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Le pillole di sostenibilità di ARPAT: prendersi cura dei propri abiti in modo sostenibile

Lavare i nostri indumenti, soprattutto in lavatrice, produce diversi impatti sull'ambiente che dobbiamo conoscere e limitare per ridurre il più possibile la nostra impronta sul Pianeta

















Una delle principali questioni ambientali da tenere in considerazione, quando laviamo gli indumenti in lavatrice, è quella dell’inquinamento delle acque, di cui sono responsabili non solo gli scarichi industriali ma anche quelli domestici.

Importanti studi di settore hanno evidenziato l’alto potere inquinante di molti prodotti che utilizziamo quotidianamente in casa, compresi alcuni detersivi usati per i lavaggi in lavatrice, le sostanze utilizzate per renderli efficaci, spesso, sono di origine chimica e di natura tossica ed il loro potere inquinante è amplificato dal fatto che, una volta azionato il programma di risciacquo della lavatrice, lo scarico finisce nelle acque reflue urbane e, se non trattate correttamente, anche nei fiumi e mari.

A questo si aggiunge il problema dell’inquinamento da plastiche, dovuto anche alle micro-fibre tessili di tipo sintetico, che, secondo diversi studi, incidono, sul totale, per il 35%. In particolare, uno studio italiano, "The contribution of washing processes of synthetic clothes to microplastic pollution", condotto dal CNR e pubblicato nel 2019, mostra come, durante un normale lavaggio in lavatrice, vengano rilasciate da 124 a 308 mg per kg di microfibre tessili. Questo range è influenzato dal tipo di indumento lavato, in particolare dalla natura del filato e dalla sua torsione, come dimostrano anche diversi altri studi.

Secondo la ricerca “Evaluation of microplastic release caused by textile washing processes of synthetic fabrics”, pubblicata su Environmental Pollution (2017), l'acrilico è uno dei tessuti che crea i maggiori problemi, addirittura cinque volte in più rispetto al tessuto misto cotone-poliestere ed una lavatrice con un carico di 5 kg di materiale in poliestere produce tra i 6 e i 17,7 milioni di microfibre.

Un ulteriore studio effettuato dall'Università di Plymouth, pubblicato nel 2016, ha confrontato i diversi tessuti e le variabili durante il lavaggio, evidenziando come su un carico da 6 kg, i capi in tessuti misti, cotone e poliestere, rilascino quasi 138mila fibre, contro le oltre 496mila del poliestere e le quasi 729mila dell’acrilico.

Nel 2015, una ricerca realizzata da Life-mermaid metteva in luce come un grammo di tessuto rilasciasse, in un solo lavaggio, più di 3.000 microfibre per grammo. Una felpa in pile dal peso di 680 grammi, ad esempio, può perdere circa 1 milione di fibre a lavaggio mentre un paio di calze di nylon quasi 136.000.

Per limitare quest' impatto ambientale, possiamo adottare alcuni semplici accorgimenti:
-
scegliere capi di abbigliamento in tessuti che riducano il numero di filamenti sintetici rilasciati, meglio optare per le fibre naturali (cotone, lana, seta, lino) che non dovrebbe mancare in un "armadio sostenibile" 
-utilizzare i vestiti più a lungo, infatti le microfibre rilasciate sono molto alte soprattutto nei primi lavaggi
-caricare la lavatrice in modo da garantire un rapporto tra tessuto e acqua, in grado di diminuire il rilascio di micro-fibre
-non avviare la lavatrice quando è troppo vuota, l’ideale sarebbe 3/4 di carico
-scegliere, ogni volta che sia possibile, cicli di lavaggio brevi, da 15 minuti, a 30°C, in grado di ridurre non solo la quantità di microfibre rilasciate dai tessuti ma anche lo spreco energetico e idrico.

Chiediamoci sempre se sia possibile adottare sistemi alternativi al bucato in lavatrice.

Tra questi, c’è l’uso del vapore, possiamo pensare di dotarci di una striratrice a vapore di tipo casalingo oppure approfittare della doccia quotidiana. Quando facciamo la doccia, infatti, si produce molto vapore che può essere utile per rinfrescare i nostri capi.

Spazzolare gli abiti è un’altra ottima alternativa al lavaggio in lavatrice, soprattutto nel caso di tessuti di lana, la spazzola elimina fango ed altre sostanze dense che non riescono ad inserirsi nella trama fitta di certi tessuti.

Ci sono poi “alternative più particolari”, come congelare i capi di abbigliamento; lasciandoli nel congelatore per tutta la notte, il freddo uccide i batteri, causa dei cattivi odori.

Talvolta, invece di un intero ciclo in lavatrice, è sufficiente agire, con un po' di acqua e sapone, in modo mirato sulla macchia.

Lavare a mano, soprattutto utilizzando acqua di recupero, ad esempio quella della vasca dopo il bagno, può prospettarsi una buona alternativa all'uso della lavatrice, soprattutto per i capi delicati, come la biancheria intima. In questo modo saranno meno soggetti ad usura, durando più a lungo.

Infine, bisogna fare attenzione anche agli elettrodomestici che ci aiutano nelle attività quotidiane in casa, seppure ormai indispensabili, dobbiamo usarli con criterio: non utilizziamo l'asciugatrice nel periodo estivo e in tutte quelle occasioni in cui le condizioni meteo consentono di stendere il bucato. Lo stesso possiamo dire del ferro da stiro, che non è necessario passare proprio su tutti gli indumenti.

Gli elettrodomestici di ultima generazione sono progettati per essere più "attenti all'ambiente", infatti, un gruppo di ricerca, confrontando diverse lavatrici "ultimo modello", ha verificato che queste garantiscono una riduzione nel rilascio di fibre da tessuti in pile e poliestere. Se dobbiamo acquistarne una nuova, dunque, optiamo, se possibile, per una di ultima generazione, con classe energetica efficiente, meglio se dotata di sistemi di monitoraggio del consumo energetico, idrico e di sistemi di analisi del carico.

La pillola di sostenibilità su come prendersi cura dei propri abiti

fonte: www.arpat.toscana.it


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Controllo delle sostanze pericolose nelle acque

Avviata la collaborazione tra Arpa FVG e Arpa Umbria













Il Laboratorio di Arpa FVG ha cominciato l’attività analitica sui campioni di acque superficiali e sotterranee, campionati da Arpa Umbria nell’ambito del proprio piano di monitoraggio ambientale.

Le analisi verranno effettuate con cadenza mensile, secondo quanto previsto dallo specifico piano di campionamento di Arpa Umbria, e saranno eseguite a partire dal mese di maggio del 2021 fino ad aprile del 2022, in base a quanto stabilito dall’apposita convenzione stipulata tra le due Agenzie Regionali per la Protezione dell’Ambiente.

L’attività viene eseguita ai sensi della Direttiva 2000/60/CE, come recepita dai Decreti legislativi 152/2006 e 172/2015, e riguarda più specificatamente il monitoraggio dei Difenileteri bromurati, del Di(2-etilesil)ftalato (DEHP), dei composti del Tributilstagno e dell’Esabromociclododecano (HBCDD).

Il controllo di questi inquinanti emergenti richiede elevate prestazioni analitiche, anche perché la legislazione impone limiti di concentrazione molto bassi.

Per quanto riguarda il Tributilstagno, per esempio, lo Standard di Qualità Ambientale (SQA) è di 0,0002 µg/L, cioè la sua concentrazione non può superare due decimi di miliardesimo di grammo per litro di acqua.

Il metodo analitico utilizzato dal Laboratorio di Arpa FVG per la determinazione di questo inquinante emergente è accreditato ai sensi della norma UNI CEI EN ISO/IEC 17025, e garantisce un limite di quantificazione dieci volte inferiore al SQA.

La convenzione tra Arpa FVG e Arpa Umbria è stata effettuata nello spirito dell’articolo 10 della legge 132/2016, istituente la rete nazionale di laboratori accreditati nell’ambito del SNPA (Sistema Nazionale per la protezione dell’Ambiente), creata anche allo scopo di assicurare economie nelle attività di laboratorio che presentano elevata complessità e specializzazione.

Con l’avvio di questa attività il Laboratorio di Arpa FVG conferma la propria disponibilità a mettere a disposizione delle strutture afferenti al SNPA la sua capacità analitica, dimostrando ancora una volta la sua eccellenza, in particolare nell’ambito del monitoraggio degli inquinanti emergenti, avendo accumulato nel corso degli anni una notevole esperienza in questo settore.

fonte: www.snpambiente.it


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Pfas Veneto: il processo ambientale più importante d’Italia.

 



Soprattutto se entrerà in sinergia con il processo gemello di Alessandria contro di Solvay, che sta per partire. A Vicenza il Gup ha rinviato a giudizio 14 manager di diversa nazionalità dell’azienda Miteni e delle multinazionali Mitsubishi Corporation e International Chemical Investors Group, oltre che la stessa Miteni di Trissino. L’accusa è di aver avvelenato con i Pfas (Pfoa ,GenX e C6O4) per decenni, senza soluzione di continuità, le acque sotterranee e di falda di oltre 300 mila abitanti delle province di Padova, Vicenza e Verona, provocando tumori, malformazioni, aborti e malattie del sistema cognitivo, ecc. La prima udienza in corte di assise il primo luglio. Le contestate sono centrate su reati dolosi e non colposi: avvelenamento delle acque, disastro doloso, inquinamento ambientale e bancarotta fraudolenta. Le parti civili costituite sono oltre duecento. Il processo continua una lotta avviata otto anni fa e animata in particolare da “Mamme No Pfas” fin quando nel 2017 è scattata l’emergenza sanitaria, della quale sono state investite le istituzioni, dalla Regione al Governo. Fondamentale saranno le ripercussioni sulla enorme bonifica, con analogia con la vicenda Solvay di Spinetta Marengo.

Anche gli avvocati di Miteni avranno l’impudenza di sostenere che non vi sono certezze nel panorama scientifico sugli effetti nocivi delle sostanze perfluoroalchiliche per l’uomo, con la conseguenza di mancanza di volontarietà da parte degli imputati.

Di seguito, i più recenti “post” sul Sito della “Rete Ambientalista Movimenti di lotta per la salute , l’ambiente, la pace e la non violenza” gestito dal “Movimento di lotta per la salute Maccacaro”.

Vietare una volta per tutte i Pfas, e farlo presto. La posizione Cinquestelle in Parlamento.

A Spinetta Marengo la polvere sui mobili delle case contiene Pfas e altre sostanze tossiche.

La Regione Veneto e la Provincia di Alessandria nascondono alle popolazioni i dati Pfas sensibili alla loro salute. Gli omissis nelle autorizzazioni e gli alimenti avvelenati.

I biberon al bisfenolo. Uno dei sei esposti depositati presso la Procura della Repubblica di Alessandria denuncia: alla Solvay di Spinetta Marengo nel cocktail con i Pfas (PFOA, C6O4, ADV) tra gli interferenti endocrini c’è anche il Bisfenolo.

L’allarme “Pfas e Bisfenolo riducono qualità dello sperma, volume testicoli e …

La chimica che inquina l’acqua


fonte: www.rete-ambientalista.it


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Nanotecnologie green per la depurazione delle acque, senza bisogno di impianti

 

La nuova frontiera per il trattamento delle acque inquinate è rappresentata dall’utilizzo di nanomateriali che si ottengono da scarti o rifiuti agricoli e che non costituiscono un pericolo per gli ecosistemi naturali. Lo dimostra il progetto “Nanobond, nanomateriali per la bonifica associata a dewatering di matrici ambientali”, cofinanziato dal Fondo europeo per lo sviluppo regionale POR FESR 2014-2020, di cui è coordinatrice scientifica la professoressa Ilaria Corsi, ecologa del dipartimento di Scienze fisiche, della Terra e dell’ambiente dell’Università di Siena.

Al progetto, di cui è capofila l’azienda Acque industriali srl, hanno partecipato come partner, Bartoli spa azienda cartaria, Biochemie LAB srl, Ergo srl, Labromare srl, il consorzio Interuniversitario Nazionale per la Scienza e Tecnologia dei Materiali con le Università di Siena, Pisa, Torino e il Politecnico di Milano, oltre all’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale (ISPRA) e l’Agenzia per lo Sviluppo Empolese Valdelsa (ASEV).

La nanoremediation diventa ecocompatibile

Il progetto, spiegano dall’ateneo senese, associa alle membrane geotessili drenanti, già ampiamente utilizzate per la rimozione della fase acquosa da dragaggi soggetti a bonifica, l’utilizzo di “nanotecnologie”, sostenibili ed ecocompatibili, che agiscono rimuovendo inquinanti nocivi dalle acque e dai sedimenti. Quest’ultima pratica, conosciuta anche con il nome di nanoremediation, avviene attraverso l’utilizzo di materiali nanostrutturati chiamati nanospugne e appositamente creati nell’ambito della ricerca del progetto attraverso il concetto dell’eco-design, ovvero la verifica dal punto di vista ecotossicologico della loro sicurezza per applicazioni ambientali come la bonifica dei dragaggi.

Le operazioni del dragaggio idraulico avvengono quindi sia con un filtraggio meccanico, tramite i geotessili, sia con l’utilizzo associato delle nanospugne che permettono la decontaminazione delle acque in uscita e anche dei sedimenti raccolti e stoccati dai geotessili. Materiali che saranno poi caratterizzati ai fini del loro smaltimento o possibile riutilizzo a seconda dei valori analitici.

Depurazione senza bisogno di impianto

I nanomateriali garantiscono così un idoneo trattamento delle acque senza necessità di un impianto di depurazione, comportando un notevole risparmio soprattutto su bacini d’acqua molto grandi: canali di bonifica o aree portuali, come ad esempio quella del porto di Livorno o della darsena dei Navicelli a Pisa dove il progetto è stato testato.

“Il progetto Nanobond – spiega la professoressa Ilaria Corsi – ha aggiunto un tassello in più in quanto i nanomateriali che abbiamo utilizzato per creare le nanospugne provengono dal settore del recupero degli scarti. Per questo tra i partner c’è anche Bartoli, un’azienda cartaria. Le nanospugne sono prodotte da cellulosa di carta da macero o da prodotti di scarto organico, i tuberi, da cui abbiamo ricavato l’amido”.

Una strategia per la bonifica delle acque

La missione di Nanobond è sia quella di elaborare una strategia di bonifica delle acque inquinate, sia di farlo utilizzando dei nanomateriali che non siano nocivi per l’ambiente. “Anzi, che siano ecocompatibili – aggiunge la professoressa Corsi – Nanobond ha inoltre contribuito a colmare un vuoto legislativo nazionale ed europeo. Prima di questo progetto, proprio perché non si conoscevano gli effetti sull’ecosistema dei nanomateriali impiegati per le bonifiche, l’Unione europea non poteva coprire queste pratiche con una legislazione che le legittimasse. La ricerca sulla tecnologia di nanoremediation di Nanobond ha permesso quindi di sviluppare anche un documento di raccomandazioni che contiene le linee guida per l’utilizzo dei nanomateriali ecocompatibili per la bonifica di siti contaminati. In un certo senso abbiamo anticipato i pilastri del Green Deal europeo: zero pollution ed economia circolare”.

Il progetto Nanobond ha avuto poi una evoluzione attraverso un altro progetto di ricerca “Interreg”, portato avanti con partner di altri paesi europei e quindi la ricerca è diventata una “best practice”.

Nanobond senza brevetto alla portata di tutti

“Abbiamo deciso di non richiedere il brevetto – conclude la professoressa Corsi – in quanto si tratta di un progetto finanziato con fondi pubblici e deve essere quindi alla portata di tutti ai fini di avere delle nanotecnologie efficaci e sicure per il settore delle bonifiche ambientali”.

fonte: www.recoverweb.it


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Rapporto Ispra: gli insetticidi sono gli inquinanti più diffusi nelle acque

Presentato il "Rapporto nazionale pesticidi nelle acque". su 426 sostanze inquinanti cercate nelle acque, trovate 299. Nelle acque superficiali, superamento dei limiti per glifosate e fungicidi.

Sono stati presentati i dati del nuovo Rapporto nazionale pesticidi nelle acque dell’Ispra, disponibile sul sito dell’Istituto (www.isprambiente.gov.it).

Le indagini che hanno riguardato 4.775 punti di campionamento e 16.962 campioni; nelle acque superficiali sono stati trovati pesticidi nel 77,3% dei 1.980 punti di monitoraggio, in quelle sotterranee nel 32,2% dei 2.795 punti. Le concentrazioni misurate sono in genere frazioni di μg/L (parti per miliardo), ma gli effetti nocivi delle sostanze si possono manifestare anche a concentrazioni molto basse. Sono state cercate complessivamente 426 sostanze e ne sono state trovate 299. Gli insetticidi sono la classe di sostanze più rinvenute, a differenza del passato, quando erano gli erbicidi.
Il Rapporto è il risultato di un complesso lavoro che vede la collaborazione di tutte le componenti del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente, predisposto dall’Ispra sulla base delle informazioni trasmesse da Regioni e Province autonome, che attraverso le Agenzie regionali e provinciali per la protezione dell’ambiente effettuano le indagini sul territorio e le analisi di laboratorio.
Le informazioni su cui è costruito provengono da indagini svolte a livello regionale, che scontano importanti disomogeneità e non consentono agevolmente un confronto diretto tra diverse aree territoriali. Differenze significative, infatti, ci sono nella densità della rete di monitoraggio, nelle prestazioni dei laboratori che operano spesso con diverse capacità di analisi; il numero delle sostanze cercate, infine, varia sensibilmente da regione a regione. Occorre quindi tener conto di questi fattori e distinguere tra l’elevata qualità di indagine - che porta e numerosi rilevamenti, anche se talvolta a livelli di concentrazione molto bassi - rispetto ad una inferiore che non rileva la presenza dell’inquinante a concentrazioni anche significative con migliore capacità di analisi.
In questo contesto, alcuni livelli di contaminazione, come in passato, risultano più diffusi nella pianura padano-veneta. Questo dipende, oltre che dalle intense attività in agricoltura e dalla particolare situazione idrologica dell’area, anche dal fatto che le indagini sono generalmente più efficaci nelle regioni del nord. Va detto che in questa edizione del Rapporto sono presenti i dati di tutte le Regioni, e anche in zone dove prima non evidenziata, emerge ora una significativa presenza di pesticidi nelle acque.
Altri dati emersi: nelle acque superficiali, 415 punti di monitoraggio (21% del totale) hanno concentrazioni superiori ai limiti ambientali. Le sostanze che più spesso hanno determinato il superamento sono gli erbicidi glifosate e il suo metabolita AMPA, il metolaclor e i fungicidi dimetomorf e azossistrobina; nelle acque sotterranee, 146 punti (il 5,2% del totale) hanno concentrazioni superiori ai limiti. Le sostanze più rinvenute sopra il limite sono: gli erbicidi glifosate e AMPA, il bentazone e i metaboliti atrazina desetil desisopropil e i fungicidi triadimenol, oxadixil e metalaxil.
Le vendite di prodotti fitosanitari nel 2018 sono state pari 114.396 tonnellate; dal 2009 al 2018 si è verificata una sensibile diminuzione delle quantità messe in commercio, indice di un minore impiego delle sostanze chimiche in agricoltura, dell’adozione di tecniche di difesa fitosanitaria a minore impatto e dell’aumento dell’agricoltura biologica.
Nello stesso periodo c’è stato, apparentemente in controtendenza, un aumento della diffusione territoriale della contaminazione che interessa quasi tutte le regioni, soprattutto dovuto alla maggiore copertura ed efficacia dei monitoraggi. Nelle acque superficiali la percentuale di punti con presenza di pesticidi è aumentata di circa il 25%, in quelle sotterranee di circa il 15%.
I dati evidenziano come in passato la presenza di miscele nelle acque; con un numero medio di 4 sostanze e un massimo di 56 sostanze in un singolo campione. Si deve quindi tenere conto che l’uomo, come altri organismi, sono spesso esposti a miscele di sostanze chimiche di cui non si conosce la composizione e, quindi, non si può valutarne il rischio.

fonte: www.greencity.it

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Occorrono sforzi maggiori per ottenere un Mediterraneo più pulito

Rapporto congiunto dell'Agenzia europea e di quella Onu per l'ambiente



Il raggiungimento di un Mar Mediterraneo più pulito richiede una migliore attuazione delle politiche e dati e informazioni ambientali migliorati, secondo il rapporto congiunto dell'Agenzia europea dell'ambiente EAEA) e del Piano d'azione mediterraneo del Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (UNEP / MAP) "Verso un Mar Mediterraneo più pulito: un decennio di progressi".

Il rapporto fa il punto sui progressi compiuti e sulle sfide future nell'iniziativa dell'Unione per il Mediterraneo Horizon 2020 per un Mediterraneo più pulito (H2020).

Secondo il rapporto, gli attuali interventi sono efficaci per tenere il passo con le crescenti pressioni ambientali, ma la loro portata potrebbe non essere sufficiente per migliorare lo stato ambientale del Mediterraneo. Questo messaggio principale è coerente con i risultati del "Rapporto sullo stato dell'ambiente e dello sviluppo nel Mediterraneo" che sarà presto pubblicato da Plan Bleu, un Centro di attività regionale del sistema UNEP / MAP-Convenzione di Barcellona.



Il riciclaggio non riesce a tenere il passo con l'aumento della produzione di rifiuti in diversi paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, a causa del costo relativamente elevato rispetto allo scarico aperto.

Allo stesso modo, il rapporto mostra che l'accesso a servizi igienico-sanitari gestiti in modo sicuro sta aumentando lentamente, ma almeno 5,7 milioni di persone nelle aree urbane e 10,6 milioni di abitanti rurali non hanno ancora accesso a sistemi igienico-sanitari migliorati.

Un'altra area che necessita di attenzione è la gestione integrata dell'inquinamento, comprese ad esempio politiche efficaci di riutilizzo dell'acqua che affronterebbero la crescente domanda e la diminuzione della disponibilità di acqua.



Nonostante gli sforzi per la transizione verso approcci circolari, importanti settori economici si basano ancora su modelli di business lineari che fanno affidamento su un consumo di risorse e catene di approvvigionamento non sostenibili.

La relazione rileva inoltre la necessità di una gestione più efficace dei rifiuti pericolosi. Finanziamenti adeguati e capacità di costruzione per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti pericolosi in tutto il bacino sono sia critici che urgenti.

Una delle sfide principali è che il panorama politico complesso ed eterogeneo della regione rende difficile affrontare le sfide ambientali in modo olistico. La relazione chiede una migliore applicazione delle politiche, che richiede informazioni ambientali più solide e condivise, nonché lo sviluppo di capacità a livello locale, nazionale e regionale. Sebbene i sistemi di dati regionali siano migliorati in modo significativo, il rapporto indica che c'è stato uno scarso miglioramento nella disponibilità e nella qualità dei dati a livello nazionale.

Per approfondimenti leggi Verso un Mar Mediterraneo più pulito: un decennio di progressi

fonte: www.arpat.toscana.it


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Quali soluzioni per i rifiuti marini in Adriatico? Approfondimenti Arpa FVG a ESOF2020




Si è concluso ESOF2020, l’importante forum scientifico europeo dedicato alla ricerca scientifica e all’innovazione che si è tenuto a Trieste dal 2 al 6 settembre.

Di rifiuti marini si è parlato, venerdì 4 settembre, nel corso della tavola rotonda “The marine litter problem: sources, dispersion and impacts” proposta da Arpa FVG.

I rifiuti marini sono un problema riconducibile a un non corretto smaltimento dei beni giunti a fine vita, soprattutto quelli plastici. La questione è letteralmente esplosa negli ultimi anni diventando in breve tempo un problema ambientale emergente e di non facile soluzione. Le aree interessate sono sia quelle di costa che le ampie superfici in mare aperto, non sempre soggette alla giurisdizione di singole entità statali. I metodi d’intervento possono pertanto differire nei diversi territori rendendo ancora più complessa la ricerca di una soluzione a questa emergenza ambientale.

La questione deve essere pertanto affrontata adottando un approccio a più livelli, quello locale, per gli effetti a ridosso delle coste, e quello del confronto internazionale per definire metodologie di intervento comuni.

La tavola rotonda è stata un’occasione per avviare un confronto su questo tema con l’intera comunità scientifica alla ricerca di soluzioni adeguate in un’ottica di sostenibilità.

Alla tavola rotonda hanno partecipato qualificati relatori di Italia, Croazia e Slovenia, che hanno analizzato lo stato dei rifiuti marini nell’ambito del bacino Adriatico sotto molteplici punti di vista, biologico, chimico, ecologico, senza tralasciare la comunicazione del rischio. Ampio spazio è stato dato alla verifica e al confronto dei metodi di monitoraggio attualmente adottati in Alto Adriatico e alla modellizzazione della dispersione degli inquinanti in mare.

Nel corso dell’incontro è stata posta particolare attenzione ai rifiuti sul fondo del mare. Sui fondali marini si depositano, infatti, la maggior parte di questi rifiuti, che sono, in peso e volume, molto superiori a quelli presenti sulle spiagge o sulla superficie del mare.

Infine, sono state proposte delle soluzioni al problema dei rifiuti marini, indagando sia gli aspetti della loro produzione, sia le buone pratiche e i possibili approcci educativi.

L’organizzazione di questo qualificato incontro scientifico in ambito ESOF2020 ha rappresentato per Arpa FVG un importante momento di crescita. Da un lato la possibilità di consolidare le relazioni con enti omologhi operanti in stati contermini, dall’altro la possibilità di fungere da “antenna” su questo argomento con l’intero Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA).

Il convegno sui rifiuti marini non è stato tuttavia l’unico evento ad impegnare Arpa nel contesto delle iniziative proposte da ESOF2020. Si sono aggiunti infatti gli eventi proposti dal Laboratorio di educazione ambientale (Larea) di Arpa FVG in collaborazione con Area Marina Protetta (AMP) di Miramare, quali:
i PressTour dedicati ai giornalisti accreditati, che hanno potuto così scoprire, con l’aiuto degli esperti Arpa e dell’Area Protetta Marina di Miramare, le bellezze nascoste del Golfo di Trieste;
i laboratori “Plastiche a-mare” con attività per famiglie sul tema delle “Marine litter” e dell’impatto di plastiche e microplastiche sull’ambiente marino;
i “bluebliz”, uscite in snorkeling per scoprire le attività scientifiche di censimento e monitoraggio di specie marine.

Gli eventi proposti da Arpa FVG proseguiranno fino a fine anno nell’ambito del Science in the city festival con un ricco programma di iniziative.

fonte: https://www.snpambiente.it


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Plastica liquida nei detersivi per il bucato e le superfici



Plastica liquida, semisolida o solubile tra gli ingredienti dei detersivi per bucato, superfici e stoviglie presenti sul mercato italiano che finisce nell’ambiente e nel mare: è il risultato del nostro ultimo rapporto “Plastica liquida: l’ultimo trucco per avvelenare il nostro mare”.
La plastica liquida e le microplastiche

Abbiamo consultato le pagine web ufficiali delle principali aziende di detergenti in Italia, e fatto indagini di laboratorio per verificare la presenza di materie plastiche in forma solida inferiori ai 5 millimetri, le cosiddette microplastiche.

Interpellate, le aziende hanno confermato l’uso di plastiche come ingredienti dei detergenti e la maggior parte è in formato liquido, semisolido o solubile anziché solido.

Su 1.819 prodotti controllati sul web 427 (23% del totale) contengono almeno un ingrediente in plastica e le aziende con una percentuale maggiore di prodotti con plastica sono:
Procter & Gamble (53% con prodotti a marchio Dash, Lenor e Viakal),
Colgate–Palmolive (48% con prodotti a marchio Fabuloso, Ajax e Soflan)
Realchimica (41% con prodotti a marchio Chanteclair, Vert di Chanteclair e Quasar).

Le analisi di laboratorio, il cui scopo era verificare la presenza di particelle solide inferiori ai 5 millimetri, hanno evidenziato che dei 31 prodotti presi in esame solo in due erano presenti: Omino bianco detersivo lavatrice color + dell’azienda Bolton e Spuma di Sciampagna Bucato Classico Marsiglia dell’azienda Italsilva.

Ogni giorno insomma, attraverso l’uso di detergenti per il bucato, le superfici e le stoviglie rilasciamo materie plastiche nell’ambiente e nel mare e per gran parte di queste – le plastiche in forma liquida e semisolida e/o solubile- non conosciamo ancora gli impatti.
I divieti presenti e futuri

Dal 2018 l’Agenzia Europea per le Sostanze Chimiche (ECHA) sta lavorando a una proposta per vietare l’utilizzo di microplastiche aggiunte intenzionalmente in numerosi prodotti di uso comune tra cui cosmetici, detergenti, vernici e fertilizzanti. Se approvata, ridurrebbe il rilascio nell’ambiente di oltre 40 mila tonnellate di plastica ogni anno.

Il punto è che la proposta di regolamentazione dovrebbe interessare solo le particelle in plastica in forma solida ed escludere quelle in forma liquida, semisolida e/o solubile: in pratica le aziende hanno già trovato il modo per aggirare questa futura restrizione, rinunciando alle microplastiche solide e ricorrendo alla plastica liquida o semisolida, continuando così a fare profitti a scapito del Pianeta.

Proprio oggi abbiamo lanciato una petizione per chiedere al ministro dell’Ambiente di sostenere la proposta dell’ECHA sulle microplastiche e migliorala inserendo un divieto anche per l’uso di plastiche liquide, semisolide e/o solubili applicando concretamente il principio di precauzione.

Marchi come Coop e Unilever hanno già espresso la volontà di eliminare questi ingredienti dai loro prodotti entro il 2020: una decisione che ci conferma che queste sostanze sono 

già facilmente sostituibili.



Greenpeace expert examines Italian detergents for microplastics in a mobile laboratory at the Greenpeace warehouse in Hamburg.

fonte: https://www.greenpeace.org



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Tonnellate di microfibre negli oceani: per fermarle dobbiamo cambiare le nostre abitudini

Una nuova ricerca valuta l’impatto delle microfibre – provenienti dai lavaggi domestici – sugli ecosistemi oceanici e stila una serie di consigli per ridurre il problema

















L’8 giugno si è celebrata la Giornata mondiale degli oceani e in occasione di questa ricorrenza un nuovo studio della Northumbria University, in Inghilterra, punta i riflettori su un problema ancora poco considerato: l’inquinamento da microfibre. Secondo gli studiosi, ogni anno la sola Europa riversa negli ecosistemi marini 13.000 tonnellate di microfibre, sia naturali che sintetiche
Queste fibre, rilasciati dai tessuti durante il lavaggio, sembrano essere anche più dannose per fiumi, mari e oceani delle microplastiche bandite dai prodotti di consumo. Per valutarne a pieno l’impatto ambientale, gli scienziati in collaborazione con Procter & Gamble hanno misurato il rilascio di microfibre dai tipici cicli di lavaggio, valutando anche fattori come l’aggiunta dell’ammorbidente o l’età dei capi
L’analisi svolta dai ricercatori della Northumbria University ha rivelato come vengano persia ogni lavaggio standard e per ogni chilogrammo di tessuto, in media 114 mg di fibre.
Attraverso analisi spettroscopiche e microscopiche il team è riuscito anche a determinare i rapporti tra fibre artificiali e naturali rilasciate dai carichi di lavaggio, scoprendo che il 96% delle particelle liberate sono naturali (da cotone, lana e viscosa), mentre solo il 4% proviene da fibre sintetiche (come nylon, poliestere e acrilico). Il dato è positivo. Le prime infatti si biodegradano molto più rapidamente a differenza di quelle sintetiche o a base petrolifera, che al contrario si stabilizzano e permangono negli ambienti acquatici a lungo. 
Confrontando diverse lavatrici, il gruppo di ricerca ha scoperto che quelle di ultima generazione permettono una riduzione del 70% nel rilascio di fibre da tessuti in pile del 37% da magliette in poliestere. Ma non è solo cambiando lavatrice che si può coadiuvare la riduzione di questi inquinanti dagli ecosistemi acquatici. Altre semplici azioni possono essere d’aiuto: dall’utilizzare vestiti più vecchi in quanto le microfibre rilasciate sono molto alte nei primi otto lavaggi, al fare carichi più alti che, a causa del rapporto inferiore tra tessuto e acqua, ne diminuiscono il rilascio (senza riempire troppo la propria lavatrice: l’ideale sarebbero 3/4 di carico). 
La ricerca suggerisce come possibile miglioramento un “semplice” cambio di abitudini. Infatti se le persone usassero cicli di lavaggio da 15 minuti a 30°C la quantità di microfibre rilasciate dai tessuti si ridurrebbe del 30%, con un risparmio di questi inquinanti di circa 3.810 tonnellate. 



Come ha sottolineato l’autore principale dello studio, John R. Dean, per “trovare una soluzione definitiva all’inquinamento degli ecosistemi marini da parte delle microfibre rilasciate durante i cicli di lavaggio” saranno necessari “interventi significativi sia nei processi di produzione di tessuti che nella progettazione delle lavatrici”. Nel frattempo la ricerca, spiega Neil Lant, Research Fellow della Procter & Gamble, “ha dimostrato che le scelte dei consumatori per quanto concerne il bucato possono avere un impatto significativo e immediato sull’inquinamento da microfibra. Ciò non eliminerà il problema, ma potrebbe permetterci di operarne una significativa riduzione a breve termine mentre vengono sviluppate e commercializzate altre soluzioni tecnologiche, come filtri per lavatrice e indumenti a bassa dispersione”. 
fonte: www.rinnovabili.it


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Inquinamento marino: le microplastiche di superficie sono solo l’1% del totale

Quelle galleggianti in superficie sono soltanto la punta dell’iceberg. Il 99% delle microplastiche che finiscono in mare si deposita sui fondali. Una nuova ricerca ha campionato una piccola area del Tirreno scoprendo i livelli di concentrazione più elevati mai registrati sul fondo






Quella in superficie è solo la punta dell’iceberg, cioè 1% del totale. La maggiore concentrazione di plastica e microplastiche si trova sul fondo del mare, trasportata dalle correnti oceaniche e lì accumulatasi.

A rivelarlo è un nuovo studio pubblicato sulla rivista Science e condotta dalle Università di Manchester, di Durham e di Brema insieme al National Oceanography Centre e all’IFREMER. La ricerca ha mostrato come le correnti di acque profonde fungono da veri e propri “nastri trasportatori” che trascinano piccoli frammenti e fibre di plastica sui fondali profondi.

“Quasi tutti hanno sentito parlare delle famigerate isole di plastica galleggianti – ha spiegato Ian Kane, professore dell’Università di Manchester e autore principale dello studio – ma siamo rimasti scioccati dalle alte concentrazioni di microplastiche che abbiamo trovato nel mare profondo. Abbiamo scoperto che le microplastiche non sono distribuite uniformemente ma, al contrario, sparse dalle correnti profonde e concentrate in determinate aree”.

Le microplastiche depositate sui fondali sono costituite principalmente da fibre tessili e di abbigliamento: “frammenti” che, non essendo efficacemente filtrati dagli impianti di trattamento delle acque reflue domestiche, penetrano facilmente nei fiumi fino agli oceani. Qui, “catturati” dalle correnti, vengono trasportati lungo i canyon sottomarini, fino al fondale. Una volta nel mare profondo, le microplastiche sono “raccolte” dalle correnti di fondo, che le distribuiscono in modo non uniforme sui fondali.

Poiché tali correnti trasportano anche acqua ossigenata e sostanze nutritive, il rischio è che le microplastiche vadano a depositarsi in ecosistemi popolati da importanti comunità biologiche in grado di assorbirle.

Il team di ricercatori ha raccolto campioni di sedimenti dal fondo del Mar Tirreno combinandoli con modelli calibrati di correnti oceaniche profonde ed una dettagliata mappatura di fondali. In laboratorio, le microplastiche sono state separate dai sedimenti, contate al microscopio e ulteriormente analizzate mediante spettroscopia infrarossa per determinare i tipi di plastica e stabilire eventuali correlazioni con le aree in cui queste s’erano depositate. Oltre a dimostrare come le correnti controllano la ripartizione delle microplastiche sui fondali marini, lo studio ha anche rilevato i livelli di microplastiche più elevati mai registrati sul fondo, con concentrazioni fino a 1,9 milioni di frammenti su una superficie di un solo m2.

“La plastica è ormai diventata un nuovo tipo di sedimento che viene distribuito sul fondo del mare insieme a sabbia, fango e sostanze nutritive”, ha detto Florian Pohl del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Durham.
“La nostra ricerca – ha aggiunto il professor Mike Clare del National Oceanography Centre – ha dimostrato come studi dettagliati sulle correnti dei fondali marini possano aiutarci a collegare i percorsi di trasporto della microplastica in acque profonde e trovare così le microplastiche “mancanti”. I risultati evidenziano la necessità di interventi politici che limitino in futuro lo sversamento di plastica negli ambienti naturali riducano al minimo gli impatti sugli ecosistemi oceanici”.

Eppure, ricordano dall’IFREMER, ad oggi sono più di 10 milioni le tonnellate di rifiuti plastici che vengono ogni anno gettate negli oceani.

fonte: www.rinnovabili.it 


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Il km zero è un sogno per due terzi degli abitanti del pianeta: il sistema alimentare mondiale è sempre più globalizzato

















Consumare alimenti prodotti vicino a casa, il cosiddetto km zero, è vantaggioso per l’ambiente, perché abbatte l’impronta associata al trasporto e allo stoccaggio. Inoltre mette al riparo dagli effetti di eventi catastrofici ed emergenze globali come la pandemia da Covid-19. Ma non è alla portata di tutti. Al contrario, meno di un abitante della Terra su tre se lo può permettere, perché le filiere sono ormai globalizzate e perché in aree vastissime non ci sono le condizioni climatiche per far crescere, per esempio i cereali o altre colture fondamentali.
L’impossibilità di creare autosufficienza alimentare per tutti emerge da uno studio condotto da alcune università australiane, statunitensi ed europee coordinate da quella di Aalto, in Finlandia, pubblicato su Nature Food.  I ricercatori hanno creato un modello apposito considerando le condizioni climatiche minime per far crescere i cereali e legumi adatti ai vari climi temperati, tropicali… Hanno quindi calcolato la distanza tra colture e insediamenti umani, sia nella situazione attuale, che in un ipotetico scenario migliore, in cui lo spreco dovesse diminuire in misura significativa e i sistemi di coltivazione diventare più efficienti, ottenendo una situazione molto diversificata.
Se in Europa e Nord America i consumatori riescono ad avere la stragrande maggioranza dei cereali  che consumano da fonti situate entro 500 km, a livello globale la distanza media è di 3.800 km, e supera i mille km per una percentuale di popolazione che varia dal 26 al 64%. In generale  solo il 27% della popolazione mondiale ha accesso a cereali coltivati in zone temperate a meno di 100 km, valore che diventa 22% per quelli tropicali, 28% per il riso e 27% per i legumi. Per quanto riguarda il mais la percentuale scende ulteriormente, arrivando all’11%, un dato che più di ogni altro fotografa la grande concentrazione delle produzioni industriali di mais in enormi zone dedicate, mentre per i tuberi tropicali ci si ferma al 16%, per ragioni climatiche. Osservando poi la mappa dell’intera Terra preparata dagli autori, si nota come le popolazioni nella situazione peggiore che dipendono dall’importazione di alimenti essenziali siano quelle più povere e residenti nelle aree con il clima peggiore.
Per come è strutturato oggi il mercato, concludono i ricercatori, il sistema alimentare mondiale in definitiva non è in grado di assicurare l’autosufficienza a larghe fasce di popolazione. Ma migliorare la produzione locale e km zero avrebbe un sicuro impatto positivo da molteplici punti di vista, anche se in zone densamente popolate potrebbe esacerbare problemi di distribuzione e inquinamento delle acque. 
fonte: www.ilfattoalimentare.it

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Per una gestione sostenibile dei rifiuti e dei reflui nei porti

Prosegue l’attività del progetto GRRinPORT




Il progetto GRRinPORT è un progetto Interreg marittimo Italia-Francia della durata di 36 mesi avviato ad aprile del 2018. Il suo obiettivo è quello di migliorare la qualità delle acque marine nei porti, limitando l’impatto dell’attività portuale e del traffico marittimo sull’ambiente.

L’inquinamento delle acque, principale effetto negativo dell’attuale sistema di gestione dei rifiuti/reflui in ambito portuale, deriva soprattutto dalla scarsa informazione e sensibilizzazione dei fruitori del porto, da carenza/assenza delle infrastrutture di conferimento di rifiuti e reflui nei porti, ma anche dalla necessità per i fruitori di doversi adattare a regole/procedure diverse in ogni porto/paese.

In questo scenario, il progetto mira a ricollocare le strutture portuali in un contesto eco-sostenibile ed eco-innovativo con un approccio di cooperazione transfrontaliera, basato su alcuni elementi di innovatività.
Le attività svolte nell'ambito del progetto negli ultimi mesi

Il DICAAR (Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura) dell’Università di Cagliari sta procedendo all’individuazione delle aree su cui installare materiali assorbenti, a basso costo e ridotto impatto ambientale, per il contenimento e la rimozione di idrocarburi e altre sostanze sversati accidentalmente nelle acque dei porti, così come previsto dalla relativa azione pilota.

Il DiSB (Dipartimento di Scienze Biomediche) dell’Università di Cagliari sta operando la caratterizzazione delle proprietà fisiologiche e dell’ecologia di nuovi ceppi batterici precedentemente selezionati dal Porto di Cagliari nell’ambito del progetto ENPI CBC MED MAPMED.

Le attività in corso stanno dimostrando che si tratta di batteri mai indagati in precedenza e dotati della capacità di degradare idrocarburi tossici che possono persistere molto a lungo nei sedimenti marini. Questi batteri saranno impiegati in GRRinPORT per velocizzare trattamenti di bonifica di sedimenti portuali.

Mediante tecniche di sequenziamento ad alta efficienza, il DiSB sta definendo quali inquinanti antropici (es. metalli, idrocarburi) hanno un effetto sulle comunità batteriche che naturalmente colonizzano le acque ed i sedimenti dei porti con la finalità ultima di identificare metodologie di monitoraggio della qualità delle acque portuali basate sulle comunità batteriche.

Il DICAAR sta inoltre procedendo all’analisi degli interventi da proporre nel Piano d’Azione per la gestione sostenibile dei reflui nei porti: tra questi l’area attrezzata con il sistema per l’aspirazione e il convogliamento dei reflui dalle imbarcazioni per la quale si sta valutando il posizionamento assieme all’Autorità Portuale di Cagliari.

Dopo il Porto di Ajaccio, anche i porti di Livorno e Cagliari avranno le postazioni per la raccolta differenziata degli oli vegetali usati. La localizzazione di queste aree e delle aree di raccolta dei rifiuti differenziati presso i moli e banchine dedicate al diporto a Cagliari, Livorno ed Ajaccio verrà comunicata tramite la App predisposta dalla Fondazione MEDSEA di cui a breve ci sarà un aggiornamento.

Il DESTEC (Dipartimento di Ingegneria dell’Energia, dei Sistemi, del Territorio e delle Costruzioni) dell’Università di Pisa ha ultimato le attività di analisi dei campionamenti dei sedimenti finalizzate all’individuazione di matrici con livelli di inquinamento adatti sia per i test di bonifica effettuati tramite elettrocinesi che per quelli biologici (Enhanced Landfarming) presso il porto di Piombino. Sono inoltre state realizzate due tipologie di prove a scala di laboratorio sia di Elettrocinesi che di Enhanced Landfarming che hanno permesso di condurre studi di ecologia batterica e fungina del processo di degradazione biologica degli idrocarburi pesanti.

Il DESTEC ha inoltre avviato l’allestimento degli impianti da banco e sono in fase di programmazione una serie di test pilota che si svolgeranno nel "box reattori" dedicato presso la sede DESTEC-UNIPI. I lavori di progettazione dell’impianto pilota di elettrocinesi si sono conclusi e sono iniziate le prime prove di collaudo sia in bianco (con un campione di riferimento) che a caldo (terminato il collaudo dell'impianto stesso).

ISPRA ha partecipato ad un tavolo di confronto promosso dal capofila del progetto Sediterra, INSA (Progetto IT/FR Marittimo). Tale riunione, svolta a Lione il 4 e 5 febbraio 2020, ha avuto come finalità un confronto tecnico e analitico con altre realtà partenariali e un’elaborazione specifica dei dati ottenuti dall’applicazione di diverse tecniche di trattamento di sedimenti contaminati durante il quale sono stati presentati anche i risultati analitici scaturiti dalle prove sperimentali di trattamento dei sedimenti portuali, condotte da ISPRA a Livorno mediante l’impianto pilota di separazione meccanica e comparati con quelli effettuati da INSA a Tolone .

fonte: http://www.arpat.toscana.it

Tessuti sintetici e rilascio di microfibre durante i lavaggi in lavatrice

Uno studio italiano fa comprendere quale sia il contributo all'inquinamento marino, e non solo, dei lavaggi in lavatrice dei nostri capi di abbigliamento in materiali sintetici





Uno studio del CNR contribuisce a fare chiarezza su cosa accade ai tessuti sintetici e misto sintetico durante la fase di lavaggio in una normale lavatrice di tipo domestico. Gli scarichi della lavatrice sono stati collettati e le acque filtrate da una sequenza di filtri con porosità diversa e decrescente per definire con maggiore esattezza la quantità e la dimensione delle microfibre rilasciate.

I risultati dello studio italiano mostrano che, durante un normale lavaggio in lavatrice, vengono rilasciate da 124 a 308 mg per kg di microfibre tessili, questo range è influenzato dal tipo di indumento lavato, in particolare della natura del filato e dalla torsione dello stesso.

Diversi studi in questo ambito evidenziano come l’inquinamento marino dovuto alle microfibre tessili di tipo sintetico incida per il 35%. Non vi è da stupirsi se si considera che l’utilizzo di microfibre sintetiche costituisce il 60% delle materiale utilizzato dall’industria tessile e moda, che ogni anno ne utilizza 69,7 Mt., mentre, i lavaggi a livello domestico si aggirano, su scala globale, intorno a 840 milioni con un consumo di 20 km cubi di acqua e 100 TWh di energia.

Pensando a questi dati si comprende come il problema sia rilevante. Le mircofibre tessili si creano a seguito sia di uno “stress” chimico che meccanico del materiale tessile durante il processo di lavaggio in lavatrice, per questo molte ricerche cercano di capire come intrappolare, con appositi filtri, la maggiore quantità di fibre in modo che non risultino una fonte di inquinamento per il nostro ambiente.

Queste, infatti, possono finire sia nel suolo attraverso i fanghi di depurazione, spesso utilizzati anche in agricoltura, sia nei nostri mari, dove, inevitabilmente, vengono ingerite dai pesci e dai molluschi, finendo nella catena alimentare, e mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza di alcune specie ittiche.



In questo studio, pubblicato su Nature, sono state utilizzate 4 differenti magliette (T-shirt) due di poliestere al 100%, con strutture simile ma non identiche, una di poliestere ma con il 65% di materiale riciclato ed infine una con materiali misti: poliestre, cotone e modal.

Queste magliette sono state sottoposte a normali lavaggi in lavatrice da 2 - 2,5 kg di carico con uso del detergente ma allo scarico della lavatrice sono stati apposti dei filtri di diverse dimensioni per intrappolare le fibre rilasciate.

Lo studio riporta gli esiti dopo il primo lavaggio, e nei lavaggi successivi, con riferimento ai diversi tessuti impiegati.

Dopo il primo lavaggio emerge che
le maglie in poliestere al 100% (identificate con le sigle BT e RT nell’immagine che segue) rilasciano una quantità similare di microfibre, perché hanno una struttura e un filato con caratteristiche simili; rispettivamente BT rilascia 1,1000,000 microfibre mentre RT 770,000
la maglia contenente poliestere riciclato (contrassegnata dalla sigla GB) si comporta diversamente dalle precedenti, rilasciando una minore quantità di particelle tessili, ovvero 640,000
la maglietta con materiali diversi, poliestere, cotone e modal (contrassegnata dalla sigla GT), risulta quella con il maggior numero di microfibre rilasciate, pari a 1,500,000.


Per quanto riguarda i filtri, quello che trattiene maggiormente le microfibre, in fase di lavaggio dei tessuti, risulta quello con porosità 60 micrometro. Per tutte le 4 magliette, infatti, questo si mostra in grado di trattenere ii 75-80% del totale delle microfibre rilasciate.

Nei lavaggi successivi, sono state utilizzate solo due diverse magliette: quella in poliestere al 100% (con sigla BT) e quella con materiale misto, poliestere, cotone e modal (con la sigla GT).

Verificando e confrontando il comportamento di questi diversi tessuti nei lavaggi successivi emerge che:
dopo il 4° o 5° lavaggio, le microfibre rilasciate dalla maglietta in 100% poliestere (BT) tendono a stabilizzarsi mentre quelle della maglietta connotata dalla sigla GT tendono a diminuire.

Lo studio, in conclusione, conferma che il lavaggio dei tessuti in lavatrice contribuisce all’inquinamento delle acque superficiali e marine. Le microfibre rilasciate dai diversi indumenti utilizzati vanno da un range di 124 a 308 mg per kg che corrisponde ad un numero di fibre da 640,000 a 1,500,000.

Visualizza "The contribution of washing processes of synthetic clothes to microplastic pollution"

fonte: http://www.arpat.toscana.it