertà di contaminare i suoli agricoli.
















Come certo molti ricorderanno l’art 41 (1) sulla gestione dei fanghi di depurazione inserito nel “Decreto Genova”, nell’ottobre scorso, ha suscitato notevoli critiche e preoccupazioni, condivise anche da ISDE con un comunicato ufficiale (2). La vicenda è complessa ma fortunatamente, grazie a una recentissima delibera della Regione Marche, il caso si è riaperto e ora sta anche alla sensibilità della società civile e di chi ha a cuore la salute pubblica operare affinchè il problema venga finalmente affrontato in modo organico e non, come purtroppo è accaduto con l’art. 41, in modo frettoloso e “pasticciato”.
FANGHI IN AGRICOLTURA: DI COSA PARLIAMO?
Prima di entrare nel merito di quanto deliberato dalla Regione Marche, vale la pena capire di cosa stiamo parlando e ricostruire l’intera vicenda nel dettaglio. La depurazione dei reflui civili (e non solo) è un problema più che mai attuale e niente affatto risolto, che ha causato già procedure di infrazione contro il nostro Paese (3).
Il problema è particolarmente sentito anche in Toscana, visto che proprio nella settimana in corso si prevede lo sversamento diretto di liquami nel torrente Brana – cosa che suscita ovviamente grande preoccupazione in associazioni e cittadini (4) – per lavori al locale depuratore che è risultato gravemente inefficiente e inadeguato.
L’utilizzo di fanghi in agricoltura, secondo il Dlgs 27 gennaio 1992, n. 99 (5), è consentito se: “... non contengono sostanze tossiche e nocive e/o persistenti e/o bioaccumulabili in concentrazioni dannose per il terreno, per le colture, per gli animali, per l’uomo e per l’ambiente in generale”, ma con le norme introdotte con l’art. 41 si è data libertà di contaminare ulteriormente i suoli agricoli – e quindi la catena alimentare – in modo forse irreversibile.
L’Allegato 1 B del Dlgs del 1992 stabiliva caratteristiche agronomiche e limiti solo per alcuni inquinanti, lasciando libertà alle Regioni di deliberare autonomamente. La Regione Lombardia, ad esempio, aveva posto un limite per gli idrocarburi a 10.000 mg/kg di sostanza secca (ss), limite giudicato troppo alto dalla sentenza 1782 del 20 luglio 2018 del TAR della Lombardia che, accogliendo il ricorso di numerosi Comuni, di fatto bloccava gli sversamenti.
TAR e Cassazione concordemente stabilivano infatti che i limiti da rispettare nei fanghi, se non indicati nella normativa specifica nazionale, erano quelli indicati nei suoli a uso residenziale, limiti che se superati fanno automaticamente scattare le procedure per la bonifica. Limiti che i depuratori purtroppo non sono in grado di assicurare e pertanto, al fine di superare lo stallo creatosi, proprio con questa motivazione fu giustificata, dall’attuale Governo, la decretazione d’urgenza.
Tuttavia così facendo per alcuni contaminanti, specie se persistenti e bioaccumulabili, nel giro di pochi anni i suoli agricoli potrebbero diventare talmente saturi da essere degni di bonifica! Per Cromo totale, Diossine, PCB, Toluene i limiti indicati dall’art 41 sono superiori a quelli indicati per la bonifica dei suoli per uso residenziale (a cui la giurisprudenza assimila i suoli agricoli), addirittura per il Toluene il limite è 100 mg/kg ss, quando per i suoli uso residenziale è 0,5 mg/kg e per quelli industriali 50 mg/kg. Per Cromo VI, Berillio, Selenio e Arsenico i limiti sono gli stessi delle bonifiche, ma per l’Arsenico i 20 mg/kg ss sono il doppio di quanto stabilito dalla normativa della Regione Lombardia.
Ricordo che Arsenico, Berillio, Cromo VI, PCB sono cancerogeni a livello umano, ma a parte l’azione cancerogena, a livelli estremamente bassi agiscono come interferenti endocrini e sono in grado di alterare l’equilibrio ormonale. Per quanto riguarda gli idrocarburi, nell’art 41 il limite è di 1000 mg/kg su “tal quale” e non su “sostanza secca”, ciò significa di fatto non porre alcun limite perché se i fanghi hanno elevate percentuali di acqua si potranno superare anche i 10.000 mg/kg ss del Decreto della Regione Lombardia bocciato dal TAR.
Il contenuto in idrocarburi dei fanghi industriali (non classificati “di depurazione”) è di 500 mg/kg ss e, come fa notare il TAR, si arriva al paradosso che sui suoli agricoli sarebbe consentito lo sversamento di fanghi non utilizzabili in recuperi ambientali se non dopo adeguato abbattimento degli inquinanti. Fuori luogo apparvero quindi le rassicurazioni fornite dal ministro Costa (6) perché purtroppo i fanghi non derivano esclusivamente da depurazione di scarichi civili o produzioni alimentari e basta controllare i codici CER dei reflui ammessi agli impianti di depurazione per averne conferma.
Mancano inoltre nell’art. 41 indicazioni precise per i controlli da eseguire essendone indicato solo uno ogni 12 mesi per le diossine. Infine – e cosa certo non meno grave – i limiti individuati nell’art 41 non risultano supportati da studi di impatto ambientale, né da indagini sulla biodiversità, sulla percolazione nelle falde, sulla tipologia e qualità dei suoli, sulla presenza già di un “fondo” che per moltissimi inquinanti non è certo pari a zero, sul trasferimento dei contaminanti nella catena alimentare e quindi in definitiva sui rischi per la salute umana.
COSA HA DELIBERATO LA REGIONE MARCHE
A fronte quindi di questa situazione di vero allarme l’assemblea legislativa delle Marche – avvalendosi di quanto previsto dall’articolo 121 della Costituzione Italiana e su richiesta del consigliere di minoranza Sandro Bisonni – ha approvato il 28 maggio scorso con la deliberazione n°91 (7) la proposta di legge alle Camere di abrogazione dell’art. 41 del Decreto Genova e di modifiche al decreto legislativo 27 gennaio 1992 prevedendo una più estesa regolamentazione degli inquinanti previsti nei suoli ad uso residenziale e, contestualmente, l’obbligo di osservanza di tali limiti anche per i fanghi a uso agricolo. Questo permetterebbe quindi il rispetto delle sentenze del TAR e della Cassazione perché è impensabile che i suoli agricoli possano venire contaminati a tal punto da necessitare poi di bonifiche!
CONCLUSIONI
A questo punto Camera e Senato sono obbligate a riprendere in mano la materia e a discutere della proposta di legge della Regione Marche, ma perché tutto non vada “alle calende greche” è necessario che anche nella società civile si riapra la discussione su un argomento di cruciale importanza per la salute pubblica e si pretendano tempi rapidi per il riesame della normativa e l’adozione di limiti per gli inquinanti nei fanghi certamente più cautelativi per la salute umana di quanto attualmente in essere.
Come abbiamo scritto nel nostro comunicato ISDE (2) i fanghi possono essere una grande risorsa per i suoli agricoli che sempre più sono poveri di humus, ma solo se non sono contaminati da metalli pesanti e altre sostanze tossiche e pericolose che passano inesorabilmente nella catena alimentare, mettendo a rischio la salute di tutti. Men che meno i fanghi essiccati vanno inceneriti, come qualcuno ventila, perché l’inquinamento si trasferirebbe nell’aria, peggiorandone ulteriormente la qualità, per ricadere poi comunque sui suoli.
Tutto questo si può fare imponendo la separazione dei flussi all’origine perché è impensabile che reflui civili e industriali arrivino di fatto agli stessi impianti e pretendendo che i “depuratori” finalmente ottemperino a ciò che il loro nome indica.
    1. http://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/D18109a.pdf?_1540460564603
    2. https://www.isde.it/decreto-genova-e-fanghi-di-depurazione-i-limiti-previsti-non-vanno-nella-direzione-giusta-per-la-salute-e-per-lambiente/
3. https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-11-07/italia-fuori-legge-mancanza-depuratori-arrivo-due-   nuove-procedure-ue-infrazione-182728.shtml?uuid=AECrvwcG
4. http://www.lavocedipistoia.it/a54536-lavori-al-depuratore-centrale-emessa-un-ordinanza-di-divieto-di-attingimento-di-acqua-e-di-pesca-nella-brana.html
5. https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1992/02/15/092G0139/sg
6. https://www.facebook.com/SergioCostaMinistroAmbiente/posts/483780278799023?__tn__=K-R
7. http://www.consiglio.marche.it/banche_dati_e_documentazione/iter_degli_atti/pdd/pdf/d_am26_10.pdf?fbclid=IwAR0TeXj5IucSZWBEy1-VJX9jSnqefTC5aBvkdOyW4f6hFOANwQPnq3IDgY0
fonte: https://www.toscanachiantiambiente.it